Come dimostrare logicamente l'esistenza della coscienza?

Aperto da HollyFabius, 26 Aprile 2016, 20:12:25 PM

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sgiombo

Citazione di: Loris Bagnara il 05 Maggio 2016, 22:30:31 PM
in questo forum ho visto citato più volte George Berkeley e il suo "esse est percipi", e quasi sempre mi è sembrato che lasciasse intendere una comprensione del pensiero berkeleyano diversa dalla mia.
Può anche darsi che fosse solo un'impressione. In ogni caso, per stabilire una base comune su cui poterci intendere senza rischio di equivoci, mi sembra utile riportare la seguente sintesi del pensiero berkeleyano che si trova su Wikipedia, e che corrisponde alla comprensione che mi ero fatta sin dai tempi del liceo (ahimé, lontani...).

Citazioni da https://it.wikipedia.org/wiki/George_Berkeley:
Citazione[...]
Nei Commentari filosofici scrive che, se l'estensione esistesse al di fuori della mente, o si avrebbe a che fare con un Dio esteso, oppure si dovrebbe riconoscere un essere eterno e infinito accanto a Dio. Berkeley aderisce quindi all'immaterialismo ovvero alla dottrina per cui nulla esiste al di fuori della mente: non esiste la materia, ma solo Dio e gli spiriti umani.
[...]
Ma anche gli oggetti che noi crediamo esistere sono in realtà delle astrazioni ingiustificate; non esistono oggetti corporei, ma soltanto collezioni di idee che ci danno una falsa impressione di materialità e sussistenza complessiva.[1] Infatti noi conosciamo soltanto le idee che coincidono con le impressioni dei sensi. Proprio come in un sogno, noi abbiamo percezioni spazio-temporali relative ad oggetti materiali senza che questi esistano.
[...]
La celebre formula che riassume la filosofia di Berkeley, «Esse est percipi», vuol dire "l'essere significa essere percepito", ossia: tutto l'essere di un oggetto consiste nel suo venir percepito e nient'altro. La teoria immaterialistica così enunciata sentenzia che la realtà si risolve in una serie di idee che esistono solo quando vengono percepite da uno spirito umano. È Dio, spirito infinito, che ci fa percepire sotto forma di cose e fatti le sue idee calate nel mondo. Idee, in un certo senso, "umanizzate", e in quanto tali "percepibili".
La dottrina di Berkeley esclude in virtù di questo principio l'esistenza assoluta dei corpi. Secondo il teologo irlandese tutto ciò che esiste è idea o spirito, quindi la realtà oggettiva non è che un'impressione data dalle idee.[2] Berkeley nega la distinzione fra qualità primarie e secondarie, propria di John Locke, sostenendo che tutte le qualità sono secondarie, cioè soggettive, e rigetta anche l'idea di substrato, ovvero di materia. Se esistesse una materia, essa sarebbe soltanto un limite alla perfezione divina. In questo senso anche la scienza di Newton non ha altro valore che quello di una mera ipotesi, che ci aiuta a fare previsioni per il futuro, ma non ha alcun riferimento con la realtà materiale, che non solo non è conoscibile, ma non esiste affatto. Le idee, secondo Berkeley, vengono impresse nell'uomo da uno spirito infinito, cioè Dio. Lo stesso Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee esistono anche quando non vengono percepite.
Berkeley porta quindi alle estreme conseguenze l'empirismo di Locke, giungendo a negare l'esistenza di una sostanza materiale perché non ricavabile dall'esperienza, e recidendo così ogni possibile legame tra le nostre idee e una realtà esterna. Egli anticipa lo scetticismo di David Hume, ma se ne mette al riparo ammettendo una presenza spirituale che spieghi l'insorgere di simili idee dentro di noi, rendendocele vive e attuali, sebbene prive ormai di un fondamento oggettivo.
[...]

Questo è il pensiero di Berkeley. I passi che ho evidenziato in grassetto parlano chiaro: dal dubbio cartesiano, attraverso l'empirismo di Locke, si giunge all'idealismo assoluto di Berkeley, secondo il quale nulla esiste al di fuori della mente. Uno sviluppo perfettamente coerente e, direi, inevitabile a quel punto.

Se cambiamo la terminologia propria del pensiero occidentale e sostituiamo il Dio personale con qualcos'altro di più "raffinato" siamo ad un passo dal concetto di maya dell'induismo. Insomma, quello che ho sostenuto io in questo 3D, quando ho parlato del primato dell'io-sono nei confronti di un'ipotetica realtà esterna oggettiva.

Rispondo:

Concordo con questa esposizione di Wikipedia, salvo che nell' afermazione:

"In questo senso anche la scienza di Newton non ha altro valore che quello di una mera ipotesi, che ci aiuta a fare previsioni per il futuro, ma non ha alcun riferimento con la realtà materiale, che non solo non è conoscibile, ma NON ESISTE AFATTO. Le idee, secondo Berkeley, vengono impresse nell'uomo da uno spirito infinito, cioè Dio. Lo stesso Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee esistono anche quando non vengono percepite.

Secondo me per Berkeley la scienza newtoniana ci dà una conoscenza vera della materia; solo che quest' ultima é costituita puramemnte e semplicemente da un insieme in divenire di sensazioni REALI UNICAMENTE IN QUANTO, SE E QUANDO ACCADONO e COME TALI (= SONO COSCIENTEMENTE AVVERTITE); E DUNQUE NON E' VERO CHE NON ESISTE AFFATTO: ESISTE COME INSIEME DI SENSAZIONI.

Fra l' altro personalmente (per quel che può valere la mia mia opinione) fin qui sono perefettamente d' accordo col vescovo irlandese; non concordo con la parte letteralmente "metafisica" delle sue argomentazioni, ma piuttosto con Hume in proposito (che a mio avviso lo ha decisamente superato: Berkeley non si mette affatto anticipatamente al riparo dallo scetticismo di Hume!
Di Hume condivido anche l' applicazione (portando conseguentemente fino in fondo la critica berkeleyana) dell' "esse est percipi" pure alle sensazioni coscienti interiori o di pensiero: potrebbe non esistere nemmeno alcun io soggetto-oggetto delle sensazioni interiori (e da esse distinto, ulteriore rispetto ad esse) e soggetto delle esteriori, in aggiunta alle sole sensazioni coscienti, oltre che (con Berkeley) alcun oggetto materiale di quelle esterne (ulteriore ad esse, da esse distinto, in aggiunta ad esse).

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 06 Maggio 2016, 00:20:12 AMLa critica principale di Candrakirti è che senza l'oggetto la coscienza conoscitrice non può funzionare. Se l'oggetto fosse irreale cosa si può conoscere? La mente è vuota e non può conoscere se stessa. Deve lavorare su qualcosa; una semplice forma non può fornire il contenuto."Neppure la spada più affilata può tagliare se stessa; le punte delle dita non possono essere toccate dalle stesse punte delle dita. La mente non conosce se stessa" dice il filosofo buddhista. Come può qualcosa essere allo stesso tempo il conoscitore e il conosciuto, senza dividersi in due? Se è conosciuto da un altro atto di conoscenza, quest'ultima conoscenza sarà conosciuta da un'altra, ciò che conduce ad un regresso all'infinito. Le semplici categorie, o anche l'Io trascendentale, sono del tutto vuoti. Non appare possibile avere alcuna conoscenza di sè senza la conoscenza degli oggetti. Il tutto si risolve, per Candrakirti, fedele alla posizione del Buddha di negazione dei punti di vista dell'"è" e del "non è",in un disturbo dei modi comuni di conoscenza dell'esistenza oggettiva senza alcun vantaggio compensatorio. In quanto reciprocamente dipendenti, né il soggetto puro né l'oggetto puro (la cosa in sè e il dato sensoriale) sono  incondizionatamente reali.
E' vero che , nella costruzione per es.del Vedanta, il mondo costruito del soggetto-oggetto è irreale (maya) ma questo non rende irreale il suo sub-strato (brahman) che però è non-concettuale. Se fosse l'oggetto dell'ideazione sarebbe irreale  come qualsiasi altro oggetto sovraimposto.L'Assoluto appare del tutto privo della dualità soggetto-oggetto.
Candrakirti però amplia la Critica anche a questo supposto substrato assoluto  in quanto , necessitando per apparire del dualismo soggetto-oggetto, non può dirsi incondizionatamente reale in quanto dipendente dalle forme del suo apparire. Per Candrakirti non si può avere Brahman senza maya, cosa in sè e ideazione costruttiva sono relative l'una all'altra. Come tali esse sono entrambe condizionate, e quindi vuote (shunya). Il discepolo di Nagarjuna non esita quindi a considerare sia la cosa in sè che le categorie della ragione pura come costruzioni concettuali. E queste costruzioni concettuali (vikalpa) sono l'oscuramento dell'Intuizione  che è il Reale.

Mi pare che il portare conseguentemente fino in fondo la critica berkeleyana dell' "esse est percipi", oltre che a quelle esteriori o materiali anche alle sensazioni interiori o mentali, come fece Hume, superi queste critiche:

ciò che é immediatamente evidente, di cui può aversi assolutamente certezza (se accade) sono le sensazioni (sia materiali sia mentali: la totalità della realtà potrebbe limitarsi ad esse, senza implicare, "in aggiunta", né oggetti in sé, né un soggetto in sé, che non sono logicamente necessari).

