conoscenza e critica della conoscenza

Aperto da davintro, 15 Agosto 2016, 18:26:43 PM

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sgiombo

#75
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 14:08:19 PM
Sgiombo,
è vero che gli empiristi hanno messo in discussione il platonismo metafisico e a parere mio giustamente,ma loro hanno semplicemente aiutato a spostare il focus.Se un nuovo pensiero non mette in contraddizione i paradigmi del vecchio sistema replica la contraddizione spostando il luogo dell'osservazione.Così gli empiristi non guardano più al cielo, ma alla terra e togliendone la trascendenza divennero cinici.
Vuoi che ti faccia l'esempio critico di come gli scozzesi compreso un certo Adam Smith da allora abbiano interpretato nelle prassi costruendo i paradigmi egocentrici che ha gonfiato le vele a quel futuro capitalismo di cui gli inglesi furono i primi maestri?
La stessa cosa vale per il pragmatismo americano più avanti.
Sono importantissimi per capire come le scienze moderne hanno mutato nelle pratiche i sisitemi e li hanno teorizzati, ma togliendo assolutamente la coscienza umana, spostando le relazioni formali dal metafisico ai rapporti socio-economici e quindi sono la base di tutto il pensiero pratico degli ultimi due secoli almeno.
Sgiombo, devi vedere le conseguenze di un pensiero che sifa cultura per poterne leggere le contraddizioni.
Il mio parere è che la cultura anglo-statunitense è basata sulle pratiche e in quanto tale appoggia la tecnica scientifica, come luogo dei rapporti di forza che a loro volta danno strumenti pratici come le tecnologie.
Ma hanno asservito l'uomo così, lo hanno reso schiavo della tecnica. perchè daccapo hanno spostato a loro volta il focus dicendo che l'Essere non esiste.
L'empirismo anglo-scozzese si sposò con alcune correnti culturali continentali come il positivismo.
Ma quali tipi  di  pensatori ha dato Oxfor e Cambridge, quale tradizione ha portato avanti e tutt'ora  lo fa,
insieme al pragmatismo americano divenuta analitica.

Lo scontro dell'ultimo secolo fra analitici e continentali è proprio nel governo delle tradizioni scelte come paradigmi culturali.
Ma mentre i continentali soccombevano cercando l'Essere e Heidegger dichiarava la fine della filosofia, la cultura
più pratica che paradossalmente avrebbe dovuto soccombere visto che nessun sistema era certo spostava nell'utilità e nel funzionale il finalismo delle pratiche .

Oggi il mondo va avanti da sè, proprio perchè è governato dalle pratiche anche se nessuna teoria è fondativa e certa: questo è il vero inestricabile problema.
E' fallito l'Essere quanto è fallita la democrazia e la libertà, è fallito il principio fondativo dei sistemi, ma non il prodotto delle disuguaglianze economiche e sociali.
E cosa ci rimane se non un 'autocoscienza nostra(obliata completamente ormai dalla sparizione dell metafisica e dell'appropriarsi della tecnologia del destino) che lega tutte le contraddizioni nel mondo coagulandole nel tormentato uomo della post modernità che non sa nemmeno gestire i flussi migratori?

So benissimo che la ragione e la verità non vincerebbero mai,non bastano, sulle pratiche dei rapporti di forza che da sempre governano la storia umana di un uomo decadente che ha scelto la natura animale per giustificare le ignominie e il suo cinismo obliando l'Essere per perdere con esso  la propria coscienza e con essa la morale e la responsabilità del governo di sè e del mondo in maniera armonica.
CitazioneGià il compianto Preve  pretendeva, secondo me del tutto a torto, che l' empirismo inglese (e in particolare David Hume) sia il "padre" dell' odierno capitalismo  monopolistico transnazionale. Per me che sono marxista (immodestamentecredo credo più coerente del buon Preve), lo é in ultima analisi lo sviluppo delle forze produttive.
E non ritengo "lecita" (corretta) nessuna  lettura unilaterale dell' empirismo inglese e in particolare del "mio" grandissimo David Hume, in questo senso.

La cultura ha una sua autonomia, per quanto relativa, limitata, dalla struttura economica della società e dalla lotta di classe, e Hume oggettivamente (quale che sia l' uso ideologico che può esserne stato fatto a torto o a ragione) resta il grandissimo genio che ha saputo "vedere" l' indimostrabilità della realtà di un soggetto e di oggetti eccedenti l' esperienza (fenomenica) cosciente (metafisici), che é conditio sine qua non del superamento del solipsismo, e del divenire naturale ordinato secondo leggi causali, che é conditio sine qua non (della  possibilità, della verità) della conoscenza scientifica.

Non si può di certo  rinfacciargli alcun "feticismo della certezza", come pretendevi di fare nel precedente intervento (facendo di tutte le erbe un fascio: non distinguendolo dal resto della cultura moderna (e antica) a cui muovevi la critica; che a mio parere é peraltro per lo meno  discutibile anche a proposito di buona parte del resto della cultura occidentale moderna e antica; ma la cosa é meno lampante, richiederebbe argomentazioni più complesse, e inoltre mi preme personalmente di meno).

Tutto il resto (le possibili "libere interpretazioni" -discutibili "per definizione"- dell' empirismo inglese e di Hume come parte integrante e addirittura "radice teorica" dell ideologia dominante in Occidente e nel mondo) mi interessa ben poco (e comunque ne dissento profondamente).

