conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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davintro

Volevo parlare del problema della critica della conoscenza, cioè di quell'ambito della filosofia, definibile come epistemologia, che si preoccupa di stabilire i principi e le condizioni fondanti la conoscenza scientifica. La mia opinione è che la possibilità di qualunque critica, di qualunque epistemologia, presupponga a sua volta un metalivello di conoscenza il cui riconoscimento dovrebbe portare a rifiutare certi modelli di conoscenza che presentino caratteristiche incompatibili con tale riconoscimento. Mi riferisco in particolare al paradigma empirisitico che, seppur riformulato con importanti varianti, ha pesantemente condizionato la gnoseologia kantiana con il suo rifiuto di una conoscenza razionale della metafisica (ridotta di fatto ad un'esigenza della morale). Per Kant il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, di una realtà spirituale o intellegibile  come Dio o l'anima non possiamo, razionalmente, sapere nulla. Ora, la mia opinione è che queste tesi siano incompatibili con la possibilità di una critica della conoscenza stessa come prova a fare Kant, critica tesa a far emergere degli elementi della nostra mente che hanno un significato trascendentale, cioè indipendente dalla contingenza spaziotemporale della realtà sensibile, che rendano necessariamente possibile la conoscenza di tale realtà. In altre parole: come potrebbe Kant riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. se poi sostiene che il materiale della conoscenza è solo sensibile e spazio-temporalmente delimitato? A mio avviso il tipo di conoscenza che rende possibile una critica della conoscenza, in cui possiamo parlare di concetti aventi valore universalistico come "tempo in sè", spazio in sè" "causalità in sè" non può essere dello stesso tipo di conoscenza che Kant vorrebbe fondata, quella conoscenza che esteticamente può solo ricevere materiale sensibile. E non basta per risolvere il problema dire che le categorie intelligibili sono solo "funzioni", mezzi che la mente usa per ordinare ai fini di una conoscenza scientifica il materiale dell'esperienza che è sempre sensibile. Non basta perchè, come è evidente, una cosa per "funzionare" non ha per forza bisogno di essere riconosciuta dal soggetto a cui le funzioni appartengono, potrebbe limitarsi a svolgere un "lavoro silenzioso". Nel momento in cui invece le condizioni a-priori della conoscenza divengono oggetti di un sapere, il sapere della critica, queste condizioni non sono più solo "funzioni" ma oggetti di una conoscenza (potremmo dire, una "metaconoscenza"), non sono più forme vuote da riempire con un materiale sensibile, ricavato dal mondo fisico, ma divengono esse stesse il MATERIALE della conoscenza, un materiale intelligibile, e bisogna dunque smentire l'idea che l'unico materiale sui cui l'esperienza umana può conoscere e giudicare sia sensibile. Così la possibilità della conoscenza che fonda la critica della conoscenza stessa riapre a mio avviso la strada per il riconoscimento di una conoscenza diretta della reltà intelligibile e dunque legittima il recupero di una metafisica e  di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia


In fondo, è sempre stato questo il limite di ogni empirismo materialista affermante che tutto ciò che possiamo conoscere va appreso  in modo sensibile e deve limitarsi alla realtà fisica delle cose che si manifestano nella contingenza e mutevolezza della conoscenza, mentre tutto ciò che va oltre la spazio-temporalità dovrebbe essere ridotto a dogmatismo e fideismo. Questa posizione si autocontraddice nel momento in cui usa la parolina "tutto", e si afferma così l'impossibilità assoluta di una conoscenza che vada oltre la realtà spazio temporale finendo con l' assumere un punto di vista a sua volta assoluto, che pretenda di  valere al di là della limitatezza spazio temporale. Da dove si ricaverebbe l'idea di "tutto", di "totalità" in base a cui escludo la possibilità della conoscibilità di una realtà intelligibile indipendente dalla contingenza spazio-temporale? Non sarebbe questo ricavare a sua volta il frutto di una visione metafisica e sovrasensibile? Il concetto di totalità" è qualcosa di fisico e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato? Non  credo proprio...


Il tema è ovviamente estremamente complesso e spero di aver realizzato un sintesi sufficientemente chiara... Buon ferragosto a tutti!

paul11

#1
Galileo era un fisico ante litteram, che si è messo a scrivere di filosofia.
Cartesio era un matematico che si era messo a scrivere di filosofia.
Kant è un filosofo che vuole portare nell'alveo delle scienze la filosofia.
L'umanesimo è il progetto storico culturale in cui l'uomo viene posto al centro dell'attività conoscitiva, falsamente purtroppo, perchè la cultura giustamente come scrivi davintro, viene focalizzata sul sensibile.

Kant dice due cose fondamentali nei suoi scritti già nelle premesse.La sua intenzione è rendere scientifica la filosofia e quindi smette di discutere di metafisica. Riconosce che c'è qualcosa e si inventa il noumeno,come dire scrivo ? (punto interrogativo) e scriverà che saranno altri più bravi di lui a spiegarlo.

Lo spazio e il tempo Kant li argomenta così poco mentre la morale la fonda sull'esperienza, sulla storia, sullo "stato d'animo" .Il problema è che la morale diventa pratica e quindi indagato come un fenomeno, e lo sarà di più ancora dopo di lui nelle scienze moderne, ma non essendoci nulla di ontologico non c'è nessun primitivo fondativo per cui la morale diventa opinione, oppure non esiste, oppure è quella del "più forte".

Non sono un anti-scientifico, anzi, ma infastidisce l'arrogante  visione "filosofica" delle scienze,il modello di approccio culturale.
Prendo, estraendolo dall'intero universo, un oggetto fenomenico, un essente filosoficamente, e penso che la sua essenza sia riducibile ad una sua esistenza in sè e per sè come se fosse avulso dal mondo intero.
Non c'è nulla che esiste in sè e per sè senza un sistema di relazione, sarebbe impossibile descriverlo.
Il tempo in sè e per sè cosa mi dice, cosa significa che senso ha senza predicazioni come eterno e divenire senza relazioni con oggetti.La categorizzazione diventa quella che ormai è diventata una mostruosa babele di inventari di oggetti fisici di cui è impossibile avere una totale conoscenza e relazionarla.La scienza è quantitativa, la filosofia è qualitativa. L'una vede il negativo, l'altro il positivo:entrambi possono servire se riunite.
Se gli essenti non vengono ricondotti all'essere anche il metafisico rischia anche inconsapevolmente di adottare il modello scientifico per  spiegare la metafisica, diventa contraddizione della contraddizione.

sgiombo

Citazione di: davintro il 15 Agosto 2016, 18:26:43 PMConcordo con Kant che il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, e che di una realtà spirituale o intellegibile  come Dio o l'anima -ammesso che esistano- non possiamo, razionalmente, sapere nulla.
 