L' esistenza di una realtà in sé o noumeno (per dirlo a la Kant), oltre alle sensazioni, non può essere dimostrata: sono d' accordo con Nagarjuna che si tratta di una "costruzione concettuale"; ma non che questete costruzioni concettuali "sono l'oscuramento dell'Intuizione  che è il Reale", anzi!.
Rilevo innanzitutto che nemmeno se ne può dimostare l' inesistenza.
E inoltre che, lungi dall' "oscurare il reale", vi getta una certa luce, lo illumina alquanto, spiegando molte cose altrimenti incomprensibili del divenire delle sensazioni fenomeniche coscienti (sia materiali che mentali, nonché dei rispettivi rapporti).

Sariputra

#47
Citazione di: sgiombo il 06 Maggio 2016, 13:29:34 PM
Citazione di: Sariputra il 06 Maggio 2016, 00:20:12 AMLa critica principale di Candrakirti è che senza l'oggetto la coscienza conoscitrice non può funzionare. Se l'oggetto fosse irreale cosa si può conoscere? La mente è vuota e non può conoscere se stessa. Deve lavorare su qualcosa; una semplice forma non può fornire il contenuto."Neppure la spada più affilata può tagliare se stessa; le punte delle dita non possono essere toccate dalle stesse punte delle dita. La mente non conosce se stessa" dice il filosofo buddhista. Come può qualcosa essere allo stesso tempo il conoscitore e il conosciuto, senza dividersi in due? Se è conosciuto da un altro atto di conoscenza, quest'ultima conoscenza sarà conosciuta da un'altra, ciò che conduce ad un regresso all'infinito. Le semplici categorie, o anche l'Io trascendentale, sono del tutto vuoti. Non appare possibile avere alcuna conoscenza di sè senza la conoscenza degli oggetti. Il tutto si risolve, per Candrakirti, fedele alla posizione del Buddha di negazione dei punti di vista dell'"è" e del "non è",in un disturbo dei modi comuni di conoscenza dell'esistenza oggettiva senza alcun vantaggio compensatorio. In quanto reciprocamente dipendenti, né il soggetto puro né l'oggetto puro (la cosa in sè e il dato sensoriale) sono incondizionatamente reali. E' vero che , nella costruzione per es.del Vedanta, il mondo costruito del soggetto-oggetto è irreale (maya) ma questo non rende irreale il suo sub-strato (brahman) che però è non-concettuale. Se fosse l'oggetto dell'ideazione sarebbe irreale come qualsiasi altro oggetto sovraimposto.L'Assoluto appare del tutto privo della dualità soggetto-oggetto. Candrakirti però amplia la Critica anche a questo supposto substrato assoluto in quanto , necessitando per apparire del dualismo soggetto-oggetto, non può dirsi incondizionatamente reale in quanto dipendente dalle forme del suo apparire. Per Candrakirti non si può avere Brahman senza maya, cosa in sè e ideazione costruttiva sono relative l'una all'altra. Come tali esse sono entrambe condizionate, e quindi vuote (shunya). Il discepolo di Nagarjuna non esita quindi a considerare sia la cosa in sè che le categorie della ragione pura come costruzioni concettuali. E queste costruzioni concettuali (vikalpa) sono l'oscuramento dell'Intuizione che è il Reale.
Mi pare che il portare conseguentemente fino in fondo la critica berkeleyana dell' "esse est percipi", oltre che a quelle esteriori o materiali anche alle sensazioni interiori o mentali, come fece Hume, superi queste critiche: ciò che é immediatamente evidente, di cui può aversi assolutamente certezza (se accade) sono le sensazioni (sia materiali sia mentali: la totalità della realtà potrebbe limitarsi ad esse, senza implicare, "in aggiunta", né oggetti in sé, né un soggetto in sé, che non sono logicamente necessari). L' esistenza di una realtà in sé o noumeno (per dirlo a la Kant), oltre alle sensazioni, non può essere dimostrata: sono d' accordo con Nagarjuna che si tratta di una "costruzione concettuale"; ma non che questete costruzioni concettuali "sono l'oscuramento dell'Intuizione che è il Reale", anzi!. Rilevo innanzitutto che nemmeno se ne può dimostare l' inesistenza. E inoltre che, lungi dall' "oscurare il reale", vi getta una certa luce, lo illumina alquanto, spiegando molte cose altrimenti incomprensibili del divenire delle sensazioni fenomeniche coscienti (sia materiali che mentali, nonché dei rispettivi rapporti).

E' evidente che ,come non se ne può affermare l'esistenza, nemmeno se ne può dimostrare l'inesistenza ( del noumeno kantiano). Pertanto per il pensiero buddhista, che è essenzialmente e intrinsecamente "pratico", appare ininfluente, come mettersi a discutere di farfalle immaginarie. Tu sostieni che, in definitiva, l'unica cosa di cui possiamo esser certi sono le sensazioni. Questo mi sembra un assolutizzare il fenomeno "sensazione" ( in pali ditthi, tendenza dogmatica della mente a formulare opinioni assolute). Portando all'estremo questa teoria non si può che aderire al solipsismo a parer mio. Affermare la supremazia dell'Intuizione risolve implicitamente questa "deriva" del concettualizzare il reale. E' infatti l'Intuizione che ti fa "intuire" l'esistenza dei fenomeni altri da sè e dalla sensazione, non certo il ragionamento. L'intuizione viene prima del ragionamento che mi appare come uno sviluppo dell'intuizione stessa. L'intuizione "vede" la catena formata da contatto-sensazione-volizione-coscienza, elementi tutti interdipendenti fra loro e quindi vuoti di un sè. Questa è la capacità naturale della mente non concettualizzante, chiamiamola istintiva, intuitiva, mente reale, non è importante, sono solo termini.
Sono d'accordo con te che i concetti sono assai importanti. Infatti le due facoltà, intuizione e ragione, DEVONO lavorare insieme. Anche solo per dimostrare l'importanza del fattore "mente intuitiva" devo servirmi della ragione e dei concetti da essa espressi. La critica di Candrakirti, secondo il mio comprendere, mi appare rivolta alle "costruzioni concettuali" che pretendono di spiegare ed esaurire il reale e piegarlo ai concetti stessi. Se il reale sfugge alla concettualizzazione ( che è strumento di investigazione di una parte del reale e che permette la nostra sopravvivenza NEL reale) lo strumento Intuizione, secondo il pensiero madhyamika, appare più adeguato per investigarlo nel suo complesso interdipendente e vuoto di un sè.
Per questo Candrakirti parla di "oscuramento". Se la mente è dominata da costruzioni concettuali che spazio rimane per la pura intuizione?
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 06 Maggio 2016, 15:30:45 PM
E' evidente che ,come non se ne può affermare l'esistenza, nemmeno se ne può dimostrare l'inesistenza ( del noumeno kantiano). Pertanto per il pensiero buddhista, che è essenzialmente e intrinsecamente "pratico", appare ininfluente, come mettersi a discutere di farfalle immaginarie. Tu sostieni che, in definitiva, l'unica cosa di cui possiamo esser certi sono le sensazioni. Questo mi sembra un assolutizzare il fenomeno "sensazione" ( in pali ditthi, tendenza dogmatica della mente a formulare opinioni assolute). Portando all'estremo questa teoria non si può che aderire al solipsismo a parer mio. Affermare la supremazia dell'Intuizione risolve implicitamente questa "deriva" del concettualizzare il reale. E' infatti l'Intuizione che ti fa "intuire" l'esistenza dei fenomeni altri da sè e dalla sensazione, non certo il ragionamento. L'intuizione viene prima del ragionamento che mi appare come uno sviluppo dell'intuizione stessa. L'intuizione "vede" la catena formata da contatto-sensazione-volizione-coscienza, elementi tutti interdipendenti fra loro e quindi vuoti di un sè. Questa è la capacità naturale della mente non concettualizzante, chiamiamola istintiva, intuitiva, mente reale, non è importante, sono solo termini.
Sono d'accordo con te che i concetti sono assai importanti. Infatti le due facoltà, intuizione e ragione, DEVONO lavorare insieme. Anche solo per dimostrare l'importanza del fattore "mente intuitiva" devo servirmi della ragione e dei concetti da essa espressi. La critica di Candrakirti, secondo il mio comprendere, mi appare rivolta alle "costruzioni concettuali" che pretendono di spiegare ed esaurire il reale e piegarlo ai concetti stessi. Se il reale sfugge alla concettualizzazione ( che è strumento di investigazione di una parte del reale e che permette la nostra sopravvivenza NEL reale) lo strumento Intuizione, secondo il pensiero madhyamika, appare più adeguato per investigarlo nel suo complesso interdipendente e vuoto di un sè.
Per questo Candrakirti parla di "oscuramento". Se la mente è dominata da costruzioni concettuali che spazio rimane per la pura intuizione?

Rispondo:

Mettersi a discutere di farfalle può essere un inutile (per quanto interssante) perdita di tempo.
Invece credo che l' esistenza del noumeno spieghi molte e importanti cose dell' esperienza sensibile, come l' intersoggettività della sua componente materiale (indispensabile al superamento del solipsismo e necessariamente postulata dalla conoscenza scientifica).

