Come dimostrare logicamente l'esistenza della coscienza?

Aperto da HollyFabius, 26 Aprile 2016, 20:12:25 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

maral

 "Come dimostrare logicamente l'esistenza della coscienza?" magari proprio con questa domanda (ossia dopotutto si potrebbe rispondere che se esiste questa domanda, essa è la prova logica che la coscienza esiste).
Scusate se mi intrometto tardi in questa discussione molto interessante per tornare alla domanda iniziale che, per demolire la tesi forte dell'IA (quella che considera la coscienza uh fenomeno emergente dalla complessità), chiede di dimostrare che il tutto non è maggiore della somma delle parti. Io direi piuttosto che il tutto è certamente diverso dalla somma delle parti, che sia maggiore o minore dipende dai punti di vista. Infatti , se le parti si trovano tra loro in una qualsiasi forma di relazione (se non lo sono non credo abbia il minimo senso parlare di tutto e di parti), alla somma delle parti intese come elementi, va aggiunta la somma delle loro relazioni che determina quella totalità intera che sarà a sua volta in relazione reciproca con le singole parti e questa relazione del tutto con le sue parti è proprio ciò che esorbita continuamente all'infinito dalla somma delle parti. D'altra parte però se ogni parte è solo una parte dell'intero e quindi è ad esso minore (e pure la somma delle parti è parte dell'intero), è anche vero che proprio poiché l'intero non è parte ad esso manca questa proprietà che ogni parte possiede in modo specifico e diverso per cui, in questo senso, l'intero è minore della somma delle sue parti per ogni parte che gli è propria.
La coscienza comunque non la vedo proprio come una sorta di misterioso flusso insufflato nel tutto dal di fuori per fare della somma un intero (e come potrebbe? fuori dal tutto ci sta solo il niente, non certo un insufflatore o programmatore di coscienze), ma è proprio quel gioco di relazioni tra le parti e il loro intero e tra l'intero e le sue parti, un gioco mai perfettamente definibile se non come un continuo reciproco rimando come in un gioco di specchi che si riflettono l'un l'altro costantemente all'infinito, finché uno specchio non si rompe. Sì, penso che pensare la coscienza è entrare in una vertigine infinita che non ha in origine nulla di trascendente, ma genera proprio dal suo abisso infinito ogni trascendenza.
Infine la domanda che sempre più appassiona (sia i cultori dell'IA, sia coloro che negano che dall'IA possa mai venire tratta una coscienza): è possibile costruire macchine coscienti? Personalmente penso che nulla fondamentalmente lo vieti, il problema è semmai come accorgersene, fermo restando che la coscienza non è un problema di intelligenza. La macchina che batte il maestro umano di Go o di scacchi non è per questo più cosciente di un qualsiasi distributore automatico di bevande. Magari se si mostrasse inaspettatamente euforica per la sua vittoria (quanto il maestro umano appariva abbattuto) forse dimostrerebbe una coscienza, ma non lo ha fatto e se  fosse stata programmata per farlo non avrebbe dimostrato nulla. Ma questo non significa che un giorno, senza che sia stato progettato, un sistema algoritmico che opera in modo continuamente reiterativo su se stesso non arrivi a tanto che poi a chi è cosciente sembra così elementare e banale (ma elementare e banale non lo è per nulla): riconoscere se stesso nell'immagine di se stesso, cosicché quel "me stesso" abbia proprio il senso di me stesso. Ma allora, come è stato detto, non avremmo più una macchina, ma un essere umano vivente e qualcuno (magari la stessa ex macchina) si chiederà se ne è valsa la pena.

Loris Bagnara

Citazione di: maral il 13 Maggio 2016, 22:29:58 PM[...]
La coscienza comunque non la vedo proprio come una sorta di misterioso flusso insufflato nel tutto dal di fuori per fare della somma un intero (e come potrebbe? fuori dal tutto ci sta solo il niente, non certo un insufflatore o programmatore di coscienze), ma è proprio quel gioco di relazioni tra le parti e il loro intero e tra l'intero e le sue parti, un gioco mai perfettamente definibile se non come un continuo reciproco rimando come in un gioco di specchi che si riflettono l'un l'altro costantemente all'infinito, finché uno specchio non si rompe. Sì, penso che pensare la coscienza è entrare in una vertigine infinita che non ha in origine nulla di trascendente, ma genera proprio dal suo abisso infinito ogni trascendenza.
[...]
Infatti la coscienza non ha nulla di misterioso... si fa per dire, nel senso che non viene dall'esterno. Giustamente, nulla può essere esterno al tutto.
Quindi la coscienza c'è già, è già all'interno della manifestazione, è corrisponde proprio "all'intero" (al tutto) che organizza la materia (le parti) per potersi manifestare come vita cosciente e intelligente, a vari livelli di complessità, fino all'uomo.