davintro

La discussione è andata molto avanti e sta toccando tantissimi temi e raggiunto tanti spunti teoretici davvero interessanti che per me sarebbe troppo impegnativo e dispersivo commentare, almeno per ora, e che tra l'altro sarebbe per me opportuno rileggere con più calma e meno superficialità. Quello che nei limiti di tale superficialità mi sembra di notare è un complessivo stato di sfiducia verso la metafisica tradizionale (è stato da più parti chiamato in causa il postmoderno) e l'esclusione della possibilità di ammettere degli elementi di innatismo nella nostra conoscenza. In fondo mi aspettavo che la mia "battaglia" pro-innatismo fosse difficile da sostenere dal punto di vista della retorica, della capacità persuasiva, e forse non solo per i miei evidenti limiti. Perchè in fondo, nel momento in cui la nostra relazione con il mondo si riferisce costantemente ad un'esteriorità, all'interno delle nostre attività quotidiane, ci sembra davvero difficile ammettere la possibilità che alcuni fondamentali elementi della nostra conoscenza possano essere appresi indipendentemente dal rapporto con l'esteriorità, che appare così esauriente nel assorbire tutti gli aspetti della nostra esistenza, ed anche quando operiamo riflessivamente, il condizionamento del mondo esterno ci porta ad ipotizzare una correlazione tra oggetti esterni e processi mentali stretta al punto di non poter in alcun modo immaginare questi ultimi senza i primi, sottovalutanto e svalutando l'interiorità, riducendola a tabula rasa senza autonomia. L'errore di fondo, io credo, sia quello di porre l'antropologia come base della gnoseologia (o epistemologia) Cioè si parte dall'essere umano, nella misura in cui ne abbiamo una certa esperienza storica per poi elaborare una teoria della conoscenza, un sistema gnoseologico adeguato alla limitatezza ed imperfezione dell realtà umana, escludendo in via preliminare la trattazione degli elementi della conoscenza riferibiti a un soggetto con uno statuto ontologico differente dal quello umano. Io considero questo modo di procedere epistemologicamente scorretto. L'essere umano è una realtà complessa, strutturata da differenti entità, corpo, psiche, coscienza, intenzionalità, percezione, temporalità, libertà, volontà ecc Queste sono tutte categorie che colgono ciascuna un aspetto appartenente a quella realtà che definiamo "essere umano". Quando si ha di fronte  una realtà complessa occorre cogliere il senso, le possibilità implicite in ciascuna singola componente per poi riunificare (non assommare in modo disordinato) organicamente il tutto per ricostuire l'immagine della realtà complessa. Non si deve partire dal concetto "uomo", ma indagare l'essenza di ogni singolo concetto "semplice", che lo costituisce, quindi quando in sede gnoseologica si parla di "coscienza" non si deve arbitrariamente restringere il campo di applicazione della coscienza alle forme in cui si manifesta in una certa determinata realtà, quella umana. L'uomo in virtà della sua limitatezza ed imperfezione dipende per la sua conoscenza dal corpo che lo mette in contatto con il mondo esterno, ma questa dipendenza non esclude che, in virtù di componenti distinte dalla mera corporeità, non possa accedere a un contenuto di coscienza originario ed a priori. La coscienza se nel contesto dell'essere umano presuppone per agire una dipendenza da un materiale sensibile ed esteriore, non per questo non potrebbe in un contesto differente esprimersi in modo indipendente da tale matariale. E dunque l'uomo quanto più orienta la sua attenzione verso l'interiorità, verso l'autocoscienza quanto più potrebbe riconoscere una conoscenza da sempre preesistente e originaria nella sua mente di cui non si rende conto qunto più la sua attenzione è orientata verso l'ambiente circostante, come è nello stato normale e naturale. L'uomo è sintesi di materia e spirito, una porta verso la dipendenza dall'esterno, l'altra verso l'interiorità. Il processo conoscitivo è una sintesi di entrambi i fattori e se l'aspetto di dipendenza va ricondotto alla materia non si può, pena la perdita del rilievo del carattere di complessità, trascurare l'intervento dello spirito, spirito che considerato nell'essenzialità del suo senso, a prescindere dalla sua presenza al'interno dell'uomo, determina un elemento di autosufficienza. Un puro spirito, come Dio sarebbe una realtà assoluta e autosufficiente e indipendente dall'esterno (questo discorso prescinde dal giudizio circa l'effettiva esistenza di tale realtà). E alla luce  della presenza dello spirito nello stesso "meccanismo" stessa conoscenza umana , pur condizionata dall'esterno tende a somigliare, in modo imperfetto, al modello di conoscenza di un soggetto, che essendo puro spirito, possiederebbe in modo originario il materiale di tale conoscenza. L'uomo va chiarito sulla base delle singole componenti, non sono le singole componenti a dover essere limitate nella loro semantizzazione dalla finitezza dell'umano, pena porre tale finitezza e limitatezza dogmticamente come posizione intrascendibile con tutte le conseguenze che da tale dogmaticità deriverebbero

paul11

#77
Davintro,
accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione.
Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali  che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula  la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze.
Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca..........

Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste.
E provo a spiegare.
Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo.
Io penso invece che L 'Essere  sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso.
Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti  i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio;
ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può  suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.

davintro

Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 18:50:36 PMDavintro, accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione. Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze. Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca.......... Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste. E provo a spiegare. Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo. Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso. Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio; ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.

Nessun richiamo all'ordine, ci mancherebbe... sono io che ho iniziato la discussione ma non ne sono certo il proprietario, quello che deve dettare una "linea editoriale"! Il mio non voler seguire gli ultimi sviluppi della discussione è dovuto alla consapevolezza dei miei limiti, non certo ad una critica o spirito polemico verso tali sviluppi, che invece valuto positivamente e sarebbe bello proseguissero