Sostenere che, in definitiva, l'unica cosa di cui possiamo esser certi sono le sensazioni non mi sembra un assolutizzare il fenomeno "sensazione" ma semplicemente constatare la realtà dei fatti; e porta all' indimostrabilità della superabilità del solipsismo (di cui si deve essere consapevoli se si vuole guardare in faccia la realtà e non coltivare illusioni non razionalmente fondate); solipsismo che può comunque essere superato "per fede", essendo ben consapevoli di questo carattere non razionalmemte dimostrabile e certo del superamento stesso.

L' "intuizione" non riesco proprio a capire in che cosa possa consistere (se non in questa "fuoriuscita consepevolmente irrazionalistica dal solipsismo", espressa con altre parole).
Per me "intuizione" ha sempre significato "credenza acritica, infondata nella prima ipotesi che ci viene casualmente in mente", che nulla garantisce essere veritiera. E mi sembra che sia un concetto ben applicabile all' "intuizione" che ""vede" la catena formata da contatto-sensazione-volizione-coscienza, elementi tutti interdipendenti fra loro e quindi vuoti di un sè" (effettivamente un parto della mente non concettualizzante, chiamiamola istintiva, intuitiva, arbitraiamente, infondatamente, acriticamente fantasticheggiante).

Non vedo comunque come si possa spiegare il reale altrimenti che con "costruzioni concettuali", cioé sottoponendo ad analisi critica razionale ciò di cui abbiamo coscienza.
Ciò che nel reale sfuggisse alla concettualizzazione e critica razionale non potrebbe essere conosciuto fondatamente (non potrebbe nemmeno essere pensato razionalmente, ma casomai soltanto "immaginato arbitrariamente, fantasiosamente", senza fondamenti su cui poggiare il giudizo che sia reale nei fatti -oltre che fantasticamente immaginato, nel pensiero- o meno).

Loris Bagnara

Ricordo che ai tempi del liceo il pensiero di Hume non mi prese più di tanto, e tornandoci sopra ora devo confermare la mia prima impressione...

Riporto alcuni passi da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/David_Hume)
CitazionePer Hume la sostanza non era altro che una "collezione di qualità particolari" ovvero un insieme di stimoli e di sensazioni empiriche provenienti dall'esterno cementate dal nostro intelletto fino a creare un'idea di ciò che stiamo analizzando, creandoci l'impressione che ciò esista anche nel momento in cui noi non lo percepiamo.
Nel suo iter filosofico Hume fece rientrare in questo ragionamento anche l'"io". Egli cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Il pensiero di Hume mi sembra un chiaro esempio di come lo scetticismo, spinto ai suoi estremi, divenga sterile e insensato, trasformando ragionamenti in sofismi.

Per Hume, "se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla".
Quest'affermazione farebbe come minimo sorridere un orientale (come pure qualunque occidentale dedito a un minimo di meditazione), perché a una mente attenta e lucida appare chiara la presenza dell'Osservatore dietro il flusso delle sensazioni, Osservatore che permane anche quando nella mente si riesce a fare il vuoto, anche solo per brevi momenti. I grandi meditatori orientali poi vedono anche l'Osservatore dell'Osservatore, e l'Osservatore dell'Osservatore dell'Osservatore; ma non è necessario spingersi così oltre per capire che parlare di sensazioni senza un senziente è un'insensatezza.

Per definizione, una sensazione richiede un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto.

Se no chi le sente le sensazioni? Si sentono da sole? Ogni sensazione è autosensibile?
Supponiamo di sì: ogni sensazione è autosensibile. Ma se l'io, come dice Hume, è solo "un'amalgama di sensazioni" autosensibili, chi o che cos'è a realizzare l'amalgama, appunto? Come avviene che un fascio di sensazioni autosensibili si aggregano in un'unico amalgama che produce l'impressione (non importa se reale o illusoria) di un soggetto unico?
Se è vero che Hume "cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno" (bellissima domanda che anch'io mi sono sempre fatto), qual è poi la sua risposta? Nulla. Bella domanda inevasa.

Per non dire del fatto che anche solo a esporre quel che Hume vuol dire non si riesce ad evitare l'incoerenza e il non senso. 
Hume infatti dice: "se ci addentriamo nel nostro io, se eliminiamo ogni singola sensazione etc"... Ma chi è il soggetto grammaticale di questi verbi? Noi. Chi è dunque che compie le azioni di "addentrarsi" ed "eliminare"? Noi.
Ma noi chi, se non il soggetto senziente, l'io-sono?

Sarà anche vero che Hume è all'origine di quella corrente di pensiero che ha portato agli spettacolari successi della scienza moderna, ma per quanto riguarda la filosofia, ne faccio tranquillamente a meno.

sgiombo

#50
Citazione di: Loris Bagnara il 06 Maggio 2016, 18:49:17 PM
Ricordo che ai tempi del liceo il pensiero di Hume non mi prese più di tanto, e tornandoci sopra ora devo confermare la mia prima impressione...

Riporto alcuni passi da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/David_Hume)
CitazionePer Hume la sostanza non era altro che una "collezione di qualità particolari" ovvero un insieme di stimoli e di sensazioni empiriche provenienti dall'esterno cementate dal nostro intelletto fino a creare un'idea di ciò che stiamo analizzando, creandoci l'impressione che ciò esista anche nel momento in cui noi non lo percepiamo.
Nel suo iter filosofico Hume fece rientrare in questo ragionamento anche l'"io". Egli cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Il pensiero di Hume mi sembra un chiaro esempio di come lo scetticismo, spinto ai suoi estremi, divenga sterile e insensato, trasformando ragionamenti in sofismi.

Per Hume, "se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla".
Quest'affermazione farebbe come minimo sorridere un orientale (come pure qualunque occidentale dedito a un minimo di meditazione), perché a una mente attenta e lucida appare chiara la presenza dell'Osservatore dietro il flusso delle sensazioni, Osservatore che permane anche quando nella mente si riesce a fare il vuoto, anche solo per brevi momenti. I grandi meditatori orientali poi vedono anche l'Osservatore dell'Osservatore, e l'Osservatore dell'Osservatore dell'Osservatore; ma non è necessario spingersi così oltre per capire che parlare di sensazioni senza un senziente è un'insensatezza.

Per definizione, una sensazione richiede un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto.

Se no chi le sente le sensazioni? Si sentono da sole? Ogni sensazione è autosensibile?
Supponiamo di sì: ogni sensazione è autosensibile. Ma se l'io, come dice Hume, è solo "un'amalgama di sensazioni" autosensibili, chi o che cos'è a realizzare l'amalgama, appunto? Come avviene che un fascio di sensazioni autosensibili si aggregano in un'unico amalgama che produce l'impressione (non importa se reale o illusoria) di un soggetto unico?
Se è vero che Hume "cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno" (bellissima domanda che anch'io mi sono sempre fatto), qual è poi la sua risposta? Nulla. Bella domanda inevasa.

Per non dire del fatto che anche solo a esporre quel che Hume vuol dire non si riesce ad evitare l'incoerenza e il non senso.
Hume infatti dice: "se ci addentriamo nel nostro io, se eliminiamo ogni singola sensazione etc"... Ma chi è il soggetto grammaticale di questi verbi? Noi. Chi è dunque che compie le azioni di "addentrarsi" ed "eliminare"? Noi.
Ma noi chi, se non il soggetto senziente, l'io-sono?

Sarà anche vero che Hume è all'origine di quella corrente di pensiero che ha portato agli spettacolari successi della scienza moderna, ma per quanto riguarda la filosofia, ne faccio tranquillamente a meno.


Rispondo:

No, scusa, ma l' affermazione che la filosofia di David Hume sia insensata e costituita da sofismi andrebbe dimostrata.


Orientali e occidentali dediti alla "meditazione" (perché David Hume non "meditava" ovvero pensava, ragionava, e anche molto finemente?!?!?!) possono sorridere fin che vogliono (buon per loro: fa buon sangue!), ma "la presenza dell'Osservatore dietro il flusso delle sensazioni, Osservatore che permane anche quando nella mente si riesce a fare il vuoto, anche solo per brevi momenti" non è affatto logicamente necessaria, né dimostrabile (e men che meno mostrabile) in alcun modo; e inoltre "parlare di sensazioni senza un senzienteè sensatissimo, cose giustamente rilevato da David Hume.
I sorrisi non sono argomenti e non dimostrano né confutano alcunché (casomai possono esprimere un atteggiamento di pretesa, presuntuosa e saccente "superiorità intellettuale" preconcetta).

Una sensazione non richiede affatto necessariamente un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto per definizione: necessariamente è unicamente un apparenza sensibile, un evento di coscienza. Punto e basta.
Soggetti e oggetti, reali anche allorché non accadono le sensazioni (= apparenze sensibili, eventi di coscienza), non la accompagnano necessariamente: non si può dimostrare né tantomeno mostrare che siano reali ma li si può (e si deve: di fatto lo fanno o per lo meno si comportano come se lo facessero tutti i sani di mente) credere esistere soltanto infondatamente, arbitrariamente, letteralmente "per fede".

Pretendere che
Una sensazione richieda necessariamente un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto per definizione sarebbe come pretendere che l' esistenza della realtà richieda necessariamente per definizione un creatore o che l' esistenza dell' evoluzione biologica (o magari solo della diversità biologica esistente) richieda necessariamente un "disegno intelligente".