L' empirismo "classico" (in particolare Locke, Berkeley, Hume), come anche Kant, non limitano le sensazioni a quelle esteriori-materiali (le quali, essendo misurabili tramite rapporti esprimibili da numeri, vanno ritenute scientificamente conoscibili, se se ne ammette anche l' intersoggettività; indimostrabile: Hume!); essi non ignorano (la realtà anche del-) le sensazioni interiori o mentali.
Sono casomai molti neuroscienziati e filosofi della mente monisti materialisti odierni che indebitamente lo fanno.
 
Gli empiristi possono correttamente riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. (e razionalmente criìticarle) per il fatto che non limitano il "materiale della conoscenza" alle sole sensazioni materiali-esteriori ma ammettono anche la realtà di quelle interiori-mentali come le astrazioni (per gli empiristi -non per Kant, che infatti a mio parere le tratta in maniera inadeguata- queste sono le categorie di "causalità", "tempo", "spazio" ecc.).
 
Considerando con l' empirismo e contro Kant tali concetti non come "condizioni a-priori della conoscenza" ma come astrazioni a posteriori dai dati sensibili a mio parere si può benissimo fondare una corretta gnoseologia (o epistemologia, come è diventato più di moda dire).
 
Per me una pretesa "conoscenza diretta della realtà intelligibile che legittimerebbe il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia" non supera il vaglio del dubbio metodico razionalistico cartesiano: può essere una credenza infondata, irrazionale, non una conoscenza criticamente, razionalmente fondata.

L' empirismo è una cosa, il materialismo è un' altra diversa cosa (per esempio Berkeley era empirista e idealista).
Ripeto che l' empirismo non limita affatto la conoscenza alla sola realtà fisica delle cose che si manifestano (cose fenomeniche: "esse est percipi"!) nel tempo e nello spazio, le cose materiali, ma la estende anche alle cose che si manifestano nel pensiero e dunque non nello spazio, alle cose mentali.
 
L'idea di "tutto", di "totalità" si "confeziona" mentalmente per astrazione: ovvio che non sia qualcosa di fisico -concreto- e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato, ma un concetto che astraiamo col pensiero da molteplici percezioni empiriche di oggetti particolari-concreti che sperimentiamo empiricamente in molteplici tempi e molteplici luoghi delimitati, particolari e concreti.
 
@ Pul11:
 
Per me Galileo era un filosofo che si è messo a coltivare soprattutto scienza fisica e Cartesio era un filosofo (ottimi entrambi!) che si è messo a coltivare (oltre a tantissimi altri interessantissimi campi del sapere) anche la matematica e la geometria.

davintro

#3
Citazione di: sgiombo il 28 Agosto 2016, 22:02:45 PM
Citazione di: davintro il 15 Agosto 2016, 18:26:43 PMConcordo con Kant che il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, e che di una realtà spirituale o intellegibile come Dio o l'anima -ammesso che esistano- non possiamo, razionalmente, sapere nulla.  L' empirismo "classico" (in particolare Locke, Berkeley, Hume), come anche Kant, non limitano le sensazioni a quelle esteriori-materiali (le quali, essendo misurabili tramite rapporti esprimibili da numeri, vanno ritenute scientificamente conoscibili, se se ne ammette anche l' intersoggettività; indimostrabile: Hume!); essi non ignorano (la realtà anche del-) le sensazioni interiori o mentali. Sono casomai molti neuroscienziati e filosofi della mente monisti materialisti odierni che indebitamente lo fanno.  Gli empiristi possono correttamente riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. (e razionalmente criìticarle) per il fatto che non limitano il "materiale della conoscenza" alle sole sensazioni materiali-esteriori ma ammettono anche la realtà di quelle interiori-mentali come le astrazioni (per gli empiristi -non per Kant, che infatti a mio parere le tratta in maniera inadeguata- queste sono le categorie di "causalità", "tempo", "spazio" ecc.).  Considerando con l' empirismo e contro Kant tali concetti non come "condizioni a-priori della conoscenza" ma come astrazioni a posteriori dai dati sensibili a mio parere si può benissimo fondare una corretta gnoseologia (o epistemologia, come è diventato più di moda dire).  Per me una pretesa "conoscenza diretta della realtà intelligibile che legittimerebbe il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia" non supera il vaglio del dubbio metodico razionalistico cartesiano: può essere una credenza infondata, irrazionale, non una conoscenza criticamente, razionalmente fondata. L' empirismo è una cosa, il materialismo è un' altra diversa cosa (per esempio Berkeley era empirista e idealista). Ripeto che l' empirismo non limita affatto la conoscenza alla sola realtà fisica delle cose che si manifestano (cose fenomeniche: "esse est percipi"!) nel tempo e nello spazio, le cose materiali, ma la estende anche alle cose che si manifestano nel pensiero e dunque non nello spazio, alle cose mentali.  L'idea di "tutto", di "totalità" si "confeziona" mentalmente per astrazione: ovvio che non sia qualcosa di fisico -concreto- e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato, ma un concetto che astraiamo col pensiero da molteplici percezioni empiriche di oggetti particolari-concreti che sperimentiamo empiricamente in molteplici tempi e molteplici luoghi delimitati, particolari e concreti.  @ Pul11:  Per me Galileo era un filosofo che si è messo a coltivare soprattutto scienza fisica e Cartesio era un filosofo (ottimi entrambi!) che si è messo a coltivare (oltre a tantissimi altri interessantissimi campi del sapere) anche la matematica e la geometria.