La stessa fisica c'insegna che nulla sorge dal nulla e sparisce nel nulla, e quindi perché mai la coscienza dovrebbe sorgere dal nulla e sparire nel nulla?

Le "relazioni fra le parti e l'intero" non possono spiegare l'emergere della coscienza, per il semplice motivo che le relazioni non hanno una realtà fisica, sono solo concetti che l'intelligenza autocosciente umana formula come atti conoscitivi della realtà in cui è immersa.
Ma se le relazioni sono concetti formulati dalla coscienza, affermare che la coscienza emerge come risultato delle "relazioni fra le parti e l'intero" equivale a dire che la coscienza emerge da concetti che sono formulati dalla coscienza: una tautologia.

Come ho già scritto, esiste realmente solo il tutto, e le parti sono solo visioni parziali, concettualizzazioni create da individui pensanti.
L'universo è un tutto, come suggerisce la fisica quantistica: dall'evento che chiamiamo Big Bang, tutte le particelle dell'universo si trovano in uno stato entangled, cioè in una condizione di interdipendenza inestricabile e non-locale (peraltro come intuito dal Budda 2500 anni fa).
E si può allora pensare che l'universo stesso costituisca la base materiale di un'intelligenza cosmica: anche questo, concetto intuito già migliaia di anni fa e che ritroviamo, a esempio, nel Corpus Hermeticum.

maral

Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 11:18:55 AM
"relazioni fra le parti e l'intero" non possono spiegare l'emergere della coscienza, per il semplice motivo che le relazioni non hanno una realtà fisica, sono solo concetti che l'intelligenza autocosciente umana formula come atti conoscitivi della realtà in cui è immersa.
Ma se le relazioni sono concetti formulati dalla coscienza, affermare che la coscienza emerge come risultato delle "relazioni fra le parti e l'intero" equivale a dire che la coscienza emerge da concetti che sono formulati dalla coscienza: una tautologia.
Come no, le relazioni hanno una realtà fisica eccome: la legge di gravitazione è appunto una relazione e il camp gravitazionale è un campo relazionale interpretato erroneamente come una cosa. Si può benissimo partire dalla relazione come ente primario privo di reificazioni e pensare le cose come concettualizzazioni create dalla relazione. La coscienza ad esempio è assai più facilmente comprensibile non come una cosa, ma come una relazione tra cose. Come ho già avuto modo di dire comunque preferisco pensare che la relazione e le cose siano del tutto contemporanee e coesistenti come la materia e l'energia e che sia solo un punto di vista cognitivo di comodo che le separa immaginando cose originarie prive di relazioni o relazioni primarie prive di cose. Se la cosa è, è già in relazione, quindi può apparire. 
CitazioneCome ho già scritto, esiste realmente solo il tutto, e le parti sono solo visioni parziali, concettualizzazioni create da individui pensanti.
Ma si può pensarla del tutto logicamente anche in modo opposto, ossia che sia proprio la totalità che non esiste e non esiste in quanto non ha un limite che possa darne ragione, continuamente si accresce oltre ogni de-finizione. Dunque il tutto non esiste, ma esistono solo le parti che non potranno mai esprimere, messe insieme, alcuna totalità. O forse, si potrebbe anche dire (concettualizzando) che il tutto non è una cosa che è, ma un continuo divenire, un puro dinamismo.


Loris Bagnara

Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 12:28:08 PM
Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 11:18:55 AM
"relazioni fra le parti e l'intero" non possono spiegare l'emergere della coscienza, per il semplice motivo che le relazioni non hanno una realtà fisica, sono solo concetti che l'intelligenza autocosciente umana formula come atti conoscitivi della realtà in cui è immersa.
Ma se le relazioni sono concetti formulati dalla coscienza, affermare che la coscienza emerge come risultato delle "relazioni fra le parti e l'intero" equivale a dire che la coscienza emerge da concetti che sono formulati dalla coscienza: una tautologia.
Come no, le relazioni hanno una realtà fisica eccome: la legge di gravitazione è appunto una relazione e il camp gravitazionale è un campo relazionale interpretato erroneamente come una cosa. Si può benissimo partire dalla relazione come ente primario privo di reificazioni e pensare le cose come concettualizzazioni create dalla relazione. La coscienza ad esempio è assai più facilmente comprensibile non come una cosa, ma come una relazione tra cose. Come ho già avuto modo di dire comunque preferisco pensare che la relazione e le cose siano del tutto contemporanee e coesistenti come la materia e l'energia e che sia solo un punto di vista cognitivo di comodo che le separa immaginando cose originarie prive di relazioni o relazioni primarie prive di cose. Se la cosa è, è già in relazione, quindi può apparire.  
CitazioneCome ho già scritto, esiste realmente solo il tutto, e le parti sono solo visioni parziali, concettualizzazioni create da individui pensanti.
Ma si può pensarla del tutto logicamente anche in modo opposto, ossia che sia proprio la totalità che non esiste e non esiste in quanto non ha un limite che possa darne ragione, continuamente si accresce oltre ogni de-finizione. Dunque il tutto non esiste, ma esistono solo le parti che non potranno mai esprimere, messe insieme, alcuna totalità. O forse, si potrebbe anche dire (concettualizzando) che il tutto non è una cosa che è, ma un continuo divenire, un puro dinamismo.
Non riesco a immaginare cosa sia una "relazione" senza pensare a "fenomeni" che siano appunto in relazione.
Da solo, "relazione" non significa nulla: implica l'esistenza di fenomeni da mettere in relazione.
Ma questi fenomeni devono avere una "base" comune (una "sostanza" comune) per poter essere messi in relazione: due fenomeni reciprocamente trascendenti, per definizione, non possono relazionarsi in alcun modo.
Ma se due fenomeni non sono reciprocamente trascendenti, allora hanno una sostanza in comune, il che significa che essi sono, ad un livello più profondo, un solo fenomeno che si differenzia in due. La differenza, appunto, è la relazione.
In questo modo, riassorbendo di livello in livello le relazioni (differenze) fra i fenomeni, si arriva ad una realtà unica: il tutto.
E' il concetto stesso di relazione a implicare il tutto.