Domanda di Loris Bagnara: "Se no chi le sente le sensazioni? Si sentono da sole? Ogni sensazione è autosensibile?
Supponiamo di sì: ogni sensazione è autosensibile. Ma se l'io, come dice Hume, è solo "un'amalgama di sensazioni" autosensibili, chi o che cos'è a realizzare l'amalgama, appunto? Come avviene che un fascio di sensazioni autosensibili si aggregano in un'unico amalgama che produce l'impressione (non importa se reale o illusoria [SIC!, N.d.R.]) di un soggetto unico?"

Risposta: Se no semplicemente accadono ("aggregate in un amalgama o in un fascio unico", se così vogliamo esprimerci, che tende ad indurre la convinzione –indimostrabile, né tantomeno empiricamente constatabile, verificabile- dell' esistenza di un soggetto unico). Punto e Basta.

E se si appura, come David Hume genialmente appurò, che non esiste una risposta dimostrabile né tantomeno mostrabile alla domanda su "quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno" questa è proprio la giusta, la vera risposta.

Della frase "se ci addentriamo nel nostro io, se eliminiamo ogni singola sensazione etc" il soggetto puramente grammaticale (ma la filosofia non è certo banale analisi grammaticale da terza elementare!) è "noi", prima persona plurale; ma i fatti certi, indubitabili sono solo e unicamente che accadono le sensazioni interiori o mentali dell' analisi del presunto proprio io e dell' eliminazione di ogni singola sensazione, senza inoltre alcun necessario soggetto senziente o io-sono?

Hume non è affatto all'origine di "quella corrente di pensiero che ha portato agli spettacolari successi della scienza moderna" (-?- Casomai Galileo e Newton!), ma per quanto riguarda la filosofia, non è stato superato o confutato da nessuno (in Oriente, Occidente, Settentrione o Meridione); e personalmente non posso assolutamente farne a meno.

davintro

#51
Per Sgiombo:

che un certo stato di cose sia reale o non sia reale, ciò costituisce un'alternativa in cui il realizzarsi dello stato di cose implica una distinzione qualitativa rispetto al non-realizzarsi di essa. Nel senso che non esistono situazioni intermedie, non esistono livelli in cui un evento è "più o meno" reale. O è reale o non lo è. Una distinzione discreta. Invece il concetto di costanza intersoggettiva dei fenomeni va pensato come qualcosa di continuo, indiscreto, la costanza delle esperienze, delle sensazioni ha un valore quantitativo, esistono infiniti (perchè infiniti sono i numeri) livelli di conformità intersoggettiva. Cioè, c'è un'infinita quantità di situazioni in cui un complesso di sensazioni può essere più o meno condiviso da una serie di coscienze senzienti.  Uno stesso complesso sensitivo può essere sentito da più o meno soggetti senzienti. Possiamo ipotizzare un infinito numero di soggetti senzienti ed infiniti gradi di intensità delle sensazioni. Ora, come è possibile isolare un momento di questo ipotetico continuum per porlo come criterio discriminante in base al quale stabilire quando uno stato di cose diverrebbe reale? Qual'è la quantità di conformità intersoggettiva oltre il quale le sensazioni corrispondono a un oggetto reale? La maggioranza assoluta delle coscienze attualmenti presenti nel mondo? Se di uno stesso evento abbiamo 4 miliardi di soggetti che hanno dello stesso oggetto un'immagine sensitiva e 3 miliardi che ne hanno una contrastante possiamo ritenere sufficiente il livello di conformità intersoggettiva per accettare che la realtà sia ciò che sostengono i 4?  Oppure la selezione del criterio è totalmente arbitraria... e in questo caso come può fondare la conoscenza e la verità scientifica? Come può un criterio quantitativo (la conformità intersoggettiva delle sensazioni) determinare qualcosa di qualitativo come il carattere di esistenza di uno stato di cose?

Non mi sembra abbia molto senso in questo contesto la distinzione tra la sensazione della neve rossa e la credenza nel sistema tolemaico. Verissima l'idea della distinzione tra un'immagine percettiva e una presa di posizione giudicativa, ma le credenze scientifiche nascono dall'osservazione sensibile e quindi una volta identificata la realtà con le sensazioni soggettive le credenze dovrebbero seguire lo stesso destino dell'immagine della neve. Quando ho fatto l'esempio della neve ho dato per scontato che l'immagine della neve rossa avrebbe condotto le persone a modificare la credenza. Del resto, starebbe proprio nella distinzione tra il piano dell'immagine percettiva e quello dei giudizi l'ammissione implicita di una realtà oggettiva, a cui i nostri giudizi sono riferiti distinta dalle sensazioni soggettive. Altrimenti, in cosa consisterebbe la differenza di senso del nostro rapporto con la realtà che si ha quando la si giudica rispetto a quando ci si limiterebbe a percepirla?

Personalmente non ce la faccio a concepire realtà senza causalità... e allora se le sensazioni costituissero la realtà dovrebbero essere causa di loro stesse. Se le sensazioni e i pensieri che nascono da esse avessero un potere causale, non porterebbe tutto ciò a una sorta di concezione magica nella quale il pensiero e la sensibilità creerebbero i loro oggetti  invece che limitarsi a rappresentarli? E tornando all'esempio della neve: la modifica dei campi sensoriali che porterebbe a un certo momento le persone a vedere la neve rossa invece che bianca da cosa sarebbe causata? Sono le sensazioni stesse che a un certo punto, non si sa perchè, modificherebbero il loro contenuto qualitativo? io credo che la causa debba essere una "cosa stessa" e che va distinta nettamente l'idea che "conosciamo solo fenomeni" da quella "conosciamo solo ATTRAVERSO i fenomeni". La prima opzione porterebbe allo scetticismo assoluto e dunque alla fine di ogni razionalità possibile, scientifica e filosofica, la seconda, su cui sono pienamente d'accordo, porrebbe i fenomeni, a partire dalle sensazioni, come un'inaggirabile via che però porterebbe necessariamente a riconoscere l'esigenza di un'oggettività, di una cosa in sè che determina la manifestazione dei fenomeni stessi e dunque la possibilità di una coscienza.


Sgiombo scrive:
"Fra l' altro personalmente (per quel che può valere la mia mia opinione) fin qui sono perefettamente d' accordo col vescovo irlandese; non concordo con la parte letteralmente "metafisica" delle sue argomentazioni, ma piuttosto con Hume in proposito (che a mio avviso lo ha decisamente superato: Berkeley non si mette affatto anticipatamente al riparo dallo scetticismo di Hume!
Di Hume condivido anche l' applicazione (portando conseguentemente fino in fondo la critica berkeleyana) dell' "esse est percipi" pure alle sensazioni coscienti interiori o di pensiero: potrebbe non esistere nemmeno alcun io soggetto-oggetto delle sensazioni interiori (e da esse distinto, ulteriore rispetto ad esse) e soggetto delle esteriori, in aggiunta alle sole sensazioni coscienti, oltre che (con Berkeley) alcun oggetto materiale di quelle esterne (ulteriore ad esse, da esse distinto, in aggiunta ad esse)."

Invece secondo me l' "esse est percipi" non potrebbe in alcun modo prescindere dalla visione metafisica, che per quel che ricordo, Berkeley sosteneva, per cui anche se tutti gli uomini smettessere di ossrvare l'albero questo continuerebbe a esistere dato che ci sarebbe ancora Dio che lo osserva. Perchè, se rigettiamo l'idea di un Dio osservatore eterno, o dovremmo concepire l'idea di un' "Umanità primordiale" da sempre soggetto delle percezioni sensibili, oppure dovremmo accettare che se l'uomo,insieme agli animali preistorici, dinosauri ecc., e in generale la vita di esseri senzienti ha cominciato a esistere successivamente rispetto ad uno sviluppo meramente fisico dell'Universo, allora in questo in caso dovremmo ammettere l'esistenza per un larghissimo lasso di tempo di una realtà che nessuna coscienza senziente osservava... Dall'impasse si esce solo pensando che tale realtà, seppur non ancora attualmente sentita era già costituita in modo da essere POTENZIALMENTE sentita e manifestabile ad una coscienza che sarebbe poi in futuro venuta ad esistere. La soluzione mi sembra convincente, ma certo il principio dell' "esse est percipi" uscirebbe di molto depotenziato, le sensazioni verrebbero degradate a puro principio gnoseoloegico del reale, ma non più fondamento esistenziale del reale. Per questo penso che il solispismo, nel senso forte ed estremo del termine, non possa che porsi come "iperspiritualismo"


memento

#52
Citazione di: Loris Bagnara il 06 Maggio 2016, 18:49:17 PM
Ricordo che ai tempi del liceo il pensiero di Hume non mi prese più di tanto, e tornandoci sopra ora devo confermare la mia prima impressione...

Riporto alcuni passi da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/David_Hume)
CitazionePer Hume la sostanza non era altro che una "collezione di qualità particolari" ovvero un insieme di stimoli e di sensazioni empiriche provenienti dall'esterno cementate dal nostro intelletto fino a creare un'idea di ciò che stiamo analizzando, creandoci l'impressione che ciò esista anche nel momento in cui noi non lo percepiamo.
Nel suo iter filosofico Hume fece rientrare in questo ragionamento anche l'"io". Egli cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Il pensiero di Hume mi sembra un chiaro esempio di come lo scetticismo, spinto ai suoi estremi, divenga sterile e insensato, trasformando ragionamenti in sofismi.

