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Ci sono cose

Aperto da iano, 25 Febbraio 2018, 00:17:40 AM

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iano

#45
Citazione di: Lou il 01 Marzo 2018, 18:34:31 PM
"In astratto possiamo considerarlo simile nient'altro che all'affermazione di Parmenide: l'essere è.

Come ho detto sopra, se l'essere è, è necessario che sia certo. Non può avere senso parlare dell'essere in un senso fondamentale, base e pilastro di ogni altro discorso, se l'essere non potesse godere di certezza.

Allo stesso modo, l'essere dev'essere necessariamente universale.

Ma se è universale, esso deve fare i conti con ogni tipo di esistenza.

In particolare, deve fare i conti con l'esistenza di chi lo sta pensando."

In che senso? Nel caso che sia lo stesso essere e pensare, come vuole Parmenide? Ma è lo stesso essere e pensare?
Perché è necessario che sia certo?
L'esigenza di questa certezza da dove nasce?
Di certo è una complicazione.
Partì dalla certezza dell'essere , poi giungi a contraddizioni.
Queste ti costringono a rivedere le tue certezze.
A cosa è servito allora partire da certezze?
Se pensavamo che partire da queste ci garantisse altrettanta certezza di coerenza nello sviluppo della teoria , ci siamo ingannati
Meglio prendere atto  allora che si trattava solo dì ipotesi.
Anche se capisco bene che quando tutti abbracciano le stesse ipotesi , queste possano confondersi con certezze.Ma il fatto che tutti abbraccino le stesse ipotesi , magari perché appaiono evidenti, non le rende meno arbitrarie.
Per Euclide le sue ipotesi ad esempio non dovevano essere spiegate,  perché evidenti , e non si trovava uno che avesse qualcosa da eccepire su ciò.
Per noi , uomini di oggi, che tanto abbiamo imparato da Euclide ,le ipotesi non vanno spiegate , perché questa "non necessita' " è ciò che ne definisce la natura.
Se non si accetta l'evidenza delle ipotesi di Euclide , il considerarle arbitrarie , non solo non toglie valore agli Elememti di Euclide , ma da un lato me amplia il campo di applicazione e dall'altro da il via a tante altre geometrie altrettanto utili.
Partire da evidenti certezze è una esigenza ben scusabile e comprensibile , ma anche una complicazione inutile , se non un errore.Detto ovviamente col senno di poi.
Per non parlare del postulato delle parallele , che evidente non era , a dimostrazione del fatto che la ricerca di evidenze è una esigenza tanto pressante da far accettare compromessi , facendoci accontentare di qualcosa di solo sufficientemente evidente.
Quindi , quello che possiamo dire col senno di poi , è che la mirabile opera di Euclide è consistita nel prendere le conoscenze matematiche del suo tempo , divise e frammentarie , riportandole tutte ad unità logica a partire da ipotesi costruite ad hoc , con l'accidentale complicazione che quelle ipotesi apparivano evidenti , anche se questa evidenza  d'altro canto  tanto sembrava rassicurante.
Ai tempi di Euclide è ancora fino a ieri sapevamo di conoscere delle cose senza sapere come facevamo a conoscerle.Troopp bello per essere vero.
Oggi abbiamo aperto una finestra su come facciamo a comprendere le cose.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Angelo Cannata

#46
In effetti, nello sforzo di non dilungarmi troppo, non ho descritto abbastanza in dettaglio tutti i passaggi. Ci provo.

Intanto chiariamo cos'è l'essere. Questo non significa che io ora stia provando a definirlo, dopo aver sostenuto che è impossibile. Non è una spiegazione del suo significato, ma un tentativo di consapevolizzazione di com'è successo che in filosofia sia divenuto un argomento così fondamentale.

L'essere è la qualità, l'attributo, la caratteristica, posseduta da tutte le cose a cui riteniamo possibile applicare l'uso del verbo essere. In altre parole, è il risultato di un processo di astrazione. Così come sappiamo che non esiste il colore bianco, ma soltanto oggetti che sono bianchi, e però con la mente riusciamo ad astrarre, da tutti gli oggetti bianchi, la caratteristica comune che chiamiamo colore bianco, allo stesso modo, considerando tutte le cose a cui troviamo modo di applicare il verbo essere, riusciamo ad astrarre l'attributo di essere. In questo senso, così come il bianco non esiste come oggetto autonomo, ma esiste come qualità che noi riusciamo ad astrarre, così anche l'essere non esiste da solo, ma esiste come caratteristica che noi riusciamo ugualmente a pensare. In questo senso quindi credo che Parmenide, sostenendo che l'essere fosse sferico, sia caduto nell'errore di non essersi reso conto del vero meccanismo dei suoi stessi pensieri. In base alla definizione che ne ho dato, è importante notare che l'essere non appartiene soltanto agli oggetti che riusciamo a situare in un tempo e uno spazio, come ad esempio una pietra; l'essere appartiene anche a quanto di più irreale possiamo immaginare, per esempio il cavallo volante: se troviamo modo di applicargli il verbo essere, anche solo per dire che esiste nella nostra fantasia, significa che possiede un suo modo di essere, non importa se limitato alla fantasia: ciò che conta è che risulta possibile usare con esso il verbo essere.
Questo è l'essere.