Quando mi riferivo all'empirismo che avrebbe condizionato pesantemente la critica kantiana avevo in mente il paradigma della mente "tabula rasa" che può essere riempita solo da informazioni provenienti dal contatto corporeo con il mondo esterno. Essendo il mondo esterno costituito da oggetti fisici che entrano in contatto fisico con il nostro corpo mi sembra che, inteso così, l'empirismo scada necessariamente nel materialismo. Non avevo in mente la posizione di Berkeley, che riconducendo l' "essere" alla percezione di fatto toglie al reale qualunque fisicità trascendente e dunque di fatto giunge a una sorta di immaterialismo estremo con evidenti venature teologiche, nel quale Dio viene chiamato in causa come necessarrio soggetto percepiente sostiene l'essere delle cose anche quando queste smettessero di essere percepite dagli uomini. Tutto l'opposto del materialismo direi! (ne avevamo già parlato)

Dissento dall'idea che la presenza alla nostra mente dell'idea di totalità sia il prodotto dell'astrazione. Al contrario ritengo sia l'opposto, sia l'astrazione che presuppone per la sua possibilità di porsi in atto l'apprensione originaria e innata dell'idea di universalità. Provo a spiegarmi meglio. Se per astrazione intendiamo un processo mentale per cui si osserva una serie limitata di oggetti individuali (preferisco qui non parlare di "concretezza) finchè non si scorgono degli elementi comuni che poi vengono sintetizzati in un concetto generale (il concetto di cavallo, di casa...) mi sembra che tutto ciò determini il CONTENUTO di tali concetti. Il concetto di cavallo, di casa è riempito da delle caratteristiche osservate nell'esperienza dei singoli cavalli e delle singole case, dunque l'astrazione è per l'uomo una condizione necessaria della concettualizzazione. Non ne è però condizione sufficiente, perchè non può determinare la FORMA, il modo d'essere in cui rendo questi concetti significanti, il carattere di universalità. Il concetto di "casa" non  è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che ho appreso osservando nel tempo singole case, ma ha un riferimento all'universalità che fà sì che il concetto di casa abbia per me un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non ho ancora mai concretamente percepito e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle da me realmente percepite. Ora, come potrebbe l'astrazione produrre un concetto universale di "casa" comprendente nel suo significato anche case finora mai percepite se essa è un'operazione limitata dall'esperienza spazio-temporale di alcune case da cui astrae? Dove troverebbe l'astrazione l'esperienza di tutte le case, comprese quelle su cui non ha ancora applicato la sua opera e che pure rientrano a pieno titolo nel concetto? Dove coglie il carattere universale del concetto se il materiale a cui si applica è solo empiricamente delimitato? Un'astrazione che operasse senza ammettere come indipendente da essa la nozione di universalità dovrebbe limitarsi a rilevare mnemonicamente somiglianze e associazioni tra alcune qualità negli oggetti percepiti, ma non potrebbe mai arrivare a creare concetti universali, valenti anche per oggetti particolari non ancora percepiti, perchè l'universalità, per definizione, è un concetto che si contrappone a "particolare" o "empirico" ed è assurdo che sia proprio l'esperienza dei particolari a farmela riconoscere, a offrirla come materiale per l'astrazione, quest'ultima è limitata dalla contingenza dagli oggetti verso cui si rivolge (è vero che ogni nuova esperienza del particolare modifica il CONTENUTO dei concetti, la determinazione qualitativa con cui riempio il mio concetto di "casa" può mutare in base a nuove esperienze di singole case, ma la FORMA del concetto, il suo riferimento universalistico resta costante, in ogni momento il concetto di casa che provvisoriamente ho lo intenziono come valente per tutte le case possibili). L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente, ma proprio questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile

Phil

Secondo me l'"astrazione formale" è semplicemente un'operazione logica: ciò che si astrae è proprio la forma, per cui quando vedo due mele, due alberi o due persone, astraggo il concetto formale di "coppia", che potrà essere poi applicato (o "suscitato") anche a coppie che non avevo mai visto prima, proprio in quanto astratto e formalizzato (una volta astratta la forma logica dell'esser-due di qualcosa, posso riconoscerla anche altrove...). 

Come è possibile astrarre allora l'universalità, che in quanto tale non è esperibile? Tramite la cosiddetta "astrazione negativa": individuo (o congetturo) in qualcosa l'assenza di una astrazione pertinente che ho già formalizzato... ad esempio, se ho il concetto astratto (e formale) di "bellezza", guardando qualcosa di brutto non lo potrò assimilare alla bellezza, allora lo considererò non-bello (brutto, appunto), così come, avendo il concetto formale di finito, per astrazione negativa potrò concepire la possibilità del non-finito (infinito); lo stesso dicasi per particolare/universale, umano/divino(o meglio, non-umano), materiale/immateriale, etc... una volta astratta la forma logica di un dato, se ne ottiene un'altra (più o meno legittima) semplicemente usando la negazione.

sgiombo

Citazione di: davintro il 29 Agosto 2016, 18:21:45 PM


Quando mi riferivo all'empirismo che avrebbe condizionato pesantemente la critica kantiana avevo in mente il paradigma della mente "tabula rasa" che può essere riempita solo da informazioni provenienti dal contatto corporeo con il mondo esterno. Essendo il mondo esterno costituito da oggetti fisici che entrano in contatto fisico con il nostro corpo mi sembra che, inteso così, l'empirismo scada necessariamente nel materialismo. Non avevo in mente la posizione di Berkeley, che riconducendo l' "essere" alla percezione di fatto toglie al reale qualunque fisicità trascendente e dunque di fatto giunge a una sorta di immaterialismo estremo con evidenti venature teologiche, nel quale Dio viene chiamato in causa come necessarrio soggetto percepiente sostiene l'essere delle cose anche quando queste smettessero di essere percepite dagli uomini. Tutto l'opposto del materialismo direi! (ne avevamo già parlato)