Per Hume, "se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla".
Quest'affermazione farebbe come minimo sorridere un orientale (come pure qualunque occidentale dedito a un minimo di meditazione), perché a una mente attenta e lucida appare chiara la presenza dell'Osservatore dietro il flusso delle sensazioni, Osservatore che permane anche quando nella mente si riesce a fare il vuoto, anche solo per brevi momenti. I grandi meditatori orientali poi vedono anche l'Osservatore dell'Osservatore, e l'Osservatore dell'Osservatore dell'Osservatore; ma non è necessario spingersi così oltre per capire che parlare di sensazioni senza un senziente è un'insensatezza.

Per definizione, una sensazione richiede un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto.

Se no chi le sente le sensazioni? Si sentono da sole? Ogni sensazione è autosensibile?
Supponiamo di sì: ogni sensazione è autosensibile. Ma se l'io, come dice Hume, è solo "un'amalgama di sensazioni" autosensibili, chi o che cos'è a realizzare l'amalgama, appunto? Come avviene che un fascio di sensazioni autosensibili si aggregano in un'unico amalgama che produce l'impressione (non importa se reale o illusoria) di un soggetto unico?
Se è vero che Hume "cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno" (bellissima domanda che anch'io mi sono sempre fatto), qual è poi la sua risposta? Nulla. Bella domanda inevasa.

Per non dire del fatto che anche solo a esporre quel che Hume vuol dire non si riesce ad evitare l'incoerenza e il non senso.
Hume infatti dice: "se ci addentriamo nel nostro io, se eliminiamo ogni singola sensazione etc"... Ma chi è il soggetto grammaticale di questi verbi? Noi. Chi è dunque che compie le azioni di "addentrarsi" ed "eliminare"? Noi.
Ma noi chi, se non il soggetto senziente, l'io-sono?

Sarà anche vero che Hume è all'origine di quella corrente di pensiero che ha portato agli spettacolari successi della scienza moderna, ma per quanto riguarda la filosofia, ne faccio tranquillamente a meno.

Provo a prendere le difese del buon Hume (non credo che ne abbia bisogno,ma ci provo).
L'errore che spesso il senso comune ci spinge a fare,e contro cui la filosofia scettica di Hume si è sempre scagliata,è quello di porre l'io ad occupare il ruolo di soggetto senziente. Ma l'equivalenza tra Io e soggetto senziente non è affatto da dare per ovvia.
Chi sente le sensazioni? In primis,gli organi ricettivi,i 5 sensi. Secondariamente il cervello che elabora le informazioni ricevute dalle proprie diramazioni nervose. Se volessimo sintetizzare in un solo concetto,il nostro corpo. Il processo che si svolge all'interno del nostro organismo e ci consente di recepire segnali dall'ambiente esterno è precosciente,nel senso che avviene prima della supervisione della coscienza; e non potrebbe essere altrimenti perché la coscienza non può operare in mancanza di altri elementi da riflettere. 
Quindi,per rispondere alla tua seconda domanda, è la coscienza a realizzare,attraverso la sua azione di controllo, l'amalgama fra le sensazioni,ossia ad "incaricarsi" di costruire un senso coerente e unico,un Io.
Non è necessario pensare che vi sia un autore che,da dietro le quinte,manovri il meccanismo. Accade tutto in maniera perfettamente naturale e spontanea (e sai che fatica se non lo fosse!). Pensare che ad ogni azione corrisponda un soggetto,cosi come che ad ogni effetto corrisponda una causa (un altro punto cardine della filosofia humiana),è un preconcetto illogico,e che pure fonda la logica stessa. Io ad esempio ho appena parlato di sensi e coscienza come fossero soggetti che agiscono, quando in realtà sono solo concetti di cui mi sono servito per necessità di spiegazione.

P.S. se Hume fosse stato preso sul serio anche all'epoca, probabilmente la Scienza avrebbe aspirato a ben altri successi.
Vedo che Sgiombo mi ha preceduto :)

Sariputra

Citazione di: sgiombo il 06 Maggio 2016, 16:56:02 PM
Citazione di: Sariputra il 06 Maggio 2016, 15:30:45 PME' evidente che ,come non se ne può affermare l'esistenza, nemmeno se ne può dimostrare l'inesistenza ( del noumeno kantiano). Pertanto per il pensiero buddhista, che è essenzialmente e intrinsecamente "pratico", appare ininfluente, come mettersi a discutere di farfalle immaginarie. Tu sostieni che, in definitiva, l'unica cosa di cui possiamo esser certi sono le sensazioni. Questo mi sembra un assolutizzare il fenomeno "sensazione" ( in pali ditthi, tendenza dogmatica della mente a formulare opinioni assolute). Portando all'estremo questa teoria non si può che aderire al solipsismo a parer mio. Affermare la supremazia dell'Intuizione risolve implicitamente questa "deriva" del concettualizzare il reale. E' infatti l'Intuizione che ti fa "intuire" l'esistenza dei fenomeni altri da sè e dalla sensazione, non certo il ragionamento. L'intuizione viene prima del ragionamento che mi appare come uno sviluppo dell'intuizione stessa. L'intuizione "vede" la catena formata da contatto-sensazione-volizione-coscienza, elementi tutti interdipendenti fra loro e quindi vuoti di un sè. Questa è la capacità naturale della mente non concettualizzante, chiamiamola istintiva, intuitiva, mente reale, non è importante, sono solo termini. Sono d'accordo con te che i concetti sono assai importanti. Infatti le due facoltà, intuizione e ragione, DEVONO lavorare insieme. Anche solo per dimostrare l'importanza del fattore "mente intuitiva" devo servirmi della ragione e dei concetti da essa espressi. La critica di Candrakirti, secondo il mio comprendere, mi appare rivolta alle "costruzioni concettuali" che pretendono di spiegare ed esaurire il reale e piegarlo ai concetti stessi. Se il reale sfugge alla concettualizzazione ( che è strumento di investigazione di una parte del reale e che permette la nostra sopravvivenza NEL reale) lo strumento Intuizione, secondo il pensiero madhyamika, appare più adeguato per investigarlo nel suo complesso interdipendente e vuoto di un sè. Per questo Candrakirti parla di "oscuramento". Se la mente è dominata da costruzioni concettuali che spazio rimane per la pura intuizione?
Rispondo: Mettersi a discutere di farfalle può essere un inutile (per quanto interssante) perdita di tempo. Invece credo che l' esistenza del noumeno spieghi molte e importanti cose dell' esperienza sensibile, come l' intersoggettività della sua componente materiale (indispensabile al superamento del solipsismo e necessariamente postulata dalla conoscenza scientifica). Sostenere che, in definitiva, l'unica cosa di cui possiamo esser certi sono le sensazioni non mi sembra un assolutizzare il fenomeno "sensazione" ma semplicemente constatare la realtà dei fatti; e porta all' indimostrabilità della superabilità del solipsismo (di cui si deve essere consapevoli se si vuole guardare in faccia la realtà e non coltivare illusioni non razionalmente fondate); solipsismo che può comunque essere superato "per fede", essendo ben consapevoli di questo carattere non razionalmemte dimostrabile e certo del superamento stesso. L' "intuizione" non riesco proprio a capire in che cosa possa consistere (se non in questa "fuoriuscita consepevolmente irrazionalistica dal solipsismo", espressa con altre parole). Per me "intuizione" ha sempre significato "credenza acritica, infondata nella prima ipotesi che ci viene casualmente in mente", che nulla garantisce essere veritiera. E mi sembra che sia un concetto ben applicabile all' "intuizione" che ""vede" la catena formata da contatto-sensazione-volizione-coscienza, elementi tutti interdipendenti fra loro e quindi vuoti di un sè" (effettivamente un parto della mente non concettualizzante, chiamiamola istintiva, intuitiva, arbitraiamente, infondatamente, acriticamente fantasticheggiante). Non vedo comunque come si possa spiegare il reale altrimenti che con "costruzioni concettuali", cioé sottoponendo ad analisi critica razionale ciò di cui abbiamo coscienza. Ciò che nel reale sfuggisse alla concettualizzazione e critica razionale non potrebbe essere conosciuto fondatamente (non potrebbe nemmeno essere pensato razionalmente, ma casomai soltanto "immaginato arbitrariamente, fantasiosamente", senza fondamenti su cui poggiare il giudizo che sia reale nei fatti -oltre che fantasticamente immaginato, nel pensiero- o meno).