Nella storia della filosofia l'essere è stato inizialmente pensato come a sé stante cioè capace di essere senza bisogno di essere pensato da noi. L'istinto umano più immediato l'ha immaginato così. Ad esempio, per noi è istintivo pensare che una pietra esiste anche quando non pensiamo ad essa, tant'è vero che a volte vi inciampiamo proprio perché non ci eravamo accorti di essa, non la pensavamo, e invece essa s'impone a noi con prepotenza riuscendo perfino a farci cadere a terra. Questo ha una conseguenza importante: se la pietra dimostra di esistere senza bisogno di essere pensata da alcuno, ciò significa che la sua esistenza è oggettiva, cioè vera. Io posso permettermi di mentire su una mia fantasia, ma sulla pietra non posso mentire, perché essa è capace di smentirmi con prepotenza, provocandomi del male. Se esiste ed è capace di farmi cadere, significa che nessuno può permettersi di dire che non esiste, perché essa è capace di dimostrare la sua esistenza a chiunque, con la stessa forza. Ciò significa che l'esistenza di quella pietra è capace di imporsi con validità universale: essa esiste non solo anche quando nessuno la pensa, ma anche contro chi volesse osare pensarla diversamente da com'è. L'esperienza dimostra che chi volesse osare ignorare l'esistenza di quella pietra, oppure pensarla diversamente da com'è davvero, ci rimette, ne paga le spese, a caro prezzo. Ecco la potenza della verità universale. L'essere è verità universale. Anche quando penso al cavallo volante, la sua esistenza nella mia fantasia è una verità universale. Negare che esso esiste nella mia fantasia magari non avrà le conseguenze di quando neghiamo l'esistenza della pietra, ma ormai abbiamo capito che significherebbe comunque allontanarsi dalla verità, dalla verità oggettiva, la verità universale. Se ho fantasticato sul cavallo bianco, quel fantasticare c'è stato, è esistito, è ormai un fatto innegabile. Ecco in che senso l'essere richiede di essere necessariamente universale. Ho detto anche che è verità. Da qui non dovrebbe essere difficile passare a concludere che l'essere gode anche necessariamente di certezza. Ad esempio, io posso anche dire "Forse domani ci sarà la pioggia". Nonostante le apparenze, ho affermato una certezza: la certezza che forse domani ci sarà la pioggia; è certo che forse domani ci sarà la pioggia. Se non fosse certo non avrei potuto usare il verbo essere. Magari potremo osservare che si tratta di una certezza che viene annullata dal forse, ma questo non importa: abbiamo detto infatti che l'essere non è posseduto solo dagli oggetti reali, ma da qualsiasi situazione in cui riusciamo ad usare grammaticalmente il verbo essere. Non penso sia necessario dilungarmi riguardo al non essere.

Si tratta di vedere adesso come mai l'essere deve fare i conti con colui che lo pensa. Fare i conti significa confrontare, vedere cosa succede se una cosa viene confrontata con un'altra. Come ho detto, non ci devono essere confronti esclusi a priori, perché può sempre accadere che qualche confronto si riveli di vitale importanza per la comprensione oppure la critica della questione.
Se l'essere è universale, significa dunque che è in grado di misurarsi con qualsiasi situazione. Universalità significa tutto, significa sforzo umano di abbracciare il tutto, almeno nel senso più adeguato in cui riusciamo a farcene un'idea. Se tutto significa tutto, deve per forza significare anche noi: noi come minimo facciamo parte del tutto che pensiamo.

A questo punto si profila la possibilità di porre in atto un gioco che in filosofia si usa fare spesso: applicare ciò che si dice al detto stesso, o a colui che lo dice, e vedere se vengono fuori cose interessanti.

Nel nostro caso, si tratta di prendere atto che tutte le cose che finora abbiamo pensato e detto sono, per l'appunto, pensate e dette. Significa che sono inevitabilmente, inestricabilmente, collegate a qualcuno che le ha pensate o dette.

Collegate significa dipendenti.

Ne segue il terribile sospetto che non è affatto vero che l'essere sia indipendente e la cosa curiosa è che ci stiamo arrivando semplicemente portando avanti le conseguenze di averlo pensato indipendente: se è indipendente è universale, se è universale deve misurarsi con chi lo pensa, se deve misurarsi con chi lo pensa viene fuori che non è universale. Abbreviando i passaggi, viene fuori che se l'essere è universale si ha come conseguenza che non è universale.

Da qui deriva in realtà una conseguenza ancora più terribile, perché l'argomento di cui ci siamo occupati non è un argomento qualsiasi, ma la base stessa del pensare. La conseguenza terribile è che, qualunque cosa pensiamo, non possiamo mai essere certi di aver pensato davvero ciò che riteniamo di aver pensato. Ciò è dovuto al fatto che, crollando l'universalità dell'essere, crolla anche l'altra sua caratteristica che avevamo detto, cioè la certezza. Se rifacessimo il percorso avremmo come conclusione che, se la certezza esiste, allora non esiste.
Tornando alla conseguenza terribile, significa che quando io ritengo di aver pensato, ad esempio, ad una pietra, non potrò mai sapere se in realtà ho pensato invece al teorema di Pitagora o al gatto con gli stivali. Quando io ritengo di aver pensato al concetto di verità, nulla mi garantisce che io abbia davvero pensato al concetto di verità; potrei aver pensato invece a Cappuccetto Rosso ed essermi illuso di aver pensato al concetto di verità. Quando dico "Questa cosa è vera" e sono certo di aver pensato ciò che ho detto, nulla mi garantisce che io in realtà abbia pensato a come faceva Picasso a disegnare o a quanti violini ci sono in una sinfonia di Mozart.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
 In base alla definizione che ne ho dato, è importante notare che l'essere non appartiene soltanto agli oggetti che riusciamo a situare in un tempo e uno spazio, come ad esempio una pietra; l'essere appartiene anche a quanto di più irreale possiamo immaginare, per esempio il cavallo volante: se troviamo modo di applicargli il verbo essere, anche solo per dire che esiste nella nostra fantasia, significa che possiede un suo modo di essere, non importa se limitato alla fantasia: ciò che conta è che risulta possibile usare con esso il verbo essere.
Questo è l'essere.

CitazioneA me importa moltissimo: un cavallo vero può farmi molto male con un sonoro calcione o molto bene portandomi a destinazione per tempo, un cavallo volante no.



Nella storia della filosofia l'essere è stato inizialmente pensato come a sé stante cioè capace di essere senza bisogno di essere pensato da noi.
CitazioneLa storia della filosofia non inizia con Platine.
Nè con Parmenide.

Ma soprattutto non finisce affatto "lì"!