Il tuo ultimo post mi "costringe" ( "costringe" lo scrivo qua in modo scherzoso) a provare a esplicitare meglio la mia posizione. L'idea che vi sia "già dalla nascita un sapere che attende di conoscere" mi sembra riferibile al modello innatista platonico, un modello che al di là della sua grandezza, dell'importanza che ha avuto nel gettare le basi della storia del pensiero occidentale, delle basi di verità presenti in esso, credo sia stato fortemente condizionato da un complesso di dottrine come l'orfismo aventi a fare con la mitologia e la religione più che con un coerente svolgimento del logos filosofico razionale. Non condivido appieno quel modello, non credo alla metempsicosi, alla reincarnazione delle anime, non credo di aver in passato visitato una dimensione a sè stante come l'Iperuranio in cui avrei fatto esperienza delle idee universali che poi nell'entrata dell'anima nella "prigione" del corpo avrei dimenticato. Non credo ad un "sapere" prima della nascita" il cui rinvenimento sarebbe il fine della conoscenza mondana. La mia idea è che la nostra soggettività pensante presupponga un'intuizione, un coglimento di alcune nozioni come "universalità", "totalità", "eternità", "infinito" che rendono possibile la formazione di ogni concetto, sia esso riferibile a un contenuto sensibile o intellegibile, nozioni che sono corollari conseguenti dell' "Idea dell'Essere", presupposto trascendentale di ogni altra idea o concetto, citando l'espressione di Antonio Rosmini, la cui ispirazione è stata sviluppata dalla corrente dello spiritualismo italiano del novecento, di impronta neo-agostiniana. Questa intuzione non sarebbe sorta prima della nascita, ma ci accompagnerebbe sin da quel momento come presenza strutturale, originaria e necessaria della nostra mente, del nostro statuto ontologico di "soggetti pensanti". Effettivamente più che di innatismo (l'idea della nascita porta con sè una marea di implicazioni di ordine genetico, biologico, che in sede di discussione filosofica rischiano di essere fuori luogo e di generare confusione tra ambiti epistemici diversi) sarebbe preferibile parlare di originarietà o trascendentalità, anche se "innatismo" è un termine più chiaro e comunicativamente efficace. Non sarebbe neanche a rigor di termini di un "sapere", un  complesso organico di giudizi. Il riconoscimento di tale intuzione originaria può umanamente essere effettuato a partire dall'analisi degli elementi che compongono il processo di astrazione dell'universale intelligibile dal particolare sensibile. Analizzando a-posteriori l'astrazione ci si può rendere conto della messa in atto dell'apprensione della nozione di "universalità" come elemento fondante, seppur non sufficiente, dell'astrazione. Ma a-posteriormente ci sarebbe solo il riconoscimento dell'intuzione dell'Essere e delle categorie ad esso correlate, non l'attuarsi reale psicologico  della stessa intuzione nell'interiorità della nostra mente

Messe così le cose, forse la tua posizione, per come penso più o meno di averla intesa, non è così tanto distante dalla mia. Anch'io ritengo che l'esistenza umana, l'esser-ci, sia una tensione tra due poli, la molteplicità degli oggetti sensibili che costituisce il mondo in cui viviamo e l'universalità che ci richiama ad intepretare la nostra vita dandole un senso unitario in relazione a cui effettuare scelte ed elaborare pensieri che siano coerenti con tale senso. L'elaborazione di una visione globale e universalista che ricompatti il molteplice presuppone un agostiniano "redi in te ipsum", "rientra in te stesso" un raccogliersi nell'interiorità, (ciò che mi pare di aver capito tu definisca "autocoscienza", io direi più  di una "conversione", uno spostamento dello sguardo dall'esterno all'interno, che non sarebbe solo un atto teoretico e contemplativo, ma insieme anche volontaristico)  perchè allontanarsi dalla dispersione nella molteplicità è possibile nella misura in cui non siamo solo corpo, ma anche spirito. Il corpo spinge verso il molteplice sensibile, lo spirito verso l'universale. In questo contesto emerge la verità del platonismo, l'immagine dell'auriga, metafora della ragione che media tra i due cavalli, i due poli, cercando di mantenere un equilibrio dinamico, un "compromesso mobile" tra le esigenze dello spirito che spinge alla coerenza con i valori universali e il corpo che ci richiama alle fondamentali esigenze di mantenimento di sopravvivenza (quindi la stessa esistenza dello spirito), nonchè alle necessarie basi della nostra conoscenza, l'apprensione del mondo sensibile, indispensabile esso stesso per la vita. Sarebbe accettabile dunque anche nella mia visione l'idea di identificare l'innato con un "meccanismo", anche se andrebbe chiarito meglio il significato di questo meccanismo, se solo una funzione gnoseologica come in Kant, al servizio dell'apprensione di un contenuto conoscitivo solo estetico, oppure un'autentica apprensione di un materiale intelligibile, come sostengo in modo più infintamente modesto io. Inoltre il termine "meccanismo" non mi piace molto perchè rimanda ad una visione materialista che  certamente non può che essere incoerente con qualunque concezione sostenga la presenza di alcunchè di transempirico. Capisco comunque anche l'utilizzo del termine in chiave metaforica, e non vorrei apparire troppo pedante, almeno per questo punto

Phil

Due gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito:

@davintro
cosa intendi per "spirito"?

@paul11
cosa intendi per "autocoscienza"?

P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...

paul11

#80
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 18:50:36 PMDavintro, accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione. Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze. Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca.......... Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste. E provo a spiegare. Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo. Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso. Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio; ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.