Bisogna considerare la traduzione del termine "prajna", che ha un significato più vasto del termine intuizione .Non vedo però la comunanza della "saggezza intuitiva" o "visione intuitiva" ( non saprei come meglio tradurre) con le fantasticherie, le immaginazioni, ecc. che mi sembrano più inerenti il campo della volontà e del desiderio. La visione intuitiva è , se così posso esprimerla, quella potenzialità della mente a cogliere non l'essere ma l'esser-ci delle cose. La trovo pure una cosa molto ordinaria  consueta. Se incontro una tigre...fuggo. Fuggire è l'atto appropriato da fare ed è prajna. Sono presenti sia l'istinto che la ragione e lavorano all'unisono e di fatto, in quel preciso istante dell'incontro con la tigre, sono una cosa sola e realizzano l'esser-ci. Sto dipingendo una parete e il colore sta gocciolando, istintivamente e con ragione distendo le gocce passando il pennello, sono mentalmente presente, non fantastico, sono prajna. Questa consapevolezza è meditazione. Meditazione non è stare con le gambe incrociate. Se bevo un bicchiere di buon vino e, semplicemente, gusto il vino questo è prajna. Nessuna  fantasticheria, nessun giudizio arbitrario, nessuna immaginazione, nessuna costruzione concettuale, semplicemente esser-ci. Sembra semplice ma, di fatto, non lo è. E' molto più semplice fantasticare o immaginare. Quando prajna viene rivolta verso il proprio interno osserva il sorgere e svanire di tutti gli stati mentali. Non formula giudizi (da dove vengono, dove vanno, sono sostanziali o insostanziali, ecc.). Potrebbe dirsi l'Osservatore dell'Io sono, oppure l'osservatore dell'Io-non sono (non sono gli stati mentali, le sensazioni, ecc.) ma intesa così crea una dualità . In realtà questa visione intuitiva intuisce "non come il mondo è, ma che esso è" (Wittgenstein).
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 07 Maggio 2016, 00:54:26 AM

1 La visione intuitiva è , se così posso esprimerla, quella potenzialità della mente a cogliere non l'essere ma l'esser-ci delle cose.
La trovo pure una cosa molto ordinaria  consueta. Se incontro una tigre...fuggo. Fuggire è l'atto appropriato da fare ed è prajna. Sono presenti sia l'istinto che la ragione e lavorano all'unisono e di fatto, in quel preciso istante dell'incontro con la tigre, sono una cosa sola e realizzano l'esser-ci.

2 Quando prajna viene rivolta verso il proprio interno osserva il sorgere e svanire di tutti gli stati mentali. Non formula giudizi (da dove vengono, dove vanno, sono sostanziali o insostanziali, ecc.). Potrebbe dirsi l'Osservatore dell'Io sono, oppure l'osservatore dell'Io-non sono (non sono gli stati mentali, le sensazioni, ecc.) ma intesa così crea una dualità . In realtà questa visione intuitiva intuisce "non come il mondo è, ma che esso è" (Wittgenstein).

Rispondo:

1 Ma allora se ho capito per "intuizione" si intende una semplice immediata percezione (o insieme di percezioni) cosciente.
La fuga dalla tigre é una reazione immediata a un gravissimo pericolo che vi consegue (per fortuna, se tutto va bene rapidissimamente).
La conoscenza teorica delle esperienze coscienti e della loro natura (fenomenica o in sé, di oggetto immediato in sé o meno dei suoi "contenuti", la loro attribuibilità o meno a un soggetto in sè, ecc.) mi sembra invece tutt' altra cosa: non richiede reazioni pratiche immediate e velocissime, ma invece ragionamenti pacati, calmi, ponderati, criticamente analizzati e "sviscerati" con la dovuta tranquillità e lentezza, senza fretta, e non la rapidissima adesione acritica al primo impulso (teorico in questo caso) immediato.

2 A quanto mi par di capire questa ("Prajna") mi sembra una semplice sospensione del giudizio circa la realtà (la "natura ontologica") delle esperienze fenomeniche coscienti (un viverle in quanto) immediatamente esperite; e non l' affermazione (e men che meno la dimostrazione; peraltro secondo me impossibilile) dell' esistenza di un soggetto e di oggeti "in sé" da esse distinti; e reali anche allorché esse non accadono.





Loris Bagnara

Citazioni da Sgiombo e repliche:
CitazioneNo, scusa, ma l' affermazione che la filosofia di David Hume sia insensata e costituita da sofismi andrebbe dimostrata.
E' precisamente quel che ho fatto nel seguito del post.

CitazioneHume non è affatto all'origine di "quella corrente di pensiero che ha portato agli spettacolari successi della scienza moderna".
Non l'ho detto io, lo dice Wikipedia: "Quel che è certo è che ebbe una decisiva influenza sullo sviluppo della scienza e della filosofia moderna."
Per me in realtà è irrilevante, che lo sia o non lo sia.

Citazione[...] perché David Hume non "meditava" ovvero pensava, ragionava, e anche molto finemente [...]
Pensare e ragionare NON sono meditare: meditare significa NON percepire, NON pensare, NON ragionare. E' solo così che si può INTUIRE l'Osservatore che sta "dietro". Più pensi e ragioni, meno sei in grado di cogliere l'Osservatore.

Citazione"la presenza dell'Osservatore dietro il flusso delle sensazioni, Osservatore che permane anche quando nella mente si riesce a fare il vuoto, anche solo per brevi momenti" non è affatto logicamente necessaria, né dimostrabile (e men che meno mostrabile) in alcun modo;
L'Osservatore, prima ancora che dimostrarlo, lo si intuisce, lo si sente con assoluta evidenza (vedi sopra). Dovrei forse dimostrarti che il rosso è rosso? No, perché tu puoi vederlo con la stessa evidenza con cui lo vedo io. Si tratta innanzitutto di esperienza interiore, non di dimostrazione logica.

Tuttavia, per quanto sia vero ciò che ho appena detto, anche qualche ragionamento logico può portare i suoi frutti.
Consideriamo questa affermazione:
CitazioneUna sensazione non richiede affatto necessariamente un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto per definizione: necessariamente è unicamente un apparenza sensibile, un evento di coscienza. Punto e basta.
Come si fa a non vedere che sono proprio le parole stesse che non stanno logicamente in piedi?
Da una parte si vuol dire che la coscienza è solo "un amalgama di sensazioni". Bene, dico io, e chiedo allora: cosa sono le "sensazioni"? E mi si risponde che le sensazioni non richiedono un soggetto e un oggetto, ma che sono semplicemente "eventi di coscienza"...
Un momento: siamo partiti col definire la coscienza attraverso le sensazioni, e poi definiamo le sensazioni attraverso la coscienza...
Ma com'è possibile non rendersi conto della circolarità del ragionamento?
Non è solo una questione linguistica o grammaticale, questa semmai è solo il segno di una carenza del ragionamento. Che non è nemmeno un ragionamento, ma solo un sofisma per depistare la mente, un circolo vizioso di parole che non costruiscono alcun senso.
Ma davvero non ci si rende conto di quanto queste parole si rincorrono l'una l'altra senza produrre senso?

CitazionePretendere che Una sensazione richieda necessariamente un senziente: un soggetto, oltre che un oggetto per definizione sarebbe come pretendere che l' esistenza della realtà richieda necessariamente per definizione un creatore o che l' esistenza dell' evoluzione biologica (o magari solo della diversità biologica esistente) richieda necessariamente un "disegno intelligente".
Questa obiezione mi sembra semplicemente fuori luogo: non capisco cosa c'entri il "creatore" col soggetto della sensazione. Il soggetto della sensazione non crea nulla, è l'osservatore che assiste al fenomeno percettivo o al flusso interiore. L'osservatore non crea nulla, esattamente come lo spettatore al cinema non crea il film: lo vede.

Cos'è una sensazione? Se pretendiamo di fare a meno del soggetto, la sensazione resta solo un fenomeno fisico, elettrico, chimico. Esattamente come un'infinità di altri fenomeni fisici, elettrici e chimici dell'universo.
Quindi volete dire che i fenomeni fisici, elettrici e fisici si sentono da soli?
Perché allora ogni essere umano non sente tutti i fenomeni dell'universo?
Perché io invece avverto un limite a ciò che posso sentire?
Cos'è che costruisce quell'"amalgama", quel "fascio" che rappresenta il mio limite percettivo rispetto a quello di un altro?
Risposta:
CitazioneRisposta: Se no semplicemente accadono [...]
Grande risposta, che fa il pari con la "geniale" risposta di Hume:
CitazioneE se si appura, come David Hume genialmente appurò, che non esiste una risposta dimostrabile né tantomeno mostrabile alla domanda su "quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno" questa è proprio la giusta, la vera risposta.
Anche ammesso che non esista una risposta dimostrabile alla domanda, resta l'evidenza del fatto: ognuno di noi sente (intuisce) con certezza la propria costanza come io-sono aldilà della mutevolezza del corpo, delle sensazioni e dei pensieri.
Questo dato empirico resta, ben chiaro in ciascuno di noi: che poi la risposta non si riesca a dimostrare, o a trovare, non fa sparire l'evidenza del fatto.
Sarebbe bello poter far sparire le questioni di cui non si conosce la risposta. A quanto pare Hume ce l'ha fatta. Davvero geniale!