L'istinto umano più immediato l'ha immaginato così. Ad esempio, per noi è istintivo pensare che una pietra esiste anche quando non pensiamo ad essa, tant'è vero che a volte vi inciampiamo proprio perché non ci eravamo accorti di essa, non la pensavamo, e invece essa s'impone a noi con prepotenza riuscendo perfino a farci cadere a terra. Questo ha una conseguenza importante: se la pietra dimostra di esistere senza bisogno di essere pensata da alcuno, ciò significa che la sua esistenza è oggettiva, cioè vera. Io posso permettermi di mentire su una mia fantasia, ma sulla pietra non posso mentire, perché essa è capace di smentirmi con prepotenza, provocandomi del male. Se esiste ed è capace di farmi cadere, significa che nessuno può permettersi di dire che non esiste, perché essa è capace di dimostrare la sua esistenza a chiunque, con la stessa forza. Ciò significa che l'esistenza di quella pietra è capace di imporsi con validità universale: essa esiste non solo anche quando nessuno la pensa, ma anche contro chi volesse osare pensarla diversamente da com'è. L'esperienza dimostra che chi volesse osare ignorare l'esistenza di quella pietra, oppure pensarla diversamente da com'è davvero, ci rimette, ne paga le spese, a caro prezzo. Ecco la potenza della verità universale. L'essere è verità universale. Anche quando penso al cavallo volante, la sua esistenza nella mia fantasia è una verità universale. Negare che esso esiste nella mia fantasia magari non avrà le conseguenze di quando neghiamo l'esistenza della pietra, ma ormai abbiamo capito che significherebbe comunque allontanarsi dalla verità, dalla verità oggettiva, la verità universale. Se ho fantasticato sul cavallo bianco, quel fantasticare c'è stato, è esistito, è ormai un fatto innegabile. Ecco in che senso l'essere richiede di essere necessariamente universale. Ho detto anche che è verità. Da qui non dovrebbe essere difficile passare a concludere che l'essere gode anche necessariamente di certezza. Ad esempio, io posso anche dire "Forse domani ci sarà la pioggia". Nonostante le apparenze, ho affermato una certezza: la certezza che forse domani ci sarà la pioggia; è certo che forse domani ci sarà la pioggia. Se non fosse certo non avrei potuto usare il verbo essere. Magari potremo osservare che si tratta di una certezza che viene annullata dal forse, ma questo non importa: abbiamo detto infatti che l'essere non è posseduto solo dagli oggetti reali, ma da qualsiasi situazione in cui riusciamo ad usare grammaticalmente il verbo essere. Non penso sia necessario dilungarmi riguardo al non essere.

CitazioneE' la certezza tipica dei giudizi analitici a priori: non si può non pensare (per le definizioni dei concetti considerati) che o domani pioverà oppure domani non pioverà (=che forse domani pioverà: espressione sinonimica, che ha esattamente lo stesso significato della disgiunzione immediatamente precedente).

Ma questa certezza, come quella di tutti i giudizi analitici a priori, che infatti sono "conoscitivamente sterili", riguarda non la conoscenza di come stanno le cose reali (non ci dice proprio nulla sull' unico e solo -almeno a un certo istante- tempo che effettivamente farà domani realmente, indipendentemente dall' eventualità che inoltre lo si pensi oppure no), ma solo il modo in cui bisogna mettere in relazione diversi concetti (reali solo in quanto "contenuti di pensiero") secondo regole arbitrariamente stabilite.

La conoscenza del reale possono darcela soltanto giudizi sintetici a posteriori, che però "pagano" inevitabilmente questa loro possibile "fertilità conoscitiva!" con un' insuperabile incertezza, dubitabilità (salvo forse l' effimera, istantanea certezza al momento presente di constatazioni immediate di sensazioni in atto, che però immediatamente viene meno col trascorrere del tempo per diventare oggetto di memoria, la quale può ingannare, e dunque subito diviene assolutamente dubitabile).



Si tratta di vedere adesso come mai l'essere deve fare i conti con colui che lo pensa. Fare i conti significa confrontare, vedere cosa succede se una cosa viene confrontata con un'altra. Come ho detto, non ci devono essere confronti esclusi a priori, perché può sempre accadere che qualche confronto si riveli di vitale importanza per la comprensione oppure la critica della questione.
Se l'essere è universale, significa dunque che è in grado di misurarsi con qualsiasi situazione. Universalità significa tutto, significa sforzo umano di abbracciare il tutto, almeno nel senso più adeguato in cui riusciamo a farcene un'idea. Se tutto significa tutto, deve per forza significare anche noi: noi come minimo facciamo parte del tutto che pensiamo.

A questo punto si profila la possibilità di porre in atto un gioco che in filosofia si usa fare spesso: applicare ciò che si dice al detto stesso, o a colui che lo dice, e vedere se vengono fuori cose interessanti.

Nel nostro caso, si tratta di prendere atto che tutte le cose che finora abbiamo pensato e detto sono, per l'appunto, pensate e dette. Significa che sono inevitabilmente, inestricabilmente, collegate a qualcuno che le ha pensate o dette.
CitazioneSecondo me é certo solo ciò che immediatamente viene esperito e unicamente in quanto tale (immediato sentire, mero manifestarsi fenomenico, insieme e/o sequenza di sensazioni): "esse est percipi"!

Dunque la realtà potrebbe benissimo anche esaurirsi nelle sole sensazioni stesse, senza "in aggiunta ad esse" alcun loro soggetto (nessun "qualcuno che le ha sentite e magari ha sentito il pensarle e il dirle"), che non é certo esista oltre ad esse (né qualcosa di diverso dal soggetto -oggetti- ed esattamente come il soggetto in sé reale anche indipendentemente dall' accadere realmente o meno delle sensazioni stesse): soggetto e oggetti potrebbero anche non essere reali e la realtà non eccedere le sole sensazioni.



Collegate significa dipendenti.