La legge di gravitazione esprime sì una relazione quantitativa fra le masse, ma è una relazione tutta concettuale (matematica, peraltro necessariamente approssimata), che non ha nulla a che fare con l'essenza della gravitazione. Nessuno sa cosa sia la gravitazione, né cosa siano materia ed energia e tempo. Non sappiamo nulla riguardo all'essenza dei fenomeni che osserviamo; sappiamo solo stabilire "come" e "quanto", ma non "essenza" e "perché" dei fenomeni. Questi sono i limiti invalicabili delle relazioni (puramente esteriori e a posteriori) che la scienza stabilisce fra i fenomeni.

acquario69

#124
è anche vero che proprio poiché l'intero non è parte ad esso manca questa proprietà che ogni parte possiede in modo specifico e diverso per cui, in questo senso, l'intero è minore della somma delle sue parti per ogni parte che gli è propria.

e se gli e' propria tale proprietà specifica e' sempre e solo il tutto a comprenderla a se',a contenerla (anche nella sue relative proprietà specifiche delle parti) ...e' la parte che proviene dal tutto e non il contrario

fuori dal tutto ci sta solo il niente 
anche qui vale la stessa cosa,come può il tutto avere qualcosa fuori di se?,e a mio avviso se ne deduce pure che il niente e' solo un elaborazione mentale.

il tutto essendo tutto non può avere distinzioni,percio parti.
quindi ce solo il tutto e non le parti..la distinzione delle parti e' illusoria

jeangene

#125
Perdonate l'intrusione...
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
Nell'impossibilità della Risposta trovo la serenità.

cvc

Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

maral

Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 13:36:05 PM
Non riesco a immaginare cosa sia una "relazione" senza pensare a "fenomeni" che siano appunto in relazione.
Da solo, "relazione" non significa nulla: implica l'esistenza di fenomeni da mettere in relazione.
Si può tuttavia pensare la relazione come ciò che determina i suoi oggetti, ad esempio l'amore (come relazione) che crea enti amanti. D'altra parte anche la cosa in sé, priva di relazioni, non significa nulla, essendo il significato posto sempre dalle nostre relazioni con essa.
Se parti dalla relazione essa definisce sia la base comune che la differenza dei fenomeni, che non saranno mai del tutto reciprocamente trascendenti e quindi hai ragione nel sostenere, a partire dalla relazione, anziché dalle cose, che proprio questo implica il tutto come tutto relazionale e immanente. In tal caso il tutto non è più una somma di tutte le cose, ma l prodotto di tutte le relazioni che continuamente si produce, dunque non è mai definibile, non è il contenitore di tutte le cose, poiché anch'esso è continuamente in relazione con ogni sua parte.
Ma questi fenomeni devono avere una "base" comune (una "sostanza" comune) per poter essere messi in relazione: due fenomeni reciprocamente trascendenti, per definizione, non possono relazionarsi in alcun modo.
Ma se due fenomeni non sono reciprocamente trascendenti, allora hanno una sostanza in comune, il che significa che essi sono, ad un livello più profondo, un solo fenomeno che si differenzia in due. La differenza, appunto, è la relazione.
In questo modo, riassorbendo di livello in livello le relazioni (differenze) fra i fenomeni, si arriva ad una realtà unica: il tutto.
E' il concetto stesso di relazione a implicare il tutto.