Dissento dall'idea che la presenza alla nostra mente dell'idea di totalità sia il prodotto dell'astrazione. Al contrario ritengo sia l'opposto, sia l'astrazione che presuppone per la sua possibilità di porsi in atto l'apprensione originaria e innata dell'idea di universalità. Provo a spiegarmi meglio. Se per astrazione intendiamo un processo mentale per cui si osserva una serie limitata di oggetti individuali (preferisco qui non parlare di "concretezza) finchè non si scorgono degli elementi comuni che poi vengono sintetizzati in un concetto generale (il concetto di cavallo, di casa...) mi sembra che tutto ciò determini il CONTENUTO di tali concetti. Il concetto di cavallo, di casa è riempito da delle caratteristiche osservate nell'esperienza dei singoli cavalli e delle singole case, dunque l'astrazione è per l'uomo una condizione necessaria della concettualizzazione. Non ne è però condizione sufficiente, perchè non può determinare la FORMA, il modo d'essere in cui rendo questi concetti significanti, il carattere di universalità. Il concetto di "casa" non  è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che ho appreso osservando nel tempo singole case, ma ha un riferimento all'universalità che fà sì che il concetto di casa abbia per me un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non ho ancora mai concretamente percepito e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle da me realmente percepite. Ora, come potrebbe l'astrazione produrre un concetto universale di "casa" comprendente nel suo significato anche case finora mai percepite se essa è un'operazione limitata dall'esperienza spazio-temporale di alcune case da cui astrae? Dove troverebbe l'astrazione l'esperienza di tutte le case, comprese quelle su cui non ha ancora applicato la sua opera e che pure rientrano a pieno titolo nel concetto? Dove coglie il carattere universale del concetto se il materiale a cui si applica è solo empiricamente delimitato? Un'astrazione che operasse senza ammettere come indipendente da essa la nozione di universalità dovrebbe limitarsi a rilevare mnemonicamente somiglianze e associazioni tra alcune qualità negli oggetti percepiti, ma non potrebbe mai arrivare a creare concetti universali, valenti anche per oggetti particolari non ancora percepiti, perchè l'universalità, per definizione, è un concetto che si contrappone a "particolare" o "empirico" ed è assurdo che sia proprio l'esperienza dei particolari a farmela riconoscere, a offrirla come materiale per l'astrazione, quest'ultima è limitata dalla contingenza dagli oggetti verso cui si rivolge (è vero che ogni nuova esperienza del particolare modifica il CONTENUTO dei concetti, la determinazione qualitativa con cui riempio il mio concetto di "casa" può mutare in base a nuove esperienze di singole case, ma la FORMA del concetto, il suo riferimento universalistico resta costante, in ogni momento il concetto di casa che provvisoriamente ho lo intenziono come valente per tutte le case possibili). L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente, ma proprio questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile

Citazione
Concordo che Il concetto di "casa" [ovviamente inteso qui come esempio di qualsiasi concetto astratto] non è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che sono state apprese osservando nel tempo singole case, ma ha un "riferimento all'universalità (anche potenziale)" che fà sì che il concetto di casa abbia un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non sono ancora state mai di fatto concretamente percepite e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle realmente percepite.
E' una nozione (percepita interiormente, mentalmente allorché la si pensa, cosa sempre in linea di principio potenzialmente realizzabile una volta che si sia definito il concetto; e a ben vedere "potenzialmente" anche prima, anche di quei concetti astratti che mai saranno di fatto, "attualmente" definiti).
E tuttavia, secondo le mie convinzioni, è una nozione che necessariamente, inevitabilmente di fatto nasce (anche: non limitandosi ad essa, ma "applicandovi considerazioni teoriche ulteriori") dalla distinzione (dalla "considerazione separata", per così dire) "a posteriori" di ciò che è comune da ciò che è singolare (o comunque "non così tanto comune"; anche solo meno generalmente astratto, e che potrà dar luogo ad altri concetti relativamente meno generali) nell' ambito di più esperienze sensibili particolari concrete effettivamente avvertite (anche interiori o mentali: concetto di "sentimento" dai singoli concreti, particolari sentimenti -di letizia, paura, soddisfazione, amore, odio, ecc.- di fatto provati).
Le considerazioni teoriche ulteriori che è necessario applicare all' astrazione sono però per me mere "potenzialità comportamentali creativamente applicabili a posteriori dal pensiero alle percezioni": niente di innato in quanto nozione, cioè niente di "già saputo prima delle esperienze sensibili", ma qualcosa di innato solo in quanto mera potenzialità, tendenza comportamentale (conseguente l' evoluzione biologica): si può paragonare, per restare nella metafora degli empiristi, alle "caratteristiche fisiche della tabula rasa" (come il fatto che sia più o meno liscia, dura, scalfibile con uno scalpello oppure solo ricopribile da un certo tipo di vernice o da un certo tipo di inchiostro e non da altri tipi, o che sia più o meno grande e di una forma piuttosto che di un' altra) "preesistenti alla scrittura su di essa", e tali da potervi scrivere solo in certi modi e non in altri, entro certi limiti (quantitativi e qualitativi), da potervi imporre certe "iscrizioni" e non altre, ecc.; oppure –sempre nella metafora- potrebbero essere paragonate a scalpelli, inchiostri, ecc. usati per scrivere sulla tavola; o forse piuttosto alla "creatività dello scrivente".
(Mi rendo perfettamente conto e devo tranquillamente ammettere che l' abuso delle virgolette è un indice della complessità della questione e anche della difficoltà di trattarla da parte mia; ma altro modo di farlo correttamente da questo "empiristico" non vedo).
Dunque l' astrazione "a posteriori" dall' esperienza (dalle sensazioni particolari concrete) non è sufficiente ma comunque necessaria (una conditio sine qua non) della formulazione di concetti e nozioni generali astratte.
E perfino la nozione di "universalità" stessa (come ogni altro concetto astratto) nasce anch' essa "a posteriori" da queste operazioni di astrazione ed ulteriori considerazioni teoriche (che non sono propriamente "nozioni innate a priori" -nessuno "le sa" o "le conosce" prima di fare esperienza del mondo, se stesso compreso- ma solo potenzialità o tendenze comportamentali del pensiero): astrazione dalle varie "universalità relative" o "relativamente concrete": ciò che è comune al concetto di "casa" a quello di "animale", a quelli di "montagna", di "mare", a quello di "sentimento", ecc. e non ai concetti particolari concreti di certe singole case, certi singoli animali, ecc.); processi di astrazione ed ulteriori considerazioni teoriche che possono procedere fino alle astrazioni "ultime" o "non ulteriormente sottoponibili ad astrazione", come i concetti di "tutto", di "essere" o di "realtà".
Concordo che "L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente"; e che questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza [della sola astrazione, senza ulteriori considerazioni od operazioni teoriche] nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile [in quanto arbitrariamente stabilito per definizione].
 