Ne segue il terribile sospetto che non è affatto vero che l'essere sia indipendente e la cosa curiosa è che ci stiamo arrivando semplicemente portando avanti le conseguenze di averlo pensato indipendente: se è indipendente è universale, se è universale deve misurarsi con chi lo pensa, se deve misurarsi con chi lo pensa viene fuori che non è universale. Abbreviando i passaggi, viene fuori che se l'essere è universale si ha come conseguenza che non è universale.
CitazioneNon che certamente non é universale (universalmente presente, nelle "opportune" circostanze-) in tutte le esperienze coscienti di tutti i soggetti (se costoro realmente esistono), ma che potrebbe non esserlo: potrebbe essere sia intersoggettivo, sia meramente soggettivo, e non vi é certezza della sua oggettività (o meno).


Da qui deriva in realtà una conseguenza ancora più terribile, perché l'argomento di cui ci siamo occupati non è un argomento qualsiasi, ma la base stessa del pensare. La conseguenza terribile è che, qualunque cosa pensiamo, non possiamo mai essere certi di aver pensato davvero ciò che riteniamo di aver pensato. Ciò è dovuto al fatto che, crollando l'universalità dell'essere, crolla anche l'altra sua caratteristica che avevamo detto, cioè la certezza. Se rifacessimo il percorso avremmo come conclusione che, se la certezza esiste, allora non esiste.

Tornando alla conseguenza terribile, significa che quando io ritengo di aver pensato, ad esempio, ad una pietra, non potrò mai sapere se in realtà ho pensato invece al teorema di Pitagora o al gatto con gli stivali. Quando io ritengo di aver pensato al concetto di verità, nulla mi garantisce che io abbia davvero pensato al concetto di verità; potrei aver pensato invece a Cappuccetto Rosso ed essermi illuso di aver pensato al concetto di verità. Quando dico "Questa cosa è vera" e sono certo di aver pensato ciò che ho detto, nulla mi garantisce che io in realtà abbia pensato a come faceva Picasso a disegnare o a quanti violini ci sono in una sinfonia di Mozart.
Citazionenon possiamo mai essere certi di aver pensato davvero ciò che riteniamo di aver pensato semplicemente perché la memoria può ingannarci, é degna di dubbio.

Phil

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
L'essere è la qualità, l'attributo, la caratteristica, posseduta da tutte le cose a cui riteniamo possibile applicare l'uso del verbo essere.
Definizione forse "da manuale", che tuttavia mi sembra piuttosto circolare; ovvero presuppone che sia sappia già cosa significhi "essere", altrimenti risulta inintelligibile: parafrasando, "l'essere è ciò che rende applicabile il verbo essere"?
Non aiuta molto a definire chiaramente l'essere, ne descrive solo il campo d'applicazione ;)

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
In altre parole, è il risultato di un processo di astrazione [...] considerando tutte le cose a cui troviamo modo di applicare il verbo essere, riusciamo ad astrarre l'attributo di essere.
Circolarità viziosa in azione: applichiamo il verbo essere perché possiamo astrarre l'attributo di essere, e viceversa... di sicuro logicamente funziona (come tutte le petitio principii), ma non ha molto peso argomentativo né esplicativo.
Come dire "astraiamo la bellezza da ciò che troviamo bello, e troviamo bello ciò da cui astraiamo la bellezza", è senz'altro vero, però non ci agevola molto nel capire cosa sia e come funzioni la bellezza...

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
In base alla definizione che ne ho dato, è importante notare che l'essere non appartiene soltanto agli oggetti che riusciamo a situare in un tempo e uno spazio, come ad esempio una pietra; l'essere appartiene anche a quanto di più irreale possiamo immaginare
Personalmente, prediligo la definizione alternativa (non autoreferenziale) che definisce l'essere (grammaticale) come l'avere un'identità individuata da una connotazione spaziale e/o temporale:
Citazione di: Phil il 27 Febbraio 2018, 23:07:01 PM
direi che essere-esistere significa avere una connotazione spazio-temporale: per l'uomo esiste tutto ciò che egli riesce a collocare in uno spazio e/o in un tempo... non solo in senso percettivo (sensazioni, percezioni, etc.), ma anche "interiore": se penso ad un'idea astratta (all'anima, a una chimera, a me in decomposizione fra 100 anni, etc.), quella idea ha comunque una connotazione temporale, ovvero il momento in cui la penso, e spaziale, essendo (apparentemente) "localizzata" nella mia mente (o nella vocina che la abita  ;D ).

Per questo il prospettivismo è, secondo me, un buon punto di partenza per riflettere sull'esistenza [...] per cui dovremmo, a questo punto, iniziare a distinguere fra i vari tipi (o piani) di esistenza, disambiguando i possibili sensi


Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
se la pietra dimostra di esistere senza bisogno di essere pensata da alcuno, ciò significa che la sua esistenza è oggettiva, cioè vera.
Per poter parlare di quella pietra (e della sua oggettività) senza pensarla, dobbiamo almeno percepirla... altrimenti come "ci dimostra di esistere senza bisogno di essere pensata da alcuno"? Tale oggettività risulta dunque sempre soggettiva (pensata o percepita che sia).

Vecchio (e inflazionato) koan: che suono fa un albero che cade quando non c'è nessuno ad ascoltarlo?
Qui la verificabilità vacilla e non consente risposte "scientifiche" ;D


Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
l'esistenza di quella pietra è capace di imporsi con validità universale: essa esiste non solo anche quando nessuno la pensa, ma anche contro chi volesse osare pensarla diversamente da com'è. L'esperienza dimostra che chi volesse osare ignorare l'esistenza di quella pietra, oppure pensarla diversamente da com'è davvero, ci rimette, ne paga le spese, a caro prezzo. Ecco la potenza della verità universale. L'essere è verità universale. Anche quando penso al cavallo volante, la sua esistenza nella mia fantasia è una verità universale. Negare che esso esiste nella mia fantasia magari non avrà le conseguenze di quando neghiamo l'esistenza della pietra, ma ormai abbiamo capito che significherebbe comunque allontanarsi dalla verità, dalla verità oggettiva, la verità universale.
L'oggettività percepita dai sensi, la verità universale, etc. sono temi cari alla filosofia metafisica occidentale; per confutazioni e decostruzioni in merito, ci si può rivolgere alla fenomenologia, al postmoderno, alle neuroscienze, ad alcune correnti orientali (le lascio qui solo come spunto  :) ).