Davintro,
sei mio traduttore ufficiale, hai descritto  bene quello che penso.
Volutamente non voglio utilizzare gergalicità filosofiche, Il rischio è non farsi capire da tutti e allontanare annoiate le persone.Cerco una mediazione comunicativa per arrivare il più possibile a tutti.
Questa tensione però non implica affatto la netta separazione platonica fra fisico e metafisico, ed è strano che Platone lo compia.Platone , hai ragione, è il ponte fra i miti antichi e la filosofia, conosceva bene il linguaggio del mito antico e trovo strano ciò che ha elaborato, probabilmente sulla spinta degli altri fiolsofi greci. Faccio un esempio la  religione ebraica, ma anche la musulmana che si rifà a quella ebraica, non divide affatto il mondo in senso platonico, tant'è che fra spirito teoretico e e prassi la divisione non è come nella cultura cristiana, così era anche nel mito antico.
Un esempio è che i rituali , le pratiche, il digiuno sono assolutamente necessarie in quelle religioni.
Noi invece abbiamo perso le pratiche in quanto le riteniamo poco significative rispetto al dettame divino. Nelle spiritualità orientali è addirittura combaciante, il " ki", il "kundalini" l'"om" tanto per fare esempi sono pratiche assolutamente necessarie fra corpo e spirito,Da noi lo yoga, le arti marziali, sono diventata quasi una ginnastica, ma nelle loro culture originarie sono forme spirituali come il tiro con l'arco.
Personalmente sono più vicino a queste ultime  visioni nel mio modo di vedere, per cui il conoscere che è prassi nel mondo di un corpo che vive con un'anima non è così separato , ecco perchè non sono un anti-empirista, anti-scientifico, semmai sono critico con le culture che si focalizzano solo su un dominio.
Mi permette di specificare a Maral, che se Derrida essendo ebreo di origine, intende l'ebraismo nel senso che ho descritto e la cultura occidentale invece divisa dal platonismo, allora sì è vero quel dualismo che indica; ma non inficia il linguaggio a mio parere. Le descrizioni e i rapporti sia in sanscrito che in ebreo o aramaico sono anzi più ambigue dell'italiano ad esempio, per cui il rapporto fra concetto ed espressione dal punto di vista della parola è ancora più ambiguo se pensiamo che la loro scrittura originaria è priva di vocali che solo nella lettura, nell'espressione fonica viene immessa.
L'autocoscienza personalmente la intendo dopo l'anima e prima della ragione.Altri possono combaciarle, altre addirittura obnularla e lasciare solo la ragione.
Ma chi lascia solo la ragione spesso la conrtappone al sentimento, per cui la morale apparirebbe a sua volta come tensione fra ragione e sentimento.
Personalmente invece ritengo che sia l'autocoscienza ispirata dall'anima perchè l'uomo tende al bene ,anche se può fare del male, per cui è anche il luogo dell'intenzione , della volontà.
A sua volta ispira la ragione, la inclina , la veicola verso conoscenze.
Ma questa autocoscienza non è assolutamente detto che essendo il luogo in cui la ragione ritorna con conoscenze e riflette anche nella morale, evolva spiritualemtne, metafisicamente, può benissimo autobnularsi, ma non sparire. L'uomo può decidere di non avere un'anima, anche se l'ha, di non avere una autocoscienza anche se l'ha, e veicolare  la volontà in solo dominio, come infatti accade.
Ma in realtà è ancora quell'autocoscienza che agisce in quanto il luogo del contraddittorio non ha trovato essenze da parte della ragione che conosce nel mondo sensibile e di nuovo replica le contraddizioni.Fin quando le essenze non hanno trovato le significazioni che diano il senso all'esistenza e di andare oltre al mondo sensibile, quella "porta".
Il "meccanismo"lo  intendo come dinamica innata della nostra mente a saper confrontare praticamente da poco più che bebè le cose. A cominciare a suddividere e selezionare e successivamente quindi ad unire.I concetti aprioristici che richiami a mio modesto parere vengono imparati a ordinarli con la pratica.Un bambino che fantastica non sa ancora temporalizzare il passato l'oggi, il futuro, tende ad attualizzare il tutto.Sono proprio quei concetti che scrivi che aiutano a formalizzare un ordine dal caos delle percezioni e sensazioni di un bambino ,La parte metafisca trovo che sia il fatto di avere un'anima e l'esistenza uno scopo, un senso, ma non che dei concetti siano innati, bensì quell'inferenza " allo stato brado" che attraverso l'esperienza nel mondo verrà ordinata nella forma logica.
Phil,
non so se sono stato esaustivo.La distinguo dalla comune coscienza perchè a mio parere è interpretata in maniera molto ambigua.Ad esempio il modo comune di intendere un essere cosciente o incosciente non è appropriatoa come penso io l'autocoscienza. E' auto in quanto è anche automatismo innato.

anthonyi

Citazione di: davintro il 11 Settembre 2016, 17:35:32 PM
La discussione è andata molto avanti e sta toccando tantissimi temi e raggiunto tanti spunti teoretici davvero interessanti che per me sarebbe troppo impegnativo e dispersivo commentare, almeno per ora, e che tra l'altro sarebbe per me opportuno rileggere con più calma e meno superficialità. Quello che nei limiti di tale superficialità mi sembra di notare è un complessivo stato di sfiducia verso la metafisica tradizionale (è stato da più parti chiamato in causa il postmoderno) e l'esclusione della possibilità di ammettere degli elementi di innatismo nella nostra conoscenza. In fondo mi aspettavo che la mia "battaglia" pro-innatismo fosse difficile da sostenere dal punto di vista della retorica, della capacità persuasiva, e forse non solo per i miei evidenti limiti. Perchè in fondo, nel momento in cui la nostra relazione con il mondo si riferisce costantemente ad un'esteriorità, all'interno delle nostre attività quotidiane, ci sembra davvero difficile ammettere la possibilità che alcuni fondamentali elementi della nostra conoscenza possano essere appresi indipendentemente dal rapporto con l'esteriorità, che appare così esauriente nel assorbire tutti gli aspetti della nostra esistenza, ed anche quando operiamo riflessivamente, il condizionamento del mondo esterno ci porta ad ipotizzare una correlazione tra oggetti esterni e processi mentali stretta al punto di non poter in alcun modo immaginare questi ultimi senza i primi, sottovalutanto e svalutando l'interiorità, riducendola a tabula rasa senza autonomia. L'errore di fondo, io credo, sia quello di porre l'antropologia come base della gnoseologia (o epistemologia) Cioè si parte dall'essere umano, nella misura in cui ne abbiamo una certa esperienza storica per poi elaborare una teoria della conoscenza, un sistema gnoseologico adeguato alla limitatezza ed imperfezione dell realtà umana, escludendo in via preliminare la trattazione degli elementi della conoscenza riferibiti a un soggetto con uno statuto ontologico differente dal quello umano. Io considero questo modo di procedere epistemologicamente scorretto. L'essere umano è una realtà complessa, strutturata da differenti entità, corpo, psiche, coscienza, intenzionalità, percezione, temporalità, libertà, volontà ecc Queste sono tutte categorie che colgono ciascuna un aspetto appartenente a quella realtà che definiamo "essere umano". Quando si ha di fronte  una realtà complessa occorre cogliere il senso, le possibilità implicite in ciascuna singola componente per poi riunificare (non assommare in modo disordinato) organicamente il tutto per ricostuire l'immagine della realtà complessa. Non si deve partire dal concetto "uomo", ma indagare l'essenza di ogni singolo concetto "semplice", che lo costituisce, quindi quando in sede gnoseologica si parla di "coscienza" non si deve arbitrariamente restringere il campo di applicazione della coscienza alle forme in cui si manifesta in una certa determinata realtà, quella umana. L'uomo in virtà della sua limitatezza ed imperfezione dipende per la sua conoscenza dal corpo che lo mette in contatto con il mondo esterno, ma questa dipendenza non esclude che, in virtù di componenti distinte dalla mera corporeità, non possa accedere a un contenuto di coscienza originario ed a priori. La coscienza se nel contesto dell'essere umano presuppone per agire una dipendenza da un materiale sensibile ed esteriore, non per questo non potrebbe in un contesto differente esprimersi in modo indipendente da tale matariale. E dunque l'uomo quanto più orienta la sua attenzione verso l'interiorità, verso l'autocoscienza quanto più potrebbe riconoscere una conoscenza da sempre preesistente e originaria nella sua mente di cui non si rende conto qunto più la sua attenzione è orientata verso l'ambiente circostante, come è nello stato normale e naturale. L'uomo è sintesi di materia e spirito, una porta verso la dipendenza dall'esterno, l'altra verso l'interiorità. Il processo conoscitivo è una sintesi di entrambi i fattori e se l'aspetto di dipendenza va ricondotto alla materia non si può, pena la perdita del rilievo del carattere di complessità, trascurare l'intervento dello spirito, spirito che considerato nell'essenzialità del suo senso, a prescindere dalla sua presenza al'interno dell'uomo, determina un elemento di autosufficienza. Un puro spirito, come Dio sarebbe una realtà assoluta e autosufficiente e indipendente dall'esterno (questo discorso prescinde dal giudizio circa l'effettiva esistenza di tale realtà). E alla luce  della presenza dello spirito nello stesso "meccanismo" stessa conoscenza umana , pur condizionata dall'esterno tende a somigliare, in modo imperfetto, al modello di conoscenza di un soggetto, che essendo puro spirito, possiederebbe in modo originario il materiale di tale conoscenza. L'uomo va chiarito sulla base delle singole componenti, non sono le singole componenti a dover essere limitate nella loro semantizzazione dalla finitezza dell'umano, pena porre tale finitezza e limitatezza dogmticamente come posizione intrascendibile con tutte le conseguenze che da tale dogmaticità deriverebbero

