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Che cos'è la verità?

Aperto da maral, 24 Maggio 2016, 15:17:26 PM

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davintro

Rispondo a Maral:

Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale

Io non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale. Questo perchè il rivolgersi intenzionale verso un tema presuppone una condizione di distacco tra me come soggetto dell'atto di rivolgersi e il tema verso cui mi rivolgo. Se io coincidessi pienamente con il tema non sarebbe possibile il rivolgersi intenzionale, giacchè io sarei già da sempre nel tema senza nessun tendere verso esso, di fatto senza nessun dinamismo della mia vita interiore: la coincidenza indica sempre staticità. L'angoscia non coincide con la mia essenza di Io puro soggettivo in quanto il mio essere angosciato non era in me nel passato e potrei non esserlo più in futuro, l'essere angosciato è una mia accidentalità, la mia coscienza è un susseguirsi temporale di diversi vissuti psichici, dalla tristezza, alla rabbia, alla serenità, alla gioia tutti provenienti dal mio io. Il mio Io si concretizza nell'essere la fonte originaria del complesso di queste esperienze, ma è autonomo da ciascuno di essi e ciò permette il passaggio da uno all'altro, nessuno di essi è per me l'unico possibile: ciò è la conseguenza della distinzione tra l'Io puro come soggetto e i contenuti di questi vissuti, oggetti da cui l'Io può distogliersi o tendere verso essi, non si esaurisce in nessuno di essi. Non solo: se l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza: l'esperienza insegna che ogni sofferenza presuppone l'idea della possibilità del suo superamento: la rassegnazione ci restituisce la serenità. Perchè l'angoscia provochi sofferenza è necessario pensarla come accompagnata dal riconoscimento di un'alternativa, una condizione di serenità, riconoscimento che mi fa soffrire proprio perchè indica l'alternativa di una serenità possibile ma non ancora reale. E nel semplice ammettere la possibilità dell'alternativa la mente soggettiva mostra il suo non essere mai del tutto assorbita nel suo vissuto attualmente presente, mostra la sua trascendenza da esso. Proprio perchè logica e fenomenologia, pur distinte, non sono del tutto separabili non si può ridurre la logica a una grammatica astratta, ma la si deve porre come struttura trascendentale imperniata sulla dialettica soggetto-oggetto che interviene sulla fenomenologia fissando i confini delle possibilità di questa. Io non posso effettuare una fenomenologia, cioè una descrizione intuitiva di un cerchio quadrato, proprio perchè è un concetto che la logica mi impone come autocontradditorio, cioè insensato. E la stessa logica mi impone di pensare ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso

Maral scrive:
"il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia."

Perchè? Riflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa

Mi associo alle ultime affermazioni di Sgiombo sulla reciproca dipendenza di giudizi e sentimenti

acquario69

#46
Maral scrive:
"il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia."

davintro Risponde:
Perché ? Riflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante.


qui secondo me si e' toccato un punto fondamentale.
infatti a mio avviso subentra un fattore chiave e che attraverso il "ricordo" questo svela l'essenza che rimaneva nascosta.

ma non e' il ricordo inteso come semplice processo mentale,scansione di informazioni lineari meramente soggettive e percio evocazioni della propria fantasia individuale..

bensì e' la memoria dello Spirito che riemerge e che e' sempre presente, (in noi) fuori dal tempo e dallo spazio (che rievoca percio il ricordo in senso oggettivante,cioè puro) e che sta appunto al di la del soggetto stesso e del suo apparire fenomenologico..ed e' solo questo il ricordo e che ci restituisce all'eterno presente,quindi alla Coscienza (Reale,non soggettiva!) e alla Verita