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
il terribile sospetto che non è affatto vero che l'essere sia indipendente e la cosa curiosa è che ci stiamo arrivando semplicemente portando avanti le conseguenze di averlo pensato indipendente: se è indipendente è universale, se è universale deve misurarsi con chi lo pensa, se deve misurarsi con chi lo pensa viene fuori che non è universale. Abbreviando i passaggi, viene fuori che se l'essere è universale si ha come conseguenza che non è universale.
Mi lascia un po' perplesso la premessa "se è universale deve misurarsi con chi lo pensa": perché deve, se è davvero indipendente?

Citazione di: Angelo Cannata il 02 Marzo 2018, 01:25:47 AM
Tornando alla conseguenza terribile, significa che quando io ritengo di aver pensato, ad esempio, ad una pietra, non potrò mai sapere se in realtà ho pensato invece al teorema di Pitagora o al gatto con gli stivali. Quando io ritengo di aver pensato al concetto di verità, nulla mi garantisce che io abbia davvero pensato al concetto di verità; potrei aver pensato invece a Cappuccetto Rosso ed essermi illuso di aver pensato al concetto di verità. Quando dico "Questa cosa è vera" e sono certo di aver pensato ciò che ho detto, nulla mi garantisce che io in realtà abbia pensato a come faceva Picasso a disegnare o a quanti violini ci sono in una sinfonia di Mozart.
Nell'istante dell'autocoscienza del pensiero, se penso intensamente ad una palla rossa, non posso pensare al teorema di Pitagora; l'immagine mentale, nella sua (auto?)evidenza, non lascia molto spazio a dubbi... come diceva Sgiombo, il discorso cambia se invece tiriamo in ballo la memoria (soprattutto dopo una certa età... ;D ).



Lou

Citazione di: iano il 01 Marzo 2018, 23:28:53 PM
Citazione di: Lou il 01 Marzo 2018, 18:34:31 PM
"In astratto possiamo considerarlo simile nient'altro che all'affermazione di Parmenide: l'essere è.

Come ho detto sopra, se l'essere è, è necessario che sia certo. Non può avere senso parlare dell'essere in un senso fondamentale, base e pilastro di ogni altro discorso, se l'essere non potesse godere di certezza.

Allo stesso modo, l'essere dev'essere necessariamente universale.

Ma se è universale, esso deve fare i conti con ogni tipo di esistenza.

In particolare, deve fare i conti con l'esistenza di chi lo sta pensando."

In che senso? Nel caso che sia lo stesso essere e pensare, come vuole Parmenide? Ma è lo stesso essere e pensare?
Perché è necessario che sia certo?
L'esigenza di questa certezza da dove nasce?
Di certo è una complicazione.
Partì dalla certezza dell'essere , poi giungi a contraddizioni.
Queste ti costringono a rivedere le tue certezze.
A cosa è servito allora partire da certezze?
Se pensavamo che partire da queste ci garantisse altrettanta certezza di coerenza nello sviluppo della teoria , ci siamo ingannati
Meglio prendere atto  allora che si trattava solo dì ipotesi.
Anche se capisco bene che quando tutti abbracciano le stesse ipotesi , queste possano confondersi con certezze.Ma il fatto che tutti abbraccino le stesse ipotesi , magari perché appaiono evidenti, non le rende meno arbitrarie.
Per Euclide le sue ipotesi ad esempio non dovevano essere spiegate,  perché evidenti , e non si trovava uno che avesse qualcosa da eccepire su ciò.
Per noi , uomini di oggi, che tanto abbiamo imparato da Euclide ,le ipotesi non vanno spiegate , perché questa "non necessita' " è ciò che ne definisce la natura.
Se non si accetta l'evidenza delle ipotesi di Euclide , il considerarle arbitrarie , non solo non toglie valore agli Elememti di Euclide , ma da un lato me amplia il campo di applicazione e dall'altro da il via a tante altre geometrie altrettanto utili.
Partire da evidenti certezze è una esigenza ben scusabile e comprensibile , ma anche una complicazione inutile , se non un errore.Detto ovviamente col senno di poi.
Per non parlare del postulato delle parallele , che evidente non era , a dimostrazione del fatto che la ricerca di evidenze è una esigenza tanto pressante da far accettare compromessi , facendoci accontentare di qualcosa di solo sufficientemente evidente.
Quindi , quello che possiamo dire col senno di poi , è che la mirabile opera di Euclide è consistita nel prendere le conoscenze matematiche del suo tempo , divise e frammentarie , riportandole tutte ad unità logica a partire da ipotesi costruite ad hoc , con l'accidentale complicazione che quelle ipotesi apparivano evidenti , anche se questa evidenza  d'altro canto  tanto sembrava rassicurante.
Ai tempi di Euclide è ancora fino a ieri sapevamo di conoscere delle cose senza sapere come facevamo a conoscerle.Troopp bello per essere vero.
Oggi abbiamo aperto una finestra su come facciamo a comprendere le cose.
Molto bella la domanda genealogica sulla nascita: la direi nascere dalla certezza originaria e immediata di esserci.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

Angelo Cannata

Phil, avevo detto infatti che il mio scopo non era definire l'essere nei modi in cui definiamo le altre cose, visto che io stesso l'avevo dichiarato impossibile da definire. Il mio scopo era spiegare in che senso sia possibile parlare dell'essere come se fosse un sostantivo. Il senso è quello che ho detto: risultato di un processo di astrazione. Questo mi serviva per chiarire che non si tratta solo del riferimento ad esseri sperimentati come reali o materiali.

Quando parlo della pietra che dimostra di esistere senza essere pensata, ne parlo non in un senso filosofico, esatto, esigente, preciso, ma soltanto come istintiva deduzione susseguente all'inciampare: se sono inciampato vuol dire che non ci stavo pensando e quindi la pietra esisteva quando io non pensavo ad essa.