Mi trovo d'accordo con il metodo rappresentato, in particolare la parte rappresentata in grassetto che poi altro non è che la destrutturazione alla quale aggiungerei la ricerca dell'archè, del punto di partenza delle strutture concettuali. In tale ricerca ci si potrebbe trovare in una situazione auspicata da davintro, nella quale cioè l'archè non proviene dall'osservazione del mondo e quindi, giocoforza, è innato (anche se questo non vuol dire che lo abbiamo spiegato).

davintro

Citazione di: Phil il 12 Settembre 2016, 00:14:00 AMDue gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito: @davintro cosa intendi per "spirito"? @paul11 cosa intendi per "autocoscienza"? P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...

Per "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. Il complesso dei giudizi estetici, scientifici, morali che l'uomo formula riguardo al mondo e a se stesso è l'espressione della sua spiritualità e da ciò deriva la fondazione delle diverse forme culturali, scienza, filosofia, religione letteratura, politica. Attraverso lo spirito il mondo cessa di essere un insieme di meri fatti oggettivi ma acquisce un valore che non è mai totalmente immanente alla sua oggettività ma si costituisce come rapporto, relazione tra questa oggettività che in virtù delle sue qualità riceve il valore, e un soggetto cosciente che si protende verso il mondo in base alla sua attività intenzionale. La Pietà senza l'intenzionalità e la progettualità di Michelangelo che l'ha costruita e le categorie estetiche dei visitatori che la reputano un capolavoro sarebbe un mero "fatto", un ammasso informe di marmo, mentre lo spirito, cioè la coscienza soggettiva del suo scultore e di chi la osserva rende a quel ammasso, una forma definita  in nome della quale assume un valore e un senso.  Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale. Se lo spirito è ciò che ci permette di essere soggetti che attivamente si rivolgono verso il mondo con delle valutazioni e giudizi allora l'essere spirituale presuppone l'utilizzo di categorie a cui attribuiamo una valore universale per giudicare e valutare la realtà particolare. Lo spirito mi porta a giudicare bella la Pietà in nome di un criterio "generale" (se proprio non piace il termine "universale") di bellezza così come riteniamo ingiusto ciò che accadeva ad Auschwitz in nome di un'idea generale di "giustizia". Senza spiritualità, saremmo soggetti in balia degli istinti provenienti dalle realtà particolari esterne al nostro Io, senza poter mai giungere al momento in cui l'Io cessa di farsi "sballottare", assume il controllo riflessivo di sè e del mondo e sottopone gli eventi particolari al giudizio critico, confrontandoli a dei criteri universali intorno a cui costruire la stabilità della sua personalità soggettiva