Sariputra

Citazione di: sgiombo il 07 Maggio 2016, 10:41:13 AM
Citazione di: Sariputra il 07 Maggio 2016, 00:54:26 AM1 La visione intuitiva è , se così posso esprimerla, quella potenzialità della mente a cogliere non l'essere ma l'esser-ci delle cose. La trovo pure una cosa molto ordinaria consueta. Se incontro una tigre...fuggo. Fuggire è l'atto appropriato da fare ed è prajna. Sono presenti sia l'istinto che la ragione e lavorano all'unisono e di fatto, in quel preciso istante dell'incontro con la tigre, sono una cosa sola e realizzano l'esser-ci. 2 Quando prajna viene rivolta verso il proprio interno osserva il sorgere e svanire di tutti gli stati mentali. Non formula giudizi (da dove vengono, dove vanno, sono sostanziali o insostanziali, ecc.). Potrebbe dirsi l'Osservatore dell'Io sono, oppure l'osservatore dell'Io-non sono (non sono gli stati mentali, le sensazioni, ecc.) ma intesa così crea una dualità . In realtà questa visione intuitiva intuisce "non come il mondo è, ma che esso è" (Wittgenstein). Rispondo: 1 Ma allora se ho capito per "intuizione" si intende una semplice immediata percezione (o insieme di percezioni) cosciente. La fuga dalla tigre é una reazione immediata a un gravissimo pericolo che vi consegue (per fortuna, se tutto va bene rapidissimamente). La conoscenza teorica delle esperienze coscienti e della loro natura (fenomenica o in sé, di oggetto immediato in sé o meno dei suoi "contenuti", la loro attribuibilità o meno a un soggetto in sè, ecc.) mi sembra invece tutt' altra cosa: non richiede reazioni pratiche immediate e velocissime, ma invece ragionamenti pacati, calmi, ponderati, criticamente analizzati e "sviscerati" con la dovuta tranquillità e lentezza, senza fretta, e non la rapidissima adesione acritica al primo impulso (teorico in questo caso) immediato. 2 A quanto mi par di capire questa ("Prajna") mi sembra una semplice sospensione del giudizio circa la realtà (la "natura ontologica") delle esperienze fenomeniche coscienti (un viverle in quanto) immediatamente esperite; e non l' affermazione (e men che meno la dimostrazione; peraltro secondo me impossibilile) dell' esistenza di un soggetto e di oggeti "in sé" da esse distinti; e reali anche allorché esse non accadono.

Sì...è esatto. Nessuna conoscenza teorica ( e come potrebbe?) e nessun giudizio circa la realtà, ma esperienza con tutto l'esser-ci della realtà. E' una capacità che abbiamo, ma che non viene insegnata nè coltivata ( non veniamo educati praticamente a nulla a parte il ragionamento logico-discorsivo e l'adeguamento interiore al principio di autorità...). Per semplificare con un esempio: possiamo decidere , con la ragione, di credere o no all'esistenza reale del soggetto o dell'oggetto ma questa posizione non tocca l'opera di prajna che non si pone su questo livello ma su quello esperienziale. E di cosa può fare esperienza prajna? Dell'impermanenza, del carattere insoddisfacente e della vacuità di ogni fenomeno, sia "interiore" che "esteriore". Questa esperienza però non la porta a formulare teorie sul perchè del divenire  e del carattere insoddisfacente del reale essendo un'attività propria della ragione.
Che poi la ragione sia in grado di trovare risposte soddisfacenti...beh...è un altro discorso ::)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Loris Bagnara

#57
Citazioni da memento:
CitazioneL'errore che spesso il senso comune ci spinge a fare,e contro cui la filosofia scettica di Hume si è sempre scagliata,è quello di porre l'io ad occupare il ruolo di soggetto senziente. Ma l'equivalenza tra Io e soggetto senziente non è affatto da dare per ovvia.
Chi sente le sensazioni? In primis,gli organi ricettivi,i 5 sensi. Secondariamente il cervello che elabora le informazioni ricevute dalle proprie diramazioni nervose. Se volessimo sintetizzare in un solo concetto,il nostro corpo.
Forse con una metafora riesco a farmi capire.

Immaginiamo un'installazione, ad esempio una base militare, sorvegliata in tutto il suo perimetro e anche all'interno da videocamere, sensori etc di ogni tipo. Un sistema di cablaggi e wi-fi trasmette i dati grezzi dai "captatori" fino ad una stazione di controllo, dove dei computer elaborano i diversi segnali convertendoli in formati leggibili e interpretabili, inviandoli poi a dei monitor, a dispositivi di riproduzione audio, indicatori etc. Nella stazione di controllo, una quantità enorme di questi dati primari, ad ogni istante, entra per essere singolarmente elaborata, esaminando ogni dato in sé ed integrandolo con gli altri, il tutto al fine di ricavarne istruzioni operative: tutto a posto? C'è una minaccia? Bisogna inviare una squadra in qualche posto per un qualche problema? etc.
E' evidente allora che occorre una seconda elaborazione di tutti i dati primari, che vanno letti e interpretati nel loro insieme. Ad esempio potrebbero esserci degli esseri umani che li interpretano e prendono decisioni; oppure potrebbe anche esserci solo un computer fornito di algoritmi decisionali.
In ogni caso, è evidente che i soli dati primari provenienti dai diversi captatori non sono sufficienti: occorre una funzione che li integri tutti e li interpreti nel loro insieme.

Credo che la metafora sia chiara: la base militare è il corpo umano, i captatori sono i canali percettivi e la stazione di controllo è il cervello.
Quel che arriva al cervello non sono sensazioni, perché ancora non dicono nulla: sono solo segnali elettrochimici che giunti al cervello hanno bisogno di una funzione che li integri in una percezione sintetica. Questa sintesi avviene nella coscienza, e la coscienza non può essere il risultato di ciò che arriva dall'esterno, ma dev'essere qualcosa che è dato, che esiste anche in assenza di segnale.

Tu, memento, hai detto la stessa cosa:
CitazioneQuindi,per rispondere alla tua seconda domanda, è la coscienza a realizzare,attraverso la sua azione di controllo, l'amalgama fra le sensazioni,ossia ad "incaricarsi" di costruire un senso coerente e unico,un Io.
Appunto, è la coscienza a realizzare la sintesi dei diversi segnali e a creare quelle che appaiono come sensazioni: senza coscienza non ci sono sensazioni, ma solo segnali (esattamente come sono un segnale, non sensazione, i dati che passano in un cavo telefonico).
E la coscienza non è altro che quell'io-sono, quell'osservatore che rappresenta il soggetto senziente di tutte le sensazioni.

CitazioneNon è necessario pensare che vi sia un autore che,da dietro le quinte,manovri il meccanismo. Accade tutto in maniera perfettamente naturale e spontanea (e sai che fatica se non lo fosse!). Pensare che ad ogni azione corrisponda un soggetto,cosi come che ad ogni effetto corrisponda una causa (un altro punto cardine della filosofia humiana),è un preconcetto illogico,e che pure fonda la logica stessa. Io ad esempio ho appena parlato di sensi e coscienza come fossero soggetti che agiscono, quando in realtà sono solo concetti di cui mi sono servito per necessità di spiegazione.
Qui non capisco bene cosa intendi per "autore" e per "dietro le quinte", e neanche capisco bene cosa voglia dire "pensare che ad ogni azione corrisponda un soggetto". Io dico semplicemente che una coscienza, un soggetto, un io-sono è l'osservatore di ogni sensazione. Quanto alle azioni, possono essere in parte consapevoli (e quindi partono dal soggetto) oppure inconsapevoli (istintive, inconsce etc).

Sensazioni, sensi e coscienza non sono concetti, sono esperienze empiriche. Al contrario, sono i concetti ad avere bisogno di una mente che li formuli. Se ammettessimo che la coscienza è un concetto, dovremmo dire più correttamente e paradossalmente che "la coscienza è un concetto, ossia un concetto formulato da un concetto". Il che non ha palesemente senso.

Infine, osservo per inciso che il rifiuto del principio di causalità spazza via alla radice ogni tentativo di fare scienza, e in generale qualunque tentativo di dare un senso alle cose. Se non si postula la validità del principio di causalità (sia sul piano fisico, che su quello metafisico), tanto vale concludere che le cose sono come sono, non si sa come né perché e punto e basta.

and1972rea

D'accordo con Loris, ne consegue che ,se il tutto emerge non mediatamente dalla relazione fra ogni parte con ogni altra sua parte, anche la nostra coscienza non può limitarsi e ridursi ad un ristretto numero di relazioni fra un altrettanto piccolo numero di particelle materiali. Vuol dire che la nostra coscienza é messa in relazione con il Tutto e non solamente con una piccola parte di esso costituita dal nostro cervello, vuol dire che il nostro sentire non finisce con un pizzicotto sul braccio, ma in linea di principio si potrebbe estendere a tutto l'essere universale. La struttura della nostra coscienza potrebbe emergere da una materialità molto più estesa e più profonda rispetto a quella che vediamo nascere ed incenerirsi in un pugnetto di molecole.

sgiombo

#59
CitazioneDavintro ha scritto:
Uno stesso complesso sensitivo può essere sentito da più o meno soggetti senzienti. Possiamo ipotizzare un infinito numero di soggetti senzienti ed infiniti gradi di intensità delle sensazioni. Ora, come è possibile isolare un momento di questo ipotetico continuum per porlo come criterio discriminante in base al quale stabilire quando uno stato di cose diverrebbe reale? Qual'è la quantità di conformità intersoggettiva oltre il quale le sensazioni corrispondono a un oggetto reale? La maggioranza assoluta delle coscienze attualmenti presenti nel mondo? Se di uno stesso evento abbiamo 4 miliardi di soggetti che hanno dello stesso oggetto un'immagine sensitiva e 3 miliardi che ne hanno una contrastante possiamo ritenere sufficiente il livello di conformità intersoggettiva per accettare che la realtà sia ciò che sostengono i 4?  Oppure la selezione del criterio è totalmente arbitraria... e in questo caso come può fondare la conoscenza e la verità scientifica? Come può un criterio quantitativo (la conformità intersoggettiva delle sensazioni) determinare qualcosa di qualitativo come il carattere di esistenza di uno stato di cose?