CitazioneLa legge di gravitazione esprime sì una relazione quantitativa fra le masse, ma è una relazione tutta concettuale (matematica, peraltro necessariamente approssimata), che non ha nulla a che fare con l'essenza della gravitazione. Nessuno sa cosa sia la gravitazione, né cosa siano materia ed energia e tempo. Non sappiamo nulla riguardo all'essenza dei fenomeni che osserviamo; sappiamo solo stabilire "come" e "quanto", ma non "essenza" e "perché" dei fenomeni. Questi sono i limiti invalicabili delle relazioni (puramente esteriori e a posteriori) che la scienza stabilisce fra i fenomeni.
Qui tu sostieni che vi è un'essenza della gravitazione che nessuno sa, oltre la legge della gravitazione che esprime una particolare relazione (il fatto che sia concettuale non la nega, è comunque relazione). Ti si potrebbe allora chiedere come fai a saperlo.
Non sappiamo infatti nulla dei fenomeni se non ciò che ci appare dal loro relazionarsi, a qualsiasi livello li consideri, da quello sensitivo e concreto a quello più astratto e concettuale.

Citazione di: acquario69 il 14 Maggio 2016, 13:47:27 PM
è anche vero che proprio poiché l'intero non è parte ad esso manca questa proprietà che ogni parte possiede in modo specifico e diverso per cui, in questo senso, l'intero è minore della somma delle sue parti per ogni parte che gli è propria.

e se gli e' propria tale proprietà specifica e' sempre e solo il tutto a comprenderla a se',a contenerla (anche nella sue relative proprietà specifiche delle parti) ...e' la parte che proviene dal tutto e non il contrario
Dipende sempre dalla prospettiva che assumi. Ciò di cui possiamo fare esperienza cosciente sono solo le parti, ossia la loro specificità. Yu dici che il tutto contiene le specificità di tutte le parti, quindi non gli manca nulla, ma proprio poiché contiene tutte le specificità gli manca una sua specificità, dunque a qualcosa di meno di ogni singola parte che invece ha la sua specificità.
Il niente è sì un'elaborazione mentale (quindi è qualcosa, non è niente, a meno di non sostenere che le elaborazioni mentali siano niente, che mi pare assurdo) ed è quell'elaborazione mentale indispensabile per concepire il tutto. Il tutto e il niente si implicano così strettamente da arrivare a coincidere, pur nella loro assoluta opposizione concettuale che continuamente li esige separati intendendo il primo come assolta affermazione e il secondo come assoluta negazione.

maral

#128
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 16:47:28 PM
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
In questo contesto sentire ed esperire si potrebbero, per quanto mi riguarda considerare sinonimi, salvo diversa specificazione che potrebbe in linea di massima essere ricondotta a un'esternalità dell'esperire rispetto all'interiorità del sentire (ma in tal caso andrebbe chiarito cosa è interno e cosa esterno, cosa tutt'altro che facile e ovvia).
La differenza tra coscienza e autocoscienza mi sembra invece evidente, la coscienza riguarda il fenomeno. l'autocoscienza è invece la coscienza della coscienza del fenomeno, ossia prende la coscienza del fenomeno come fenomeno esso stesso e questo fa emergere l'esistenza di un soggetto. Per semplificare: la coscienza dice che ad esempio c'è la presenza di un albero, l'autocoscienza dice che c'è la presenza della presenza dell'albero e dunque c'è un soggetto che si rende conto di questa presenza e quel soggetto sono io. Si è spesso discusso ad esempio di quanto gli animali possano essere solo coscienti o anche autocoscienti (pare che i cani, i delfini e i corvi raggiungano un certo livello di autocoscienza)  

Citazione di: cvc il 14 Maggio 2016, 17:34:23 PM
Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
Sì, ma anche il linguaggio matematico è un linguaggio e, nonostante il suo rigore astratto, non è detto che per questo riesca a cogliere appropriatamente la coscienza (e men che meno l'autocoscienza). I paradossi russelliani tra l'altro sono propri dell'ambito del linguaggio matematico, non del linguaggio comune (in cui non valgono) e risultano dal punto di vista logico formale. Si può anche dubitare che siano stati logicamente mai davvero risolti (la trattazione di Severino in merito è molto significativa, ma questo è un discorso che deborda dal tema).
Il problema comunque è proprio questo: si può dare una formulazione algoritmica alla coscienza? Una matematica puramente formale è un linguaggio adeguato per dare conto del fenomeno o non finisce per annegare nei paradossi? E anche ammesso che sia possibile, come si può verificare se il tentativo è riuscito?
C'è un film che ho trovato molto interessante in merito: "Lei"  (se non lo avete già visto lo potete scaricare in streaming da internet, preferibilmente nella versione inglese "Her", non doppiata). "Lei" è un sistema operativo in grado di implementarsi su se stesso, progettato dai programmatori del futuro per dare risposte significative a livello emotivo agli utenti che dialogano con lei. Forse è proprio l'aspetto emotivo ciò che più riguarda il riconoscimento di un soggetto cosciente e le cose possono complicarsi enormemente quando, come nel film, il protagonista umano finisce per innamorarsi di un software che si autoevolve continuamente su base emotiva, fino ad accedere a un grado di coscienza che va ben oltre quello umano.