(Ti ringrazio sentitamente per avermi costretto a rielaborare, emendare, completare, cercare di affinare le mie convinzioni empiristiche!).


davintro

#6
Rispondo a Phil

mmmhhh non mi convince l'idea di riportare l'idea di universalità al rilevamento di un'assenza, della negazione del concetto ad essa opposto, così come la bruttezza potrebbe essere ricavata dalla negazione di "bellezza" e l' "infinito" dalla negazione di "finito". Questo perchè il concetto di universalità si fa presente alla mente non solo come oggetto di un sapere che riflette su esso, ma anche, come scritto prima, nella stessa forma di qualunque concetto, anche il concetto della cosa più banale. In qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. Quindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. L'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone. Del resto credo che l'accezione formale di universalità sia quella comune alla maggior parte dell'umanità, i non-filosofi, che senza bisogno di mettersi a riflettere sull'universalità comunque utilizzano nella loro quotidianità, nei loro pensieri, nel loro linguaggio, concetti e categorie a cui attribuiscono un significato universale, mentre l'accezione materiale, per la quale l'universalità diviene non solo forma ma oggetto di una specifica riflessione e attenzione è riservata prevalentemente ai filosofi, o comunque a chi pensa filosoficamente, direi un'elite... Ciò non toglie che l'individuazione del sapere che permette all'uomo di accedere alla conoscenza dell'universalità, come il sapere che sta alla base di ogni gnoseologia, come la critica kantiana, sia un problema filosoficamente fondamentale

Rispondo a Sgiombo

La "potenzialità" fintanto che resta tale, non produce alcun effetto sulla realtà e quindi non può essere considerata come una spiegazione sufficiente per un fenomeno. Dire che la nostra mente è predisposta potenzialmente a dare un significato universalistico ai concetti sposta il problema ma non lo risolve: potremmo chiederci, perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro. La potenzialità di qualcosa è sempre la conseguenza di una causalità attuale che rende la cosa potenziale per qualcosa e non per altro. Deve esserci dunque un'attualità nella mente che rende possibile a questa l'apprensione dell'idea di universalità. E da cosa deriverebbe questa attualità? Dall'astrazione a-posteriori degli oggetti individuali? Ma se questa non è autosufficiente per realizzarsi (come tu stesso mi sembra in qualche modo abbia riconosciuto) ma necessita di un fattore ulteriore come il modo d'essere soggettivo di una mente predisposta allora cadiamo in un impasse argomentativo, un circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile. Ecco perchè trovo per ora più convincente ammettere due distinti tipi di intuizioni. un'intuizione sensibile, adeguata a cogliere l'oggetto individuale in un'esperienza spazio-temporalmente  delimitata, e un'intuizione intellettuale innata, assolutamente non meno concreta e attuale della prima, con cui apprendiamo la nozione di universalità, totalità che poi usiamo anche (ma non solo) come forma dei concetti a cui l'intuizione sensibile dà un contenuto. E dalla collaborazione tra queste due diverse modalità di apprensione nasce la la concettualizzazione del mondo sensibile.

Non ho ben capito il concetto di "universalità relative". In cosa consisterebbero? A prima vista mi sembrerebbe un'ossimoro... relativizzare vuol dire per me sempre particolarizzare, dunque perdere di vista l'universalità in quanto tale. Ecco perchè la nozione di universalità non può essere un' "astrazione ultima", per il semplice motivo che un'astrazione in quanto tale non potrà mai essere "ultima", la realtà a cui si rivolge è il contingente, ciò che in qualunque momento può offrire nuovi oggetti all'osservazione costringendo l'astrazione a non poter mai essere definitiva e ultima

sgiombo

#7
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AM
Rispondo a Sgiombo

La "potenzialità" fintanto che resta tale, non produce alcun effetto sulla realtà e quindi non può essere considerata come una spiegazione sufficiente per un fenomeno. Dire che la nostra mente è predisposta potenzialmente a dare un significato universalistico ai concetti sposta il problema ma non lo risolve: potremmo chiederci, perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro. La potenzialità di qualcosa è sempre la conseguenza di una causalità attuale che rende la cosa potenziale per qualcosa e non per altro. Deve esserci dunque un'attualità nella mente che rende possibile a questa l'apprensione dell'idea di universalità. E da cosa deriverebbe questa attualità? Dall'astrazione a-posteriori degli oggetti individuali? Ma se questa non è autosufficiente per realizzarsi (come tu stesso mi sembra in qualche modo abbia riconosciuto) ma necessita di un fattore ulteriore come il modo d'essere soggettivo di una mente predisposta allora cadiamo in un impasse argomentativo, un circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile. Ecco perchè trovo per ora più convincente ammettere due distinti tipi di intuizioni. un'intuizione sensibile, adeguata a cogliere l'oggetto individuale in un'esperienza spazio-temporalmente  delimitata, e un'intuizione intellettuale innata, assolutamente non meno concreta e attuale della prima, con cui apprendiamo la nozione di universalità, totalità che poi usiamo anche (ma non solo) come forma dei concetti a cui l'intuizione sensibile dà un contenuto. E dalla collaborazione tra queste due diverse modalità di apprensione nasce la la concettualizzazione del mondo sensibile.

Non ho ben capito il concetto di "universalità relative". In cosa consisterebbero? A prima vista mi sembrerebbe un'ossimoro... relativizzare vuol dire per me sempre particolarizzare, dunque perdere di vista l'universalità in quanto tale. Ecco perchè la nozione di universalità non può essere un' "astrazione ultima", per il semplice motivo che un'astrazione in quanto tale non potrà mai essere "ultima", la realtà a cui si rivolge è il contingente, ciò che in qualunque momento può offrire nuovi oggetti all'osservazione costringendo l'astrazione a non poter mai essere definitiva e ultima
CitazioneDissento completamente.