Sariputra

@davintro
La morale, la bellezza, sono clichè variabile con gli anni e con le culture. Un aborigeno probabilmente non proverebbe alcun senso di bellezza davanti alla pietà michelangiolesca e un greco classico troverebbe perfettamente morale, anzi educativo, che un saggio filosofo o artista si accoppiasse con teneri fanciulli maschi ( rigorosamente di età non inferiore a dodici anni, altrimenti era immorale...).
Fino a poco tempo fa l'omosessualità era considerata immorale; oggi è considerato immorale considerarla immorale e chi lo fa rischia la querela o il dileggio ...
Come può una categoria , che definiamo "spirito", fondarsi su questi basi, su queste fondamenta? Se questo "protendersi verso il mondo" è viziato in origine dall'educazione culturale e morale imposta dall'ambiente sociale che lo circonda? Troviamo spiritualmente ingiusto, profonfamente ingiusto la Shoha e lo sterminio perpetrato dal nazismo, ma non rabbrividiamo al pensiero di bombe atomiche scaricate su città inermi. I nazisti vennero processati a Norimberga , in nome della giustizia, per crimini di guerra e contro l'umanità, ma i giudici erano gli stessi che , in una sola notte di bombardamenti a tappeto, distrussero Dresda e 220.000 vittime civili...
Come può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
Il pensiero non potrà mai essere semplicemente passivo ma è  essenzialmente reattivo agli stimoli molteplici dell'ambiente che lo circonda e con cui viene a contatto, trovandosi altro da questo e costruendo il suo Ego/Io personale. La sua funzione è quella di "adeguarsi" al mondo per sopravvivere.  Lo fa incessantemente, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, così da non sbigottire continuamente come quel tale che vede per la prima volta un uomo di pelle nera ma che poi, vedendone due, poi tre e infine una moltitudine, stabilisce che ...il mondo è fatto anche di neri!
Se poi abbisogna del "mondo" perchè, protendendosi verso di esso in modo attivo, interpretandolo,ecc. trova un senso e un valore alla sua esistenza, come possiamo definirlo trascendente la materia ? Se è in "dipendenza" dal mutiforme variare del mondo non può essere considerato come un ente trascendente il mondo.  Per essere trascendente dovrebbe avere inerente a sé la sua stessa causa, non può essere causato dal contatto con le apparenze del mondo, se no sarebbe un "insorgere dipendente" e quindi soggetto a nascita e morte, all'apparire e scomparire.
L'Io "sottopone gli eventi particolari al giudizio critico, confrontandoli a dei criteri universali intorno a cui costruire la stabilità della sua personalità soggettiva". Il problema però è che questi criteri universali non esistono o sono illusori, impermanenti e il povero Io, vedendoseli franare continuamente sotto i piedi piomba in quel sentimento moderno che chiamiamo Angoscia, straniamento, incertezza. In quale porto sicuro può trovare ormeggio il disastrato Io , quando anche le più piccole certezze vacillano davanti al continuo mutare della marea?
Il giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...
Se lo spirito è fondato sul pensiero, ben misere sono, purtroppo, le sue fondamenta.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Duc in altum!

**  scritto da Sariputra:
CitazioneCome può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
La verità, qualunque essa sia, non cambia, quindi è essa il fondamento etico che discerne, attraverso la sapienza, il senso del giusto, del morale e del bello.
Ciò che appare come cambiamento non è altro che una trasformazione dell'individuo (o di tanti individui, quindi trasformazione della società) verso ciò che uno ritiene sia quella verità, unica ed assoluta, che permette di essere felici ed appagati.

Chi considera che i giudici di Norimberga (o i partigiani) furono più che giustificati a commettere un'ingiustizia sommaria, o che l'omosessualità (nell'atto sessuale) sia un sentimento dignitoso, o che ci sia differenza tra la Shoah e quel che fa Israele a Gaza od a Betlemme, non sta facendo altro che associarsi, soprattutto con lo spirito (o l'anima, o la coscienza), con un pensiero etico (una Fede) che si pensi sia vero per tutti, adeguandosi al mondo per sopravvivere.
Io penso che esistiamo per vivere e non per sopravvivere, è tutto qua la differenza.

CitazioneIl giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...

Esatto, avevano creduto (con tutto il rispetto per i tuoi genitori, spero di non essere impertinente) nel mondo, in un mondo che è ciò che tu giustamente affermi che cambia, e che questo mutamento, questi stimoli molteplici condizionino il nostro pensiero e la nostra fede sulla verità. Ma la croce, anzi il segno (il settimo per Gv) di quella Croce (da cui provenne la scelta santifica ed illuminante di Benedetto XVI) non cambia, è sempre fissa, è qualcosa che non si sgretola, incrollabile per l'eternità, quindi sì che esiste un fondamento etico che non accetta compromessi, che osserva il cambiamento e le stimolazioni innovative come un inganno, come il velo che l'uomo ha da togliere per vedere nitidamente ciò che quel velo già non può più totalmente occultare, proprio perché velo, effimero, provvisorio, momentaneo e destinato a sparire, per non poter più frodare il pensiero, la conoscenza e la fede umana.
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

Sariputra

Citazione di: Duc in altum! il 13 Settembre 2016, 10:02:19 AM** scritto da Sariputra:
CitazioneCome può lo "spirito" trovare un fondamento etico al suo agire se tutto cambia continuamente, il senso del giusto e dell'ingiusto, del morale e dell'immorale, del bello e del brutto...?
La verità, qualunque essa sia, non cambia, quindi è essa il fondamento etico che discerne, attraverso la sapienza, il senso del giusto, del morale e del bello. Ciò che appare come cambiamento non è altro che una trasformazione dell'individuo (o di tanti individui, quindi trasformazione della società) verso ciò che uno ritiene sia quella verità, unica ed assoluta, che permette di essere felici ed appagati. Chi considera che i giudici di Norimberga (o i partigiani) furono più che giustificati a commettere un'ingiustizia sommaria, o che l'omosessualità (nell'atto sessuale) sia un sentimento dignitoso, o che ci sia differenza tra la Shoah e quel che fa Israele a Gaza od a Betlemme, non sta facendo altro che associarsi, soprattutto con lo spirito (o l'anima, o la coscienza), con un pensiero etico (una Fede) che si pensi sia vero per tutti, adeguandosi al mondo per sopravvivere. Io penso che esistiamo per vivere e non per sopravvivere, è tutto qua la differenza.
CitazioneIl giorno dopo le dimissioni del precedente pontefice i miei vecchi genitori erano inebetiti, scossi, non trovavano senso alcuno. Il loro vecchio mondo in cui avevano creduto per tutta una vita si stava sgretolando, ancora una volta irrompeva il cambiamento e non riuscivano ad assimilarlo e, assimilandolo, modificare, adattare il proprio spirito agli eventi. Provavano angoscia...
Esatto, avevano creduto (con tutto il rispetto per i tuoi genitori, spero di non essere impertinente) nel mondo, in un mondo che è ciò che tu giustamente affermi che cambia, e che questo mutamento, questi stimoli molteplici condizionino il nostro pensiero e la nostra fede sulla verità. Ma la croce, anzi il segno (il settimo per Gv) di quella Croce (da cui provenne la scelta santifica ed illuminante di Benedetto XVI) non cambia, è sempre fissa, è qualcosa che non si sgretola, incrollabile per l'eternità, quindi sì che esiste un fondamento etico che non accetta compromessi, che osserva il cambiamento e le stimolazioni innovative come un inganno, come il velo che l'uomo ha da togliere per vedere nitidamente ciò che quel velo già non può più totalmente occultare, proprio perché velo, effimero, provvisorio, momentaneo e destinato a sparire, per non poter più frodare il pensiero, la conoscenza e la fede umana.