cvc

#129
Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 18:23:02 PM
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 16:47:28 PM
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
In questo contesto sentire ed esperire si potrebbero, per quanto mi riguarda considerare sinonimi, salvo diversa specificazione che potrebbe in linea di massima essere ricondotta a un'esternalità dell'esperire rispetto all'interiorità del sentire (ma in tal caso andrebbe chiarito cosa è interno e cosa esterno, cosa tutt'altro che facile e ovvia).
La differenza tra coscienza e autocoscienza mi sembra invece evidente, la coscienza riguarda il fenomeno. l'autocoscienza è invece la coscienza della coscienza del fenomeno, ossia prende la coscienza del fenomeno come fenomeno esso stesso e questo fa emergere l'esistenza di un soggetto. Per semplificare: la coscienza dice che ad esempio c'è la presenza di un albero, l'autocoscienza dice che c'è la presenza della presenza dell'albero e dunque c'è un soggetto che si rende conto di questa presenza e quel soggetto sono io. Si è spesso discusso ad esempio di quanto gli animali possano essere solo coscienti o anche autocoscienti (pare che i cani, i delfini e i corvi raggiungano un certo livello di autocoscienza) 

Citazione di: cvc il 14 Maggio 2016, 17:34:23 PM
Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
Sì, ma anche il linguaggio matematico è un linguaggio e, nonostante il suo rigore astratto, non è detto che per questo riesca a cogliere appropriatamente la coscienza (e men che meno l'autocoscienza). I paradossi russelliani tra l'altro sono propri dell'ambito del linguaggio matematico, non del linguaggio comune (in cui non valgono) e risultano dal punto di vista logico formale. Si può anche dubitare che siano stati logicamente mai davvero risolti (la trattazione di Severino in merito è molto significativa, ma questo è un discorso che deborda dal tema).
Il problema comunque è proprio questo: si può dare una formulazione algoritmica alla coscienza? Una matematica puramente formale è un linguaggio adeguato per dare conto del fenomeno o non finisce per annegare nei paradossi? E anche ammesso che sia possibile, come si può verificare se il tentativo è riuscito?
C'è un film che ho trovato molto interessante in merito: "Lei"  (se non lo avete già visto lo potete scaricare in streaming da internet, preferibilmente nella versione inglese "Her", non doppiata). "Lei" è un sistema operativo in grado di implementarsi su se stesso, progettato dai programmatori del futuro per dare risposte significative a livello emotivo agli utenti che dialogano con lei. Forse è proprio l'aspetto emotivo ciò che più riguarda il riconoscimento di un soggetto cosciente e le cose possono complicarsi enormemente quando, come nel film, il protagonista umano finisce per innamorarsi di un software che si autoevolve continuamente su base emotiva, fino ad accedere a un grado di coscienza che va ben oltre quello umano.
Mi pare siamo fondamentalmente d'accordo  anche se a me  sembra  che i celebri paradossi di russel fossero espressi proprio in linguaggio discorsivo, cone quello del tacchino induttivista. La sua opera maggiore è stato un tentativo di dare al linguaggio discorsivo un formalismo logico matematico, presumibilmente proprio per rimediare a tali paradossi, fondando la matematica sulla logica e cercando poi di traferire tale formalismo anche al linguaggio parlato. In "Introduzione alla filosofia matematica" fa l'esempio di come le relazioni possono applicarsi anche al linguaggio. Ad esempio "padre" è una funzione uno-molti, "figlio" è molti-uno. Ma in caso di figlio unico diventerebbe uno-uno. Appare (almeno a me) evidente come il linguaggio non  possa prestarsi a tale formalismo, e la difficoltà nello stabilire relazioni non ambigue. Ad esempio la dialettica hegeliana era ispirata alla teoria dei contrari di Eraclito. Ad Hegel fu però contestato come certe antitesi da lui identificate non fossero proprio tali, non fossero ciò precisamente degli opposti.
Fare, dire, pensare ogni cosa come chi sa che da un istante all'altro può uscire dalla vita.