La potenzialità ha la caratteristica (per definzione) di non rimanete necessariamente tale, ma invece di attuarsi (se se ne danno le condizioni), e dunque di tradursi in accadimento reale in grado di "produrre effetti sulla realtà".

Dire che la nostra mente è "predisposta" (é in grado) potenzialmente a (di) stabilire concetti universali per astrazione da sensazioni particolari concrete e ulteriori considerazioni teriche (definizioni di nozioni) non sposta affatto il problema ma lo risolve: questa é a spiegazione del perché e come si definiscono concetti astratti a partire da osservazioni particolari concrete (non ce li si trova in mente di già belli e fatti a priori come conoscenze innate: pretesa spiegazione sbagliatissima!).

Potremmo chiederci perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro oppure non chiedercelo, ma il fatto che sia predisposta a (in grado di) fare queste operazioni teoriche) non cambia, resta un dato di fatto; fra l' altro se esiste una corrisondenza necessaria fra operazioni coscienti ed eventi neurofisiologici cerebali (cosa dimostrata dalla neurofisiologia),  allora per lo meno questi ultimi (gli eventi neurofisiologici cerebali) sono spiegati egregiamente dalla teoria scientifica dell' evoluzione biologica.

L' astrazione a posteriori dalle esperienze particolari concrete, pur non essendo sufficiente in assenza di un' ulteriore elaborazione mentale, onde "confezionare" concetti universali astratti, é comunque necessaria (é una conditio sine qua non): nessuno conosce a priori, prima di compiere molteplici esperienze sensibili particolari concrete, alcun concetto astratto (men che meno quello "astrattissimo" di "universalità"): li si elabora solo a posteriori alla condizione necessaria di averne avuto sensazioni di occorrenze particolari concrete (oppure li si apprende, sempre a posteriori, da altri; magari tramite un semplice vocabolario).

In questo modo non si cade in alcun impasse argomentativo o circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile: l' astrazione giustifica l' acquisizione di concetti universali astratti (contrariamente a una presunta -irreale- conoscenza di essi a priori), anche se deve essere integrata (non affatto circolarmente!) dall' elaborazione autonoma (a posteriori) d ulteriori nozioni (come quella per la quale essi non sono semplicemente "ciò che di comune c' era solo in molteplici oggetti percepiti nel passato" ma anche -induttivamente- "ci potrà essere in un indefinito numero di ulteriori oggetti nel futuro").

Senza ottemperare alla conditio sine qua non di avere avuto moleplici esperienze particolari concrete non può aversi nessun "intuizione intellettuale innata" (men che meno "assolutamente non meno concreta e attuale" di essi) di concetti universali astratti: si tratta semplicemente del fatto di essere dotati di un' attitudine comportamentale, una "dote o capacità operativa", per l' appunto una mera potenzialità che non si attua se non a posteriori, alla condizione necessaria (anche se non sufficiente) di aver vissuto molteplici esperienze particolari concrete (a cui applicare le nostre capacità -o potenzialità- teoriche).

Il concetto di "universalità relative" é molto semplice: il concetto di "felino" é relativamente meno universale e astratto di quello di "mammifero"; questo lo é meno di quello di "vertebrato"; questo lo é meno di quello di "appartenete al regno animale"; questo lo é meno di quello di "metazoo"; questo lo é meno di quello di "vivente", ecc. (ciascuno é universale, ma relativamente meno universale del successivo).

Si possono fare sempre nuove osservazioni contingenti, ma proprio per il fatto che un concetto universale non si limita alla mera astrazione da osservazioni particolari concrete passate ma le "proietta induttivamente nel futuro (potenziale)", per così dire, da concetti come "totalità" o "essere" non é possibile per definizione astrarre concetti relativamente (ultriormente) più universali che li comprendano come particolari, per quante nuove osservazioni contingenti si facciano.



sgiombo

Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AM


mmmhhh non mi convince l'idea di riportare l'idea di universalità al rilevamento di un'assenza, della negazione del concetto ad essa opposto, così come la bruttezza potrebbe essere ricavata dalla negazione di "bellezza" e l' "infinito" dalla negazione di "finito". Questo perchè il concetto di universalità si fa presente alla mente non solo come oggetto di un sapere che riflette su esso, ma anche, come scritto prima, nella stessa forma di qualunque concetto, anche il concetto della cosa più banale. In qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. Quindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. L'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone. Del resto credo che l'accezione formale di universalità sia quella comune alla maggior parte dell'umanità, i non-filosofi, che senza bisogno di mettersi a riflettere sull'universalità comunque utilizzano nella loro quotidianità, nei loro pensieri, nel loro linguaggio, concetti e categorie a cui attribuiscono un significato universale, mentre l'accezione materiale, per la quale l'universalità diviene non solo forma ma oggetto di una specifica riflessione e attenzione è riservata prevalentemente ai filosofi, o comunque a chi pensa filosoficamente, direi un'elite... Ciò non toglie che l'individuazione del sapere che permette all'uomo di accedere alla conoscenza dell'universalità, come il sapere che sta alla base di ogni gnoseologia, come la critica kantiana, sia un problema filosoficamente fondamentale
Citazione"Omnis determinatio est negatio" (Spinoza): Ogni concetto si definisce inevitabilmente in relazione ad altri concetti: non potremmo avere nozione di "bene" senza avere necessariamente anche nozione di "male", non di "belleza" senza quella di "bruttezza", di "universale" senza "particolare", ecc.

Esistono anche concetti particolri, oltre che generali, per esempio il concetto del mio particolare concreto gatto Attila oltre al concetto universale di "gatto".