I miei vecchi avevano creduto in un assoluto, non nel mondo. L'assoluto per la loro fede era che il papa moriva in croce come Colui nel quale credevano. Erano stati educati così, percepivano la verità cristiana così, era una pietra del loro pensiero. Nel momento in cui il papa  "scendeva dalla Croce", si dimetteva come un qualunque impiegato dello spirito, questa certezza è svanita. Frettolosamente si è dovuto instaurare al suo posto un altro pensiero, un altro ragionamento: quello che era stata , come sostieni tu, una "scelta salvifica  e illuminante". Concetto abilmente e prontamente propagato dal clero che deve sempre autoleggitimarsi, spostando sui moti variabili dello Spirito Santo la variabilità delle decisioni umane. Sul fatto che sia poi stata una scelta illuminante e salvifica nutro molte , personali ovviamente, perplessità e lo potrà dire, forse, con il tempo, la storia. Le celebrazioni frettolose mi danno sempre un senso di...inadeguatezza ;).
Comunque, io tentavo di fare un'analisi dell'associazione pensiero-spirito e non di quella pensiero-fede...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

Citazione di: paul11 il 12 Settembre 2016, 01:26:20 AML'autocoscienza personalmente la intendo dopo l'anima e prima della ragione [...] in realtà è ancora quell'autocoscienza che agisce in quanto il luogo del contraddittorio non ha trovato essenze da parte della ragione che conosce nel mondo sensibile e di nuovo replica le contraddizioni.Fin quando le essenze non hanno trovato le significazioni che diano il senso all'esistenza e di andare oltre al mondo sensibile
Quindi, se ho ben capito, l'autocoscienza per te non è "auto" in quanto "riflessiva" (come autoconsapevolezza, autodiagnosi, etc.), ma in quanto meccanismo automatico (ma non autonomo, perché "è ispirato dall'anima"(cit.), giusto?), che fa da intermediario (da "ingranaggio" intermedio) fra l'anima e la ragione, risolvendo tutto ciò che per la regione è inconciliabile o aporetico (non concordo, ma ho riassunto per farti verificare se ho afferrato la tua prospettiva).
Mi/ti chiedo: l'autocoscienza può comunicare con la ragione? Ovvero, se l'autocoscienza è risolutiva di tutte le apparenti incongruenze che la ragione riscontra intorno a lei, l'autocoscienza può fornire le sue soluzioni alla ragione in modo che l'individuo ne sia cosciente, e quindi la realtà gli risulti meno confusa?
Questo processo di emancipazione dall'apparenza, è eventualmente ancora razionale-mentale oppure è una sorta di "conoscenza superiore", di "illuminazione" (ispirata dall'anima?) che avviene oltre la semplice coscienza "standard"?

Citazione di: davintro il 12 Settembre 2016, 23:21:00 PMPer "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. [...] Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale
Lo spirito sarebbe dunque una ragione ordinatrice dell'esperienza, che allo stesso tempo interpreta e produce senso; ovvero la intendi più come un'attitudine culturale (ogni senso e figlio della sua cultura: "sua" perché la fonda, o "sua" perchè ne deriva, come ha già notato Sariputra) piuttosto che come un'inclinazione verso una trascendenza che prescinde dalla fattualità degli (avvenim)enti. Giusto?

paul11

Phil,
Penso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni. Avviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire e nel momento in cui avvine laregola identitaria dell'<Essere divine immediatamente contraddizione, ma può predicarsi, può conoscere, può esistere. può vivere. L'anima a sua volta suggerisce l'autocoscienza poichè ha l'eco e la vicinanza dello spirito che è l'Essere ( e forse quì potrebbe aver ragione Davintro, quando sostine che già ontologicamente l'uomo nasce con dei contenuti come universale, tempo,ecc.).
 L'auto coscienza la considero automatica in quanto ontologicamente è con il divenire dell'anima che s'incarna in un corpo fisico e immediatamente relaziona con la ragione.Quindi auto come automatismo innato, ma sfera anche dell'intenzione e della volontà che a sua volta muove la ragione per conoscere.
Se l'anima con la morte torna all'Essere che è lo spirito, l'autocoscienza deposita all'anima la sua essenza che è il senso che i significati degli essenti sono stati compresi attraverso il momento contraddittorio della conoscenza con le particolarità .gli eventi, i fenomeni.
Rispetto al pensiero di Davintro, penso, ma non è detto che abbia ragione, che l'evoluzione dal bebè all'uomo maturo sia un risveglio al contrario delle gerarchie ontologiche.
Ovvero, l'esperienza sensoriale sveglia la ragione che a sua volta sveglia l'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima.L'autocoscienza è esattamente il centro nevralgico sia dell'evoluzione come ho appena detto dell'uomo sia come incontro fra il momento ontologico che arriva fino al Sè dell'autocoscienza  che media il rapporto fra eterno e divenire in maniera contraddittoria. la ragione quindi porta astrazioni continuamente all'autocoscienza come esperienza del mondo sensibile ed essendo l'autocoscienza la sfera della volontà e intenzionalità a sua volta pilota la ragione nelle scelte del conoscere costruendosi regole formali e regole ordinative.

Quindi si, quell'auto è  anche riflessione in quanto è il momento speculativo dove riflette la conoscenza acquisita dentro l'esistenza e si pone fra sè e sè nel contraddittorio in cui quì "pesca" le essenze e significazioni e costruisce il senso. Come luogo d'incontro/scontro  fra spirito/anima e ragione/ conoscenza.
Per questo non basta l logica formale bisogna che un'altra logica comprenda quella formale, è il processo del contraddittorio interiore che è la dialogia del Sè quindi è dialettica sia nel divenire sia nella riflessione speculativa. E quì può nascere il senso che lo porta all'Essere, come momento conclusivo ispirativo

Perchè trovo che questa mia tesi sia in qualche modo idonea, perchè non è assolutamente detto che l'autocoscienza trovi essenze e significazioni che gli aprano la porta dell'anima e quindi dell'essere che è spirito.
Quell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino.
A questo punto la ragione è come se collassasse su se stessa perchè la conoscenza infinita nel mondo sensibile dentro il divenire che porta all'autocoscienza non viene mai risolta,quindi l'autocoscienza diventa non momento razionale, ma momento emotivo che esprime l'angoscia .