L'essere universale deve misurarsi con chi lo pensa proprio per dimostrare di essere indipendente. Io, ad esempio, potrei sostenere di saper muovere la pietra col pensiero; sarà il misurarmi direttamente con essa a stabilire se è vero o no. Se ritengo le mie affermazioni fortissime, non avrò paura di misurarmi con qualsiasi cosa. Allo stesso l'essere che voglia risultare universale: devo dimostrarlo alla prova dei fatti, così come la pietra, alla prova dei fatti, dimostra di esistere senza bisogno che io debba pensarla.

Pr quanto riguarda la certezza di pensare ciò che riteniamo di pensare, il ricorso alla memoria serve solo ad attenuare la terrificità della situazione: se vogliamo prendere la via della memoria, dobbiamo anche convenire che, trattandosi di una questione di principio, non è possibile stabilire distanze nel tempo. Cioè, non possiamo dire "la memoria può tradirmi solo oltre una settimana; se è passata meno di una settimana ho la certezza di ricordare alla perfezione". No: se stabiliamo che la memoria può tradirci, ne consegue che essa può tradirci anche nell'arco di un milionesimo di secondo. Ne consegue che non si tratta solo del fatto che io non posso mai essere certo di cosa ho pensato; si tratta del fatto che non posso mai essere certo neanche di cosa sto pensando, perché anche nel presente è pur sempre questione di memoria.
Per far capire meglio questa situazione può essere utile richiamare l'esempio delle carte: se dobbiamo contare un mazzo di diecimila carte, è facile alla fine essere colti dal dubbio che durante la conta possiamo esserci distratti e quindi il risultato finale non è affidabile. Ci sentiamo più sicuri se le carte sono di meno. Facciamo cento? Forse sono ancora troppe per essere abbastanza sicuri. Facciamo dieci? Dai, con dieci carte è impossibile pensare di essersi distratti! E invece no, perché la filosofia non guarda alle quantità. Se posso essere tradito dalla memoria, significa che posso essere tradito anche nel contare una sola carta. Ecco quindi la conclusione terribile: non possiamo mai stabilire di star pensando davvero ciò che ci sembra di star pensando. Infatti tu hai parlato di evidenza. Ma l'evidenza, di fronte alle esigenze severissime della filosofia, non ha alcun valore.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM

Pr quanto riguarda la certezza di pensare ciò che riteniamo di pensare, il ricorso alla memoria serve solo ad attenuare la terrificità della situazione: se vogliamo prendere la via della memoria, dobbiamo anche convenire che, trattandosi di una questione di principio, non è possibile stabilire distanze nel tempo. Cioè, non possiamo dire "la memoria può tradirmi solo oltre una settimana; se è passata meno di una settimana ho la certezza di ricordare alla perfezione". No: se stabiliamo che la memoria può tradirci, ne consegue che essa può tradirci anche nell'arco di un milionesimo di secondo. Ne consegue che non si tratta solo del fatto che io non posso mai essere certo di cosa ho pensato; si tratta del fatto che non posso mai essere certo neanche di cosa sto pensando, perché anche nel presente è pur sempre questione di memoria.
CitazioneDistinguere il presente (istantaneo) dall' immediatamente successivo (e precedente) é un problema pazzesco (mi ricorda i paradossi di Zenone) e preferirei astenermi dal pronunciarmi in proposito.

Ma che la memoria possa ingannarci, a qualsiasi distanza di tempo dai fatti ricordati o pretesi essere ricordati, non é qualcosa che potrebbe darsi o meno.
Semplicemente non é contraddittorio pensare (ergo: é possibile) che la memoria ci inganni, ergo: per "memoria" si intende (per definizione) qualcosa che é (e non: potrebbe darsi o meno che sia) fallibile e dunque i ricordi sono incerti, degni di dubbio (compreso il ricordo stesso che la memoria sia degna di dubbio nonappena questo pensiero non é più presentemente in atto ma invece ricordato); e questo anche senza bisogno di considerare che poiché a volte ci ha ingannato (dal momento che questo é a sua volta un dato di memoria, e dunque dubitabile; e sarebbe un circolo vizioso utilizzarlo come argomento) può benissimo ingannarci in qualsiasi altra occasione.


Per far capire meglio questa situazione può essere utile richiamare l'esempio delle carte: se dobbiamo contare un mazzo di diecimila carte, è facile alla fine essere colti dal dubbio che durante la conta possiamo esserci distratti e quindi il risultato finale non è affidabile. Ci sentiamo più sicuri se le carte sono di meno. Facciamo cento? Forse sono ancora troppe per essere abbastanza sicuri. Facciamo dieci? Dai, con dieci carte è impossibile pensare di essersi distratti! E invece no, perché la filosofia non guarda alle quantità. Se posso essere tradito dalla memoria, significa che posso essere tradito anche nel contare una sola carta. Ecco quindi la conclusione terribile: non possiamo mai stabilire di star pensando davvero ciò che ci sembra di star pensando. Infatti tu hai parlato di evidenza. Ma l'evidenza, di fronte alle esigenze severissime della filosofia, non ha alcun valore.
CitazioneSu questo concordo.

Phil

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
Il mio scopo era spiegare in che senso sia possibile parlare dell'essere come se fosse un sostantivo. Il senso è quello che ho detto: risultato di un processo di astrazione.
Pensavo ti riferissi al verbo "coniugabile", non alla sua forma di infinito sostantivato (la cui "costruzione", nel caso del verbo essere, non mi pare peculiare rispetto agli altri verbi...). Il processo di astrazione si basa comunque sul senso dell'infinito del verbo (la cui definizione resta quindi cruciale).

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
se sono inciampato vuol dire che non ci stavo pensando e quindi la pietra esisteva quando io non pensavo ad essa.
Forse non esisteva prima che la percepissi, direbbe qualcuno... (ok, qui faccio l'avvocato del diavolo ;) ).
Infatti, non la penso ma la sento, ovvero la sua esistenza dipende per me dal mio sentire (fuori dai miei sensi e dal mio pensiero, non posso fare asserzioni di esistenza). In questo senso dicevo:
Citazione di: Phil il 02 Marzo 2018, 17:13:32 PM
Per poter parlare di quella pietra (e della sua oggettività) senza pensarla, dobbiamo almeno percepirla... [...] Tale oggettività risulta dunque sempre soggettiva (pensata o percepita che sia).


Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
la pietra, alla prova dei fatti, dimostra di esistere senza bisogno che io debba pensarla.
La pietra non fa né dà dimostrazioni (suvvia, non umanizziamola, altrimenti passiamo dalla filosofia alla letteratura  ;D ) sono sempre io a poter parlare della sua esistenza, pensandola o percependola (almeno, non vedo altri canali...).

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
non è possibile stabilire distanze nel tempo. Cioè, non possiamo dire "la memoria può tradirmi solo oltre una settimana; se è passata meno di una settimana ho la certezza di ricordare alla perfezione". No: se stabiliamo che la memoria può tradirci, ne consegue che essa può tradirci anche nell'arco di un milionesimo di secondo.
Distinguerei attentamente il "ricordare" dal "pensare". "Penso a una carta" non è "ricordo una carta".
Inoltre, (anche a me, come a Sgiombo, è tornato in mente quell'enigmista di Zenone!) nel parlare di infinita divisibilità del tempo o di milionesimi di secondo, non dovremmo mettere totalmente da parte i "limiti strutturali" dell'essere umano: i milionesimi di secondo esistono solo razionalmente, sulla carta, ma non possono essere percepiti-vissuti coscientemente... se un display me ne mostrasse il fluire in tempo reale, io non vedrei nulla (troppo veloci!), e ovviamente non li identificherei se provassi a contarli (pronuncia troppo lenta!).
Non credo sia possibile avere coscienza del milionesimo di secondo, né tantomeno memoria: fra un milionesimo di secondo e un altro, il mio corpo è quasi immobile, quasi identico al milionesimo di secondo precedente (si sarà mosso al massimo qualche elettrone, o comunque niente di cui io sia minimamente cosciente... oppure è tutta una questione di lentezza percettiva personale?  ;D ).
Mi sembra quindi che ci sia un "tempo minimo" sotto il quale non abbiamo ancora memoria (ma non chiedermi qual'è la sua unità di misura, se siano secondi o decimi...) e tale tempo minimo sancisce la differenza fra pensiero-presente e memoria-presente del passato (differenza squisitamente umana, dovuta al "ritmo" della sua biologia).

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
Ne consegue che non si tratta solo del fatto che io non posso mai essere certo di cosa ho pensato; si tratta del fatto che non posso mai essere certo neanche di cosa sto pensando, perché anche nel presente è pur sempre questione di memoria. [...] Se posso essere tradito dalla memoria, significa che posso essere tradito anche nel contare una sola carta. Ecco quindi la conclusione terribile: non possiamo mai stabilire di star pensando davvero ciò che ci sembra di star pensando.
L'incertezza radicale su cosa sto pensando, nell'atto presente ed (auto)evidente di pensarlo, è inattuabile (se non inattendibile), sia in teoria che in pratica: in teoria, se dovessi dubitare di aver davvero pensato alla "donna di fiori" (l'8 marzo si avvicina  ;) ), dovrei poi dubitare anche di aver davvero pensato di dubitare di aver pensato quella carta, e così via... in pratica, ciò comporterebbe uno stallo catatonico in cui il mio pensiero non sarebbe in grado di guidare un solo gesto, restando intento a dubitare del suo medesimo pensarsi (in una spirale paranoica, inibitoria dell'azione). Se invece fosse un esterno a dirmi che in realtà io non pensavo alla carta, perché non dovrei dubitare anche di lui? E via con altre catene infinite e autoreferenziali di dubbi "esponenziali"...
Direi che l'autoevidenza del pensiero presente (al di sotto del suddetto "tempo minimo") possiamo serenamente lasciarla fuori dal dubbio, almeno se vogliamo continuare a vivere fuori dal manicomio  ;D

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
Infatti tu hai parlato di evidenza. Ma l'evidenza, di fronte alle esigenze severissime della filosofia, non ha alcun valore.
Le "esigenze severissime" le ha la metafisica classica (mossa dalla fede in utopiche perfezioni e assolute trascendenze), mentre la filosofia attuale può essere, di diritto e di fatto, anche più "bonacciona" e "giocosa".
Sostenere che "l'evidenza non ha alcun valore" significa non poter fondare alcuna filosofia (allora, da dove si parte?), e men che meno una qualsivoglia epistemologia (per cui si riaffaccia l'ipotesi della letteratura  ;) ).
Problematizzare l'evidenza, indagandone il valore (senza negarlo), significa fare filosofia (almeno secondo me... e anche secondo Marleau Ponty: "il filosofo deve avere il gusto dell'evidenza e il senso dell'ambiguità").

Angelo Cannata

Credo che si creino dei fraintendimenti nel discorso, sempre dovuti alla questione di trattare la filosofia da un punto di vista storico.

Voglio dire, quando parlo della pietra che mi fa inciampare, mi sto riferendo a un modo di trattare la questione che si pone come modo iniziale, cioè intuitivo, esperienziale, in una fase in cui non c'è ancora una riflessione critica. Se queste mie affermazioni vengono invece trattate situandole in un contesto di affermazioni di principio, a cui si richiede applicazione del senso critico, coerenza logica, precisione assoluta di significati, è logico che vengono fraintese.

Ora, per me questo è cruciale, cioè un sacco di questioni vengono fraintese proprio perché non vengono situate nel loro contesto di severità oppure di intuizione esperienziale non riflessa. Ma la filosofia è questo: essa è sempre un decorso dal non riflesso al riflesso; l'esperienza che facciamo di una pietra, sia nella nostra storia personale che in quella della filosofia mondiale, non nasce immediatamente corredata di osservazioni critiche radicali. È questo che mi permette di dire che la pietra dimostra la sua esistenza oggettiva, indipendente dal mio pensare, facendomi cadere. La critica radicale sull'essere è il punto di arrivo del processo e non può essere applicata al punto di partenza; sarebbe come chiedere all'uomo preistorico, che creava le sue pitture rupestri, come mai non si chiedeva se i bisonti che dipingeva esistessero davvero.