Il concetto di "universalità" non può definirsi se non in relazione (di negazione) con quello di "particolarità" (per comprendere il significato di "universale" dobbiamo necessariamente comprendere anche quello di "partcolare").
E di fatto si acquisisce (a meno che non ce lo insegnino in quanto già acquisito da altri prima di noi) per astrazione e ulteriore elaborazione teorica in seguito all' esperienza (necessaria!) di più definizioni di "relativamente particolari" concetti generali, concetti "relativamente meno generali" (per esmpio di "gato", di "animale", di "pianta", eccetera: é ciò che questi concetti hanno in comune e potenzialmente altri concetti "relativamente particolari" in modo analogo" potranno avere in comune, ed é distinto (distinguibile) da altre caratteristiche non comuni, singolari-particolari o comunque relativamente meno comuni.

Ciò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata del particolare concetto in questione, nè del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.

Ovviamente non c' é bisogno di essere filosofi per poter pensare astrattamente, per utilizzare nella propria quotidianità, nei propri pensieri, nel proprio linguaggio, concetti e categorie a cui si attribuisce un significato universale: basta essere uomini sani di mente!

Phil

Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMIn qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. 
In ogni concetto si annida l'idea di "universalità" o di "astrazione"? Pongo questa domanda per intenderci meglio sulle parole chiave della questione... personalmente, direi che ogni concetto è astratto, ma non che ogni concetto è universale: ad esempio, il mio concetto di "giustizia" non solo è personale (limitato nello "spazio"), ma potrebbe essere stravolto domani (limitato nel "tempo"); quindi, quando lo penso, non lo penso "universale", ma solo utilmente "astratto", ovvero fruibile per valutare un'ipotetica universalità dei casi, ma senza essere esso stesso universale (non è dunque il concetto in quanto tale ad essere sempre e necessariamente universale, ma le sue possibili applicazioni; non so se è questa l'ambiguità che porta al nostro disaccordo...). 
Che significa "universalità dei casi"? In tutti i casi possibili. Come faccio ad estendere l'applicazione di un concetto (non il concetto stesso) a tutti i casi possibili? Tramite l'astrazione (negativa) che lega il singolare/parziale al plurale/totale.

Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMQuindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. 
Questi "tutti" vengono semplicemente astratti dai rispettivi "uno"... e, come accennavo prima, non è la "finitezza" o la "particolarità" ad essere "universale", ma, asintoticamente, le loro possibili applicazioni...

Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AML'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone.
Se "totalità" e "universalità" sono una "struttura trascendentale innata" (ammesso e non concesso ;) ), non dovrebbero logicamente appartenere alla stessa "struttura" anche "parzialità" e "singolarità"?
Questa struttura innata non verrebbe comunque attivata dall'esperienza del singolare/parziale? La capacità d'astrazione non si sviluppa, nei primi anni (non sono pratico di infanzia!) proprio a partire dal vissuto del particolare? Questo sviluppo (se c'è...) conferma l'innatismo del concetto di universalità oppure conferma che l'universalità è frutto di un'astrazione (negativa)?

Per ora, concorderei con Sgiombo nel concludere che la condizione di possibilità della concettualizzazione è l'astrazione, non il concetto di universalità (a sua volta derivato da un'astrazione, secondo me...):
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 13:39:42 PMCiò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata [...] del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.

P.s. Si possono astrarre concetti non universali? Se per concetto intendiamo "astrazione formale", direi di si: ognuno di noi ha i suoi individuali concetti riguardanti l'arte, la politica, la vita, etc. che non sono universalmente validi o accettati...

maral

Mi viene da considerare quanto alla fine ci si ritrovi sempre qui, a ruotare intorno al vecchio problema irrisolvibile degli universali, ognuno con il suo punto di vista che riflette il suo modo di sentire e considerare le cose. Ed evidentemente il problema pone una questione linguistica, dato che ogni parola in ciò che tenta di definire non è che un segno sempre in qualche misura errato rispetto a ciò che intende indicare, rispetto alle cose in sé... eppure se non ci fossero quelle astrazioni generalizzanti che sono date dai nomi che designano erroneamente le cose che cosa mai potremmo cogliere di esse? La sensazione stessa in fondo non è che un'immagine impropria, a dispetto di qualsiasi empirismo con pretese assolute e non per niente l'empirismo filosofico coerentemente condotto non può che giungere a negare l'assoluto di se stesso, ritrovandosi così al punto di partenza nella questione sulla conoscenza (che cosa davvero si conosce?). La cosa in sé è inaccessibile non solo all'intelletto umano, ma pure alla sensazione che la trasforma in un'immagine (visiva, uditiva, tattile...), la cosa in sé è solo la relazione (sempre diversa e contingente) con chi la osserva e che talvolta più o meno si ripete, quindi non è mai in sé, né si può dire (pensare, sentire) cosa di per se stessa sia e delle cose che non si può dire è saggio tacere. Il linguaggio modella non solo il pensiero, ma anche il modo di sentire e intendere le cose e il linguaggio naturale, quello a cui facciamo sempre riferimento, non è che un tropo, una designazione impropria, una metafora, mentre quelli artificiali sono ancor peggio in merito alla verità, anche quando creano l'illusione di saper funzionare.
In fondo il noumeno kantiano mi pare che non faccia che riprendere la massima socratica: quello che si può giungere a sapere, il vertice della conoscenza, è solo sapere di non sapere e almeno così si evita la superstizione dell'oggetto senza correre il rischio di cadere in quella del soggetto che non ne è che l'immagine speculare. Non per nulla, con una simile idea in testa,  Socrate fu condannato a morte dai governanti di Atene con l'accusa di traviare la gioventù.
A chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae  concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
Ma al contrario come potrebbe esistere l'idea del bello, del buono o della dualità se non vi fossero le cose ciascuna diversamente bella e buona, se non vi fosse una cosa e un'altra cosa, comunque sensibilmente diverse nel loro stare insieme nel segno del due?
Forse non è vero che il problema non ha soluzione, la mancanza di soluzione c'è solo nel ritenere che il modo di pensare concettualmente il generale sia causa o effetto del modo di pensare empirico i particolari tangibili, che uno venga prima dell'altro, mentre costantemente si implicano e si contraddicono reciprocamente nell'essere umano per quello che umanamente sogna di essere: simile agli dei spirituali o a quel mondo animale tangibile e materiale che parimenti immagina e, senz'altro poter sapere, sempre ugualmente antropomorfizza, soprattutto quando crede di descrivere le "cose in sé".
 