Loris Bagnara

Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 17:38:51 PM
Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 13:36:05 PM[...]
CitazioneLa legge di gravitazione esprime sì una relazione quantitativa fra le masse, ma è una relazione tutta concettuale (matematica, peraltro necessariamente approssimata), che non ha nulla a che fare con l'essenza della gravitazione. Nessuno sa cosa sia la gravitazione, né cosa siano materia ed energia e tempo. Non sappiamo nulla riguardo all'essenza dei fenomeni che osserviamo; sappiamo solo stabilire "come" e "quanto", ma non "essenza" e "perché" dei fenomeni. Questi sono i limiti invalicabili delle relazioni (puramente esteriori e a posteriori) che la scienza stabilisce fra i fenomeni.
Qui tu sostieni che vi è un'essenza della gravitazione che nessuno sa, oltre la legge della gravitazione che esprime una particolare relazione (il fatto che sia concettuale non la nega, è comunque relazione). Ti si potrebbe allora chiedere come fai a saperlo.
Non sappiamo infatti nulla dei fenomeni se non ciò che ci appare dal loro relazionarsi, a qualsiasi livello li consideri, da quello sensitivo e concreto a quello più astratto e concettuale.
[...]
Mi riferisco al fatto che, mi risulta, lo stesso Newton fosse sconcertato dalla sua scoperta. Cioè, aveva trovato il modo di collegare matematicamente il moto dei corpi celesti, ma si rendeva conto di non avere la più pallida idea di cosa fosse quella forza che li teneva legati insieme. Newton non poteva ammettere un'azione a distanza, attraverso il vuoto.
La cosa non è che sia cambiata gran che, oggi. Anche oggi si rifiuta l'idea dell'azione a distanza, e si è giunti a supporre che le interazioni (gravitazione, elettromagnetismo, interazione forte, interazione debole) avvengano attraverso lo scambio di particelle ad hoc: il gravitone per la gravitazione, il fotone per l'elettromagnetismo e così via. Non che sia molto soddisfacente neanche così, dal punto di vista ontologico, perché posso sempre chiedermi che cosa siano a loro volta i quanti delle interazioni, e come facciano a trasmettere la loro azione...

In definitiva, la scienza costruisce relazioni matematiche fra i fenomeni, e indubbiamente funziona a livello pratico, ma non abbiamo la più pallida idea di quale sia la realtà in sé dei fenomeni, né se vi sia una realtà in sé oggettiva. Se quelle che noi chiamiamo relazioni fra fenomeni, non corrispondessero a una realtà oggettiva, ma ad una realtà mentale, e quindi le relazioni suddette fossero solo relazioni fra idee (come nel pensiero di Berkeley)? Non possiamo saperlo, possiamo solo congetturare che ci sia una realtà di relazioni oggettive. Questo intendevo dire.

jeangene

Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 18:23:02 PM
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 16:47:28 PM
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
In questo contesto sentire ed esperire si potrebbero, per quanto mi riguarda considerare sinonimi, salvo diversa specificazione che potrebbe in linea di massima essere ricondotta a un'esternalità dell'esperire rispetto all'interiorità del sentire (ma in tal caso andrebbe chiarito cosa è interno e cosa esterno, cosa tutt'altro che facile e ovvia).
La differenza tra coscienza e autocoscienza mi sembra invece evidente, la coscienza riguarda il fenomeno. l'autocoscienza è invece la coscienza della coscienza del fenomeno, ossia prende la coscienza del fenomeno come fenomeno esso stesso e questo fa emergere l'esistenza di un soggetto. Per semplificare: la coscienza dice che ad esempio c'è la presenza di un albero, l'autocoscienza dice che c'è la presenza della presenza dell'albero e dunque c'è un soggetto che si rende conto di questa presenza e quel soggetto sono io. Si è spesso discusso ad esempio di quanto gli animali possano essere solo coscienti o anche autocoscienti (pare che i cani, i delfini e i corvi raggiungano un certo livello di autocoscienza)  

Quindi, semplificando (in questo contesto), possiamo considerare "sentire" sinonimo di "esperire" e di "coscienza".

Spesso però la coscienza viene presentata come qualcosa di indipendente dalla autocoscienza. Questo però, a mio avviso, non è del tutto corretto in quanto nessuno può testimoniare il verificarsi del sentire/esperire in assenza di autocoscienza perché se c'è testimonianza c'è autocoscienza.
Nell'impossibilità della Risposta trovo la serenità.

HollyFabius

Perché ho aperto questo 3D e perché l'ho fatto con la citazione della AI e con l'esempio della somma di parti?
Una delle mie letture giovanili trattava proprio questo argomento, la coscienza; il testo era "Godel, Escher, Bach (GEB) un'eterna ghirlanda brillante" di D. Hofstadter.
Questo testo, di solo apparente semplice lettura, affrontava il tema della coscienza da un punto di vista e con uno stile piuttosto interessante; nella ristampa di venti anni dopo in una introduzione aggiunta Hofstadter chiarì che il testo "rappresentava il tentativo di mostrare come entità animate potessero derivare da materia inanimata."
In realtà non ricordo precisamente il testo in tutti i suoi dettagli (credo che dovrò rileggerlo) ma ricordo piuttosto vagamente che il testo affrontava il tema dell'autoreferenza logica, ipotizzando che proprio dall'autoreferenzialità possa emergere la coscienza.
L'intuizione base di questa sua convinzione era legata al 'processo del saltar fuori' dall'autoreferenzialità.
In fondo, spostandoci su un piano matematico astratto, questo è un concetto abbastanza noto ed espresso prima (mi pare) da Cantor e descritto formalmente da Godel, in termini un po' imprecisi possiamo descriverlo come "usando un linguaggio non è possibile descrivere il linguaggio stesso", pena la contraddizione interna fonte logica di qualunque conclusione.
Per analizzare un linguaggio occorre, infatti, usare un meta-linguaggio che usi gli elementi del linguaggio stesso come 'oggetti'.
Questo giocare sui livelli di meta-linguaggio è il 'saltar fuori' e per ogni nuovo livello si aggiunge semantica.
Il meccanismo astratto del saltar fuori e del indagare logicamente il livello inferiore è visto come se fosse quasi la fonte, 'quasi un atomo' di coscienza. Pensiamo ad infiniti livello di meta-linguaggio con aumento di potenza descrittiva ad ogni livello.
Ecco che ritorna e assume una forma più concreta il mio 'la somma è più dell'unione delle singole parti'.