Sì io credo anche  nel momento ispirativo e intuitivo che sono forme di conoscenza che appaiono in qualunque forma di conoscenza dall'intuito dello scienziato all'ispirazione artistica. siano fondamentali nell'accompagnare ragione e autocoscienza.
Ma ribadisco non è detto assolutamente che l'autocoscienza emancipi, può benissimo decadere.

Ritengo che l'anima ispiri l'autocoscienza e quindi essendo sfera della volontà piloti la ragione, ma è silente non è agente di conoscenza, ma fondamentale momento di trasmissione del senso e significati in quanto porterà a quell'Essere che è spirito che è eterno e privo di predicazioni i significati e il senso che l'autocoscienza con la morte lascia all'anima che ritorna dalla dimensione del divenire a quella dell'eterno.

Il senso che intendo non ha a che fare con le culture temporali, semmai in queste deve trovare le essenze i denominatori comuni delle culture, i confronti nel contraddittorio.Il senso è unire la contraddizione del divenire della conoscenza nel mondo sensibile del divenire all'Essere che è spirito eterno potendogli donare ora le predicazioni.L'Essere ora ha avuto l'orizzonte dell'esistenza temporale,ha conosciuto l'alba e il tramonto.

Il senso lo produce l'autocoscienza, non lo spirito, l'Essere, ma può anche decadere non trovandovi senso o accontentandosi del conoscere il sensibile come verità, come proprio destino che si dissolve.
L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà,  alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo.

Quindi, e finisco, l'Essere tace nel suo semplice "è".

Phil

Questa teoria metafisica (una rivisitazione di Hegel?) mi pone alcuni interrogativi:
Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMPenso che l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito. ma di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste non ha predicazioni
Probabilmente c'è un refuso che è sfuggito alla rilettura: se "l'Essere semplicemente è e corrisponde allo spirito", com'è possibile che "di questo spirito nulla si può dir altro perchè non esiste"?
L'Essere corrispondente allo spirito (sinonimi?!) dovrebbe essere postulato come esistente, altrimenti ne conseguirebbe che l'Essere non è (che è una prospettiva impraticabile nel tuo orizzonte, da quel che ho capito...).

Se poi l'Essere-spirito non ha predicazioni e nulla se ne può dire, come possiamo sostenere che tale Essere emani un'anima? Allora, c'è qualcosa di predicabile riguardo l'Essere-spirito... e com'è possibile ascrivergli tale compito? L'autocoscienza ce lo rivela?


Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMAvviene allora che dall'eterno lo spirito emana un'anima che si incarna nel divenire
Questa emanazione è come l'ipostasi plotiniana o è di altro tipo?

Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMl'autocoscienza che a sua volta ha coscienza di un'anima
L'autocoscienza dunque porge l'idea di anima alla coscienza/ragione tramite... non può essere conoscenza razionale-empirica, quindi suppongo sia tramite intuito, giusto?

Citazione di: paul11 il 13 Settembre 2016, 19:08:49 PMQuell'autocoscienza può benissimo sbarrare la porta, in quanto incapace di risolvere il momento del contraddittorio e quindi si risolve e si dissolve SOLO nel divenire e lo accetta come proprio destino. [...] L'angoscia potrei definirlo come il momento in cui l'anima non può più suggerire all'autocoscienza la presenza ontologica dell'Essere da cui viene, per cui ora l'autocoscienza chiude lo sguardo all'anima e rivolge l'attenzione ,la propria volontà,  alla ragione chiedendo continua conoscenza, illudendosi che il momento contraddittorio possa svanire con la sola ragione applicata al sensibile del mondo
Quindi l'anima, emanata dall'Essere, può essere così "difettosa" da non poter indirizzare l'autocoscienza, oppure così "soggetta al caso" al punto da poter anche produrre un'autocoscienza che si lascia intrappolare dalle contraddizioni della ragione anziché guidarla?
La fallibilità al livello dell'autocoscienza, forse non adeguatamente "sollecitata" dalla ragione, come può (se può) essere ri-orientata verso l'anima?

P.s. I miei riferimenti allo "spirito" e alla "cultura" erano un commento alla citazione da Davintro che avevo riportato...

maral

Se "l'Essere tace nel suo semplice è" come si può dire che è lo spirito? Dicendo che è lo spirito, anche se poi si afferma che dello spirito nulla di può dire, si è già reso l'essere un ente, se ne è presentato un predicato a cui si contrappone la sua negazione, il non spirito, forse quella materia che però ugualmente è e dunque rientra nell'Essere. E perché mai, dato che qualcosa si è detto dell'Essere non si potrebbe predicare ancora dello spirito come di un qualsiasi ente, e predicare all'infinito, come di un qualsiasi ente. Dicendo che l'Essere è lo spirito si è già posta una dualità e ogni dualità continua all'infinito a scindersi negli enti, possiamo cominciare a contare!
L'Essere non è né spirito né materia, poiché è entrambe le cose, esso non ha nome perché ha ogni nome e quando diciamo Essere, diciamo qualcosa che non ha significato perché ha ogni significato, è l'uno e il molteplice, è tutto e niente, è contraddizione che non presenta alcuna contraddizione. E' e quindi appare, ma è e pertanto non appare: appare nel continuo infinito sorgere e tramontare degli enti e si nasconde nel medesimo sorgere e tramontare. E anche questo continuo apparire e scomparire deve apparire e scomparire nell'Essere, perché anch'esso come ogni cosa è.
Ogni dire appropriato dell'essere è inappropriato, ogni senso è insensato, proprio come queste parole. Avvicinarsi all'Essere è entrare nella follia più profonda e originaria degli enti ove tutto e nulla accade.

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