Rispondo:
A parte l' indimostrabilità né tantomeno mostrabilità dei soggetti delle sensazioni, dire che Uno stesso complesso sensitivo può essere sentito da più o meno soggetti senzienti (cioè appartenere a due o più diverse esperienze coscienti) non ha senso a causa delle reciproca trascendenza fra le diverse esperienze coscienti stesse: se (come credo ma non è dimostrabile) ne esistono altre oltre alla propria immediatamente esperita, allora non è però possibile "sbirciare" nelle altre in modo da verificare se i loro contenuti, anche materiali, sono uguali a quelli della propria o meno: quel che si può ammettere (credere ma non dimostrare) é che quelli materiali fra di essi siano reciprocamente corrispondenti in maniera biunivoca, ovvero intersoggettivi).

Ciò posto (non: dimostrato; né tantomeno: mostrato), le diverse sensazioni (postulabili essere corrispondenti, intersoggettive nel caso di quelle materiali) costituenti le diverse reciprocamente trascendenti esperienze fenomeniche coscienti sono ben reali, per quanto unicamente in quanto fenomeniche.
I loro comuni "oggetti" (gli stessi per tutte), se reali, non potrebbero che essere "cose in sé" tali che allorché diversi soggetti (altre cose in sé) sono in rapporti con esse simili, allora nell' ambito delle rispettive esperienze fenomeniche coscienti appaiano sensazioni materiali "similmente corrispondenti" (e non: simili o uguali, che non avrebbe senso per la "non sbirciabilità nelle coscienze altrui").

Sulle differenze nelle sensazioni materiali (in realtà "discorrispondenze") dovuti a illusioni ottiche (o di altre modalità percettive) o altre "distorsioni" più o meno patologiche o strumentali in linea di principio (e solitamente anche di fatto) è sempre possibile darne una spiegazione scientifica –tutt' altro che arbitraria- e arrivare ad un accordo generale su quelle che sono le corrispondenze intersoggettive (fra "cose fenomeniche") ottenibili eliminando le patologie o le distorsioni strumentali e interpretando correttamente le illusioni sensitive.



Davintro ha scritto:
le credenze scientifiche nascono dall'osservazione sensibile e quindi una volta identificata la realtà con le sensazioni soggettive

Rispondo:
Perché possa darsi conoscenza scientifica si deve postulare necessariamente l' (indimostrabile) intersoggettività delle sensazioni materiali nell' ambito delle diverse esperienze fenomeniche coscienti, cioè la loro corrispondenza biunivoca (o forse è meglio dire: "poliunivoca").



Davintro ha scritto:
Del resto, starebbe proprio nella distinzione tra il piano dell'immagine percettiva e quello dei giudizi l'ammissione implicita di una realtà oggettiva, a cui i nostri giudizi sono riferiti distinta dalle sensazioni soggettive. Altrimenti, in cosa consisterebbe la differenza di senso del nostro rapporto con la realtà che si ha quando la si giudica rispetto a quando ci si limiterebbe a percepirla?

Rispondo:
Possiamo giudicare unicamente di "cose " costituite da sensazioni fenomeniche (eventi che accadono separatamente in ciascuna coscienza); nel caso di quelle materiali è possibile postularne la corrispondenza o intersoggettività.
E i nostri giudizi possono coglierne (se veritieri) solo l' intersoggettività, non l' oggettività, cioè il loro essere reciprocamente corrispondenti, e non la stessa cosa od "oggetto"; questa, se c' è, è realtà in sé non fenomenica, non percepita ma congetturabile (come ottima spiegazione fra l' altro di tale intersoggettività): nelle nostre due distinte esperienze coscienti (mia e tua) accadono le visioni sufficientemente corrispondenti di quello che comunemente (ma impropriamente) chiamiamo "lo stesso oggetto (materiale)" allorché noi due (entità in sé "soggetti", ciascuno di un' esperienza cosciente) siamo in rapporti sufficientemente simili con la stessa entità in sé "oggetto" di ciascuna delle nostre esperienze fenomeniche coscienti.



Davintro ha scritto:

Personalmente non ce la faccio a concepire realtà senza causalità... e allora se le sensazioni costituissero la realtà dovrebbero essere causa di loro stesse. Se le sensazioni e i pensieri che nascono da esse avessero un potere causale, non porterebbe tutto ciò a una sorta di concezione magica nella quale il pensiero e la sensibilità creerebbero i loro oggetti  invece che limitarsi a rappresentarli?

Rispondo:
Bisogna distinguere le "cose" percepite sensibilmente in quanto contenuti fenomenici delle nostre esperienze coscienti, che non sono create da- (-le sensazioni mentali de-) –i pensieri di esse dagli (indimostrabili) enti ed eventi "in sé" (noumenici) che in un certo senso si potrebbero considerare "causare" tali "cose fenomeniche"; nel senso che si può ipotizzare, spiegando egregiamente tante cose, che ogni volta che un determinato soggetto in sé (noumeno) è in determinati rapporti con determinati oggetti in sé (noumeno), allora nella esperienza fenomenica "propria di tale soggetto" accadono proprio certe determinate sensazioni di "cose fenomeniche" (reciprocamente corrispondenti fra le diverse esperienze fenomeniche dei diversi soggetti –noumeno- proprio in quanto ciascuna corrispondente alla stessa cosa in sé oggettiva –noumeno-) e non altre.



Davintro ha scritto:
va distinta nettamente l'idea che "conosciamo solo fenomeni" da quella "conosciamo solo ATTRAVERSO i fenomeni". La prima opzione porterebbe allo scetticismo assoluto e dunque alla fine di ogni razionalità possibile, scientifica e filosofica, la seconda, su cui sono pienamente d'accordo, porrebbe i fenomeni, a partire dalle sensazioni, come un'inaggirabile via che però porterebbe necessariamente a riconoscere l'esigenza di un'oggettività, di una cosa in sè che determina la manifestazione dei fenomeni stessi e dunque la possibilità di una coscienza.

Rispondo:
Sentiamo, percepiamo solo fenomeni.
Attraverso i fenomeni possiamo solo congetturare, arguire, ipotizzare l' esistenza di enti ed eventi in sé.
Solo di questi si può ipotizzare l' oggettività.
Ma assumendo l' intersoggettività (cioè la reciproca corrispondenza) delle "cose fenomeniche materiali" si può superare lo scetticismo e ammettere la conoscenza scientifica (e l' ipotesi del noumeno né è un' ottima spiegazione).



Davintro ha scritto:

Invece secondo me l' "esse est percipi" non potrebbe in alcun modo prescindere dalla visione metafisica, che per quel che ricordo, Berkeley sosteneva, per cui anche se tutti gli uomini smettessere di ossrvare l'albero questo continuerebbe a esistere dato che ci sarebbe ancora Dio che lo osserva. Perchè, se rigettiamo l'idea di un Dio osservatore eterno, o dovremmo concepire l'idea di un' "Umanità primordiale" da sempre soggetto delle percezioni sensibili, oppure dovremmo accettare che se l'uomo,insieme agli animali preistorici, dinosauri ecc., e in generale la vita di esseri senzienti ha cominciato a esistere successivamente rispetto ad uno sviluppo meramente fisico dell'Universo, allora in questo in caso dovremmo ammettere l'esistenza per un larghissimo lasso di tempo di una realtà che nessuna coscienza senziente osservava... Dall'impasse si esce solo pensando che tale realtà, seppur non ancora attualmente sentita era già costituita in modo da essere POTENZIALMENTE sentita e manifestabile ad una coscienza che sarebbe poi in futuro venuta ad esistere. La soluzione mi sembra convincente, ma certo il principio dell' "esse est percipi" uscirebbe di molto depotenziato, le sensazioni verrebbero degradate a puro principio gnoseoloegico del reale, ma non più fondamento esistenziale del reale. Per questo penso che il solispismo, nel senso forte ed estremo del termine, non possa che porsi come "iperspiritualismo"


Rispondo:
In alternativa alla soluzione "teistica" Berkeleyana si può secondo me più razionalisticamente postulate l' esistenza di una realtà in sé trascendente le esperienze fenomeniche coscienti in divenire e tale che di tanto in tanto in essa (nel suo "divenire") vengono a costituirsi certe determinate, peculiarissime "entità soggetti di coscienza", corrispondentemente alle quali accadono esperienze fenomeniche coscienti reciprocamente e dalla realtà in sé trascendenti e biunivocamente (o poliunivocamente) corrispondenti: nel noumeno starebbe la continuità reale necessaria a "colmare gli abissi spaziotemporali" senza "cervelli e affini" (nell' ambito delle componenti materiali delle esperienze coscienti) cui siano appunto correlate, coesistenti (seppur trascendentemente) esperienze fenomeniche coscienti.

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