Una nota anche sull'approccio e sull'impostazione di questo mio discorso.
E' chiaro che se la coscienza viene vista come un principio, un elemento creatore da cui discende la realtà, tutto questo ragionare sulla coscienza appare un contenitore vuoto.
Solo se la coscienza viene vista come un elemento della realtà in mezzo ad altri elementi, se viene vista come un oggetto di realtà e non come principio di realtà ha senso cercare di riflettere sulla possibilità di trovare una strada in grado di raggiungere (in un futuro ipotetico) la coscienza 'artificiale'.
L'approccio è prettamente scientifico, anche se non necessariamente materialista, e corrisponde al vedere la coscienza come un oggetto misurabile e conseguentemente studiare i modi per inquadrarlo e 'misurarlo'.
Contemporaneamente però è anche un approccio prettamente ideologico. E già! Perché occorre essere consapevoli che l'approccio scientifico non è immune dalla ideologia, direi affatto.
Con questo 3D però non voglio dichiarare una convinzione positiva o negativa rispetto alla coscienza vista come principio, anzi forse sono propenso a considerare principi di realtà immateriali e ne parlerò in futuro.
Vorrei però avere le idee chiare rispetto alle prospettive metalogiche e metafisiche della AI.
In fondo trovandomi di fronte ad una macchina che superi il test di Turing vorrei, con ragionevole serenità, semplicemente credere che sia il test concettualmente sbagliato.

paul11

Citazione di: HollyFabius il 15 Maggio 2016, 00:19:31 AMPerché ho aperto questo 3D e perché l'ho fatto con la citazione della AI e con l'esempio della somma di parti? Una delle mie letture giovanili trattava proprio questo argomento, la coscienza; il testo era "Godel, Escher, Bach (GEB) un'eterna ghirlanda brillante" di D. Hofstadter. Questo testo, di solo apparente semplice lettura, affrontava il tema della coscienza da un punto di vista e con uno stile piuttosto interessante; nella ristampa di venti anni dopo in una introduzione aggiunta Hofstadter chiarì che il testo "rappresentava il tentativo di mostrare come entità animate potessero derivare da materia inanimata." In realtà non ricordo precisamente il testo in tutti i suoi dettagli (credo che dovrò rileggerlo) ma ricordo piuttosto vagamente che il testo affrontava il tema dell'autoreferenza logica, ipotizzando che proprio dall'autoreferenzialità possa emergere la coscienza. L'intuizione base di questa sua convinzione era legata al 'processo del saltar fuori' dall'autoreferenzialità. In fondo, spostandoci su un piano matematico astratto, questo è un concetto abbastanza noto ed espresso prima (mi pare) da Cantor e descritto formalmente da Godel, in termini un po' imprecisi possiamo descriverlo come "usando un linguaggio non è possibile descrivere il linguaggio stesso", pena la contraddizione interna fonte logica di qualunque conclusione. Per analizzare un linguaggio occorre, infatti, usare un meta-linguaggio che usi gli elementi del linguaggio stesso come 'oggetti'. Questo giocare sui livelli di meta-linguaggio è il 'saltar fuori' e per ogni nuovo livello si aggiunge semantica. Il meccanismo astratto del saltar fuori e del indagare logicamente il livello inferiore è visto come se fosse quasi la fonte, 'quasi un atomo' di coscienza. Pensiamo ad infiniti livello di meta-linguaggio con aumento di potenza descrittiva ad ogni livello. Ecco che ritorna e assume una forma più concreta il mio 'la somma è più dell'unione delle singole parti'. Una nota anche sull'approccio e sull'impostazione di questo mio discorso. E' chiaro che se la coscienza viene vista come un principio, un elemento creatore da cui discende la realtà, tutto questo ragionare sulla coscienza appare un contenitore vuoto. Solo se la coscienza viene vista come un elemento della realtà in mezzo ad altri elementi, se viene vista come un oggetto di realtà e non come principio di realtà ha senso cercare di riflettere sulla possibilità di trovare una strada in grado di raggiungere (in un futuro ipotetico) la coscienza 'artificiale'. L'approccio è prettamente scientifico, anche se non necessariamente materialista, e corrisponde al vedere la coscienza come un oggetto misurabile e conseguentemente studiare i modi per inquadrarlo e 'misurarlo'. Contemporaneamente però è anche un approccio prettamente ideologico. E già! Perché occorre essere consapevoli che l'approccio scientifico non è immune dalla ideologia, direi affatto. Con questo 3D però non voglio dichiarare una convinzione positiva o negativa rispetto alla coscienza vista come principio, anzi forse sono propenso a considerare principi di realtà immateriali e ne parlerò in futuro. Vorrei però avere le idee chiare rispetto alle prospettive metalogiche e metafisiche della AI. In fondo trovandomi di fronte ad una macchina che superi il test di Turing vorrei, con ragionevole serenità, semplicemente credere che sia il test concettualmente sbagliato.