   

sgiombo

Citazione di: maral il 01 Settembre 2016, 20:05:24 PM
non per niente l'empirismo filosofico coerentemente condotto non può che giungere a negare l'assoluto di se stesso, ritrovandosi così al punto di partenza nella questione sulla conoscenza (che cosa davvero si conosce?).
CitazionePer definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).

Qualunque altra possibile conoscenza, circa un' eventuale ulteriore realtà in sé (ulteriore rispetto alla realtà fenomenica delle sensazioni; compresi un eventuale soggetto ed eventuali oggetti delle sensazioni fenomeniche stesse, reali anche allorché queste non accadono), circa eventuali altre esperienze fenomeniche coscienti (oltre la "propria" immediatamente avvertita), circa l' eventuale divenire (intersoggettivo, nell' ambito delle diverse -se esistenti- esperienze fenomeniche coscienti e) ordinato secondo modalità universali e costanti della realtà fenomenica materiale (e dunque circa la conoscenza scientifica), ecc., ecc. non è certa ma dubitabile (o credibile arbitrariamente, indimostrabilmente né per constatazione empirica, letteralmente "per fede").

La cosa in sé è inaccessibile non solo all'intelletto umano, ma pure alla sensazione che la trasforma in un'immagine (visiva, uditiva, tattile...), la cosa in sé è solo la relazione (sempre diversa e contingente) con chi la osserva e che talvolta più o meno si ripete, quindi non è mai in sé, né si può dire (pensare, sentire) cosa di per se stessa sia e delle cose che non si può dire è saggio tacere.
CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.

E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)


A chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae  concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?

CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?


Secondariamente rispondo: senza con tutta evidenza avere una preesistente conoscenza dell' idea di bellezza (che nessuno ha prima di vedere cose belle) uno vede per esempio Liz Taylor (com' era cinquanta - sessant' anni fa) e avverte, un certo sentimento; poi vede la cupola di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi e prova un certo altro sentimento che ha, un aspetto comune a quello di cui sopra (e altri aspetti diversi); poi sente il canone in re maggiore di Pachelbel, e prova un certo altro sentimento ancora che ha un aspetto comune a quelli di cui sopra (e altri aspetti diversi); poi vede il Cervino o il golfo di Napoli o il paesaggio intorno a Rio de Janeiro, e prova un certo altro sentimento ancora che ha un aspetto comune a quelli di cui sopra (e altri aspetti diversi), e così via...

Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).

Solo dopo che ha fatto un bel po' di esperienze simili a quelle sopra citate ("a posteriori", e non affatto prima di farle) sa cosa è "la bellezza", solo allora (e non affatto in maniera "innata") ha la conoscenza dell' idea di bellezza.





Phil

Citazione di: maral il 01 Settembre 2016, 20:05:24 PMA chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
Quando parlavo del ruolo dell'astrazione ho evitato volutamente l'insiodioso termine "realtà", così come l'altrettanto periglioso termine "idea": parole troppo ricche di tradizione e di metafisica, per non creare dispersione concettuale nel discorso.

Dal mio punto di vista, il ruolo del linguaggio e della sua acquisizione viene spesso sottovalutato: se è vero che è il linguaggio a strutturare l'orizzonte di senso in cui ciascuno vive, le idee-ops!-astrazioni concettuali vengono prima apprese dalla cultura in cui si cresce (o costruite per "induzione linguistica" come suggerisce Sgiombo con l'esempio della bellezza), poi, esperendo e riflettendo, possono essere personalizzate... se riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).

L'astrazione per eccellenza è quella del linguaggio, e proprio il linguaggio (con la sua logica) è l'unico paradigma imprescindibile per il ragionamento (idealista o materialista che sia), ma già nel riconoscerne il funzionamento si ha qualche indizio per risolvere le sue apparenti aporie: se non mi fosse stato insegnato che esiste "il bello", o meglio, che si può parlare di un'esperienza/percezione come "bella", non mi si potrebbe porre la dialettica viziosa fra percezione-del-bello/criterio-della-bellezza. 
Quindi, per me, tutto parte dal linguaggio, dall'acquisizione "eteronoma" delle sue parole-definizioni-concetti, per poi proseguire il laborioso tentativo di "calibrazione" del proprio vocabolario basandosi sull'esperienza.

P.s. In questa constatazione dell'egemonia della linguisticità, non scorgo traccia nè della metafisica, nè di paradossi...

paul11

L 'animale può relazionare fra lor oggetti naturali, ma non può astrarli, costruire un sistema relazionare in cui un oggetto naturale corrisponde ad un segno linguistico.. Nell'uomo la capacità è innata ,ma non sa inizialmente gestirla un bambino.Sicuramente riesce ad astrarre e astrarsi ma sbaglia ad esempio le collocazioni spazio/temporali, i sistemi di relazioni tipici della forma e delle relazioni. Non è più un animale, non è ancora razionale è più psichico.

Il passaggio, la corrrispondenza fra oggetto naturale e forma astratta implica il segno linguistico che intendo dal matematico al logico al predicativo e proposizionale . Noi impariamo alfabeto e numeri nella corrispndente applicazione fra forma e oggetto sostanziale del sensibile.
Ma l'uomo fa molto di più. Riesce ad isolare la forma astratta a costruire quindi oggetti formali e un vero e proprio sistema a sè con segni operazionali logico/matematici, con postulati paradigmatici che sostengono il sistema formale.
Il problema è doppio: quanto il sistema formale segnico corrisponde a quello naturale, e quanto il sistema formale in sè riesce a reggersi da solo estraniato dalla natura.
Dei sistemi formali autoreferenziali e le problematiche apportate da Godel, si sanno.
Del problema proposizionale del linguaggio e della sua ambiguità rispetto alle descrizioni e definizioni degli oggetti naturali se ne discute da più di secolo nella filosofia analitica.

L'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.

davintro

Rispondo a Sgiombo

La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione? Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione". Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.

è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo  nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre. Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima

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