Ciò non va confuso con il riferimento che hai fatto alla fine sulla filosofia giocosa. Se la filosofia attuale sceglie di essere più bonacciona, quest'atteggiamento è tutt'altro rispetto all'imprecisione critica che possiamo riscontrare nell'uomo primitivo. Al contrario, essa prende la via di essere bonacciona proprio per un'esigenza critica ancora più radicale rispetto a quella riscontrata nella metafisica; quindi si tratta di un essere bonacciona che in realtà è attentissimo a misurare al millimetro ogni parola che usa e ogni senso comunicato.

sgiombo

Citazione di: Phil il 03 Marzo 2018, 16:42:38 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AMForse non esisteva prima che la percepissi, direbbe qualcuno... (ok, qui faccio l'avvocato del diavolo ;) ).


CitazioneInfatti non esisteva (in quanto insieme delle sensazioni che la costituiscono; e che quando non la percepisco, ovvero non la sento, non ci sono; e dunque, essendone costituita, non c' é la pietra).
Se qualcosa c' é anche allora (allorché non accadono le sensazioni "della" -ovvero: costituenti la- pietra, per non cadere in contraddizione, dobbiamo pensare che si tratta di altro che le sensazioni (fenomeniche) costituenti la pietra che non stanno accadendo, di qualcosa si diverso da esse, qualcosa di "in sé", non sensibile (non apparente ai sensi; dal greco: non fenomeni) ma solo congetturabile (dal greco: noumeno).


Ma qui stiamo forse andando fuori tema...

Distinguerei attentamente il "ricordare" dal "pensare". "Penso a una carta" non è "ricordo una carta".
Inoltre, (anche a me, come a Sgiombo, è tornato in mente quell'enigmista di Zenone!) nel parlare di infinita divisibilità del tempo o di milionesimi di secondo, non dovremmo mettere totalmente da parte i "limiti strutturali" dell'essere umano: i milionesimi di secondo esistono solo razionalmente, sulla carta, ma non possono essere percepiti-vissuti coscientemente... se un display me ne mostrasse il fluire in tempo reale, io non vedrei nulla (troppo veloci!), e ovviamente non li identificherei se provassi a contarli (pronuncia troppo lenta!).
Non credo sia possibile avere coscienza del milionesimo di secondo, né tantomeno memoria: fra un milionesimo di secondo e un altro, il mio corpo è quasi immobile, quasi identico al milionesimo di secondo precedente (si sarà mosso al massimo qualche elettrone, o comunque niente di cui io sia minimamente cosciente... oppure è tutta una questione di lentezza percettiva personale?  ;D ).
Mi sembra quindi che ci sia un "tempo minimo" sotto il quale non abbiamo ancora memoria (ma non chiedermi qual'è la sua unità di misura, se siano secondi o decimi...) e tale tempo minimo sancisce la differenza fra pensiero-presente e memoria-presente del passato (differenza squisitamente umana, dovuta al "ritmo" della sua biologia).
CitazioneQui siamo perfettamente in tema e concordo pienamente.

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
Ne consegue che non si tratta solo del fatto che io non posso mai essere certo di cosa ho pensato; si tratta del fatto che non posso mai essere certo neanche di cosa sto pensando, perché anche nel presente è pur sempre questione di memoria. [...] Se posso essere tradito dalla memoria, significa che posso essere tradito anche nel contare una sola carta. Ecco quindi la conclusione terribile: non possiamo mai stabilire di star pensando davvero ciò che ci sembra di star pensando.
L'incertezza radicale su cosa sto pensando, nell'atto presente ed (auto)evidente di pensarlo, è inattuabile (se non inattendibile), sia in teoria che in pratica: in teoria, se dovessi dubitare di aver davvero pensato alla "donna di fiori" (l'8 marzo si avvicina  ;) ), dovrei poi dubitare anche di aver davvero pensato di dubitare di aver pensato quella carta, e così via... in pratica, ciò comporterebbe uno stallo catatonico in cui il mio pensiero non sarebbe in grado di guidare un solo gesto, restando intento a dubitare del suo medesimo pensarsi (in una spirale paranoica, inibitoria dell'azione). Se invece fosse un esterno a dirmi che in realtà io non pensavo alla carta, perché non dovrei dubitare anche di lui? E via con altre catene infinite e autoreferenziali di dubbi "esponenziali"...
Direi che l'autoevidenza del pensiero presente (al di sotto del suddetto "tempo minimo") possiamo serenamente lasciarla fuori dal dubbio, almeno se vogliamo continuare a vivere fuori dal manicomio  ;D
CitazioneBen detto!

Citazione di: Angelo Cannata il 03 Marzo 2018, 00:58:24 AM
Infatti tu hai parlato di evidenza. Ma l'evidenza, di fronte alle esigenze severissime della filosofia, non ha alcun valore.
Le "esigenze severissime" le ha la metafisica classica (mossa dalla fede in utopiche perfezioni e assolute trascendenze), mentre la filosofia attuale può essere, di diritto e di fatto, anche più "bonacciona" e "giocosa".
Sostenere che "l'evidenza non ha alcun valore" significa non poter fondare alcuna filosofia (allora, da dove si parte?), e men che meno una qualsivoglia epistemologia (per cui si riaffaccia l'ipotesi della letteratura  ;) ).
Problematizzare l'evidenza, indagandone il valore (senza negarlo), significa fare filosofia (almeno secondo me... e anche secondo Marleau Ponty: "il filosofo deve avere il gusto dell'evidenza e il senso dell'ambiguità").
CitazioneSecondo me in ogni tempo una buona filosofia deve cercare la massime evidenza possibile col massimo di rigore e severità possibile.
Criticamente, senza pretendere l' impossibile e dunque rendensìdosi ben conto dei limiti di ogni evidenza acquisibile.

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