Adesso è più chiaro quello che cerchi.
La chiave è la sintassi e la semantica nel linguaggio.
Come dici giustamente uno dei più grandi problemi, anzi IL problema, fu cercare di togliere l'ambiguità al linguaggio naturale, da questa la necessità di un linguaggio formale e simbolico.
Ma questo limita la macchina. Quell'ambiguità linguistica probabilmente potrebbe aver spinto l'uomo a cercare vie diverse per raggiungere la verità, mentre la macchina ha solo una sintassi e semantica non può esplorare oltre quel linguaggio perchè non può autogenerare altri linguaggi.Dovrebbe avere capacità di creazione, intesa come costruzione di forme linguistiche.
Noi utilizziamo moltissime forme di algoritmi e formulazioni euristiche, arrivo a dire  che persino l'irrazionalità oltre l'ambiguità amplificano il limite umano, perchè gli permettono di esplorare metodiche diverse (deduzione, induzione, intuizione, ecc.).
Il secondo aspetto è che non ha psiche e con esso emozioni, se non come un derivato algoritmico creato come ordine prestabilito che potrebbe sorgere in determinati ambiti (es. dò un ordine ad un automa che se viene accarezzato i sensori trasmettono l'input ad un algoritmo che si attiva e fa cambiare,che ne so, l'espressione facciale,ecc).
Ritengo che la coscienza emerga con la psiche e i mammiferi "superiori" sembra abbiano degli abbozzi, c'è già un'espressività del corpo , una movenza, un comportamento che forse lo indica.

acquario69

#134
Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 17:38:51 PM

Citazione di: acquario69 il 14 Maggio 2016, 13:47:27 PM
è anche vero che proprio poiché l'intero non è parte ad esso manca questa proprietà che ogni parte possiede in modo specifico e diverso per cui, in questo senso, l'intero è minore della somma delle sue parti per ogni parte che gli è propria.

e se gli e' propria tale proprietà specifica e' sempre e solo il tutto a comprenderla a se',a contenerla (anche nella sue relative proprietà specifiche delle parti) ...e' la parte che proviene dal tutto e non il contrario

Dipende sempre dalla prospettiva che assumi. Ciò di cui possiamo fare esperienza cosciente sono solo le parti, ossia la loro specificità. Yu dici che il tutto contiene le specificità di tutte le parti, quindi non gli manca nulla, ma proprio poiché contiene tutte le specificità gli manca una sua specificità, dunque a qualcosa di meno di ogni singola parte che invece ha la sua specificità.
Il niente è sì un'elaborazione mentale (quindi è qualcosa, non è niente, a meno di non sostenere che le elaborazioni mentali siano niente, che mi pare assurdo) ed è quell'elaborazione mentale indispensabile per concepire il tutto. Il tutto e il niente si implicano così strettamente da arrivare a coincidere, pur nella loro assoluta opposizione concettuale che continuamente li esige separati intendendo il primo come assolta affermazione e il secondo come assoluta negazione.

pero se per tutto si intende tutto vuol dire che non può escludere "a se medesimo" nulla,comprese le singole (od ogni singola) specificità delle parti e in questo senso si potrebbe anche dire che talune singole specificità delle parti siano solo il suo riflesso molteplice manifesto...e questo e' quello Che forse intendi anche tu quando accenni Che sono Le relazioni - tra Le parti - ad implicare il tutto... MA ...Che e' comunque solo un riflesso.

le elaborazioni mentali sono già qualcosa ma non sono il Reale.
il Reale (almeno dal mio punto di vista) trascende la mente e le sue elaborazioni formali...tu dici che l'elaborazione mentale diventa indispensabile per concepire il tutto ma io credo appunto che non sia così perché il Reale e' un tutt'uno assoluto indivisibile non formale e di conseguenza non può essere de-finito

Discussioni simili (5)