maral

Citazione di: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).
Certamente, ma non si tratta a mio avviso di stabilire il significato che diamo alle parole, ma di tradurci le parole nel significato che in esse possiamo sentire diversamente. Certamente che per iniziare a capirsi non si può che partire da un linguaggio comune, ma è solo un punto di partenza da cui occorre scendere per intendere quali assunzioni lo reggano.
Non ti sto chiedendo di dimostrare che i fatti possono essere reali o no, mentre i predicati, predicando di quei fatti, possono essere veri o falsi, ti sto chiedendo di provare a uscire dalla logica che vuole, secondo quanto comunemente si impara, che le cose stiano così per cogliere l'aspetto fenomenologico della questione (aspetto che ci riguarda tutti, perché è così che sentiamo): se mi do una martellata sul dito non ho dubbi che il mio dolore è reale e insieme è vero, non distinguo il fatto (martellata) dal predicato (dolorosa) per giudicare poi se è corretto o no metterli insieme. Ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi in base a quale assunzione dici e si dice che  "Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze", su cosa appoggia questo modo di dire e non può appoggiarsi sul "si" del si dice. E se quella distanza tra fatto e predicato che va istituita per misurarne la congruenza, va proprio sempre istituita, per esprimere un giudizio di verità, oppure la verità (e non solo la realtà) si esprime anche immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima che da qualsiasi giudizio? In sostanza: la verità può essere data solo da giudizi formalmente ben costruiti su confronti che pretendono di essere esclusivamente oggettivi o dall'evidenza del suo svelarsi (aletheia)?
E nota che quello che ti chiedo qui è un giudizio, ma è un giudizio che sa giudicarsi, ossia sa riconoscere se vi sono dei limiti o no nella sua pretesa di istituire la verità nella sola analisi dei predicati.   


maral

Citazione di: davintro il 08 Giugno 2016, 00:28:59 AM
Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale
Certo e soprattutto vedere come quanto ne discende possa lasciare intendere sul significato di quella definizione. Il problema è che proprio per l'intenzione sacrosanta di potersi capire si rischia di finire in una sorta di logicismo (in cui la verità non può che apparire come rispetto sintattico) ove la definizione data dal senso comune finisce per apparire una sorta di intoccabile feticcio-cardine. Ma non il lasciar lì il feticcio il compito filosofico, se ancora può esistere una filosofia, e men che meno in nome del senso comune. Il compito filosofico è in primo luogo non cessare mai di mettere in crisi qualsiasi definizione, e soprattutto quelle del senso comune che facciamo nostre. Mettere in crisi non significa contestarle, ma tentare di capirle nel significato effettivo, oltre la loro convenzionalità assiomatica. Qui sta da sempre (e oggi più che mai) il compito e il senso della filosofia, altrimenti non resta che il mito (mito della scienza e mito della razionalità compresi) nella sua forme più superstiziose (scientismo, razionalismo).
CitazioneIo non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale
Non sei la tua angoscia adesso, perché ora non c'è angoscia e giudichi su di essa. L'angoscia non c'è per questo puoi dire "io non sono la mia angoscia", per questo la puoi vedere come una sorta di oggetto che sta fuori e qualche volta entra dentro a quel qualcosa che sono io, senza accorgerti dell'assurdità di questo modo di vedere. Nel momento in cui provi angoscia sei la tua angoscia, in un modo primitivo e assoluto che ne possiede tutta la verità (e lo stesso vale per la gioia). Nel momento in cui valuti il tuo sentimento vero o falso quel sentimento non c'è, ci sei tu e fuori di te, altrove, l'oggetto da valutare (per intenzionalmente escluderlo da te o riappropriartene), ma questa è cosa tutta diversa.
La coincidenza non indica assolutamente staticità, ma completa aderenza e in questa aderenza sta proprio quella verità che non è semplicemente l'espressione di un giudizio tra termini opposti che solo si possono escludere tra loro evitando cerchi quadrati. Nel giudizio che si instaura sulla separazione tra io giudicante e oggetto giudicato c'è un senso radicalmente diverso della verità che non può mai annullare lo svelamento originario, ma vuole annullarlo per lasciare spazio a una propria intenzionalità in nome della quale trattenersi in un Io che si crede "fonte originaria del complesso di queste esperienze", estromettendole da sé, inquadrandole come un vissuto (un accaduto finito) e non più sentendole come un vivente (un perennemente accadente). La condizione di esistere è in ogni accadere e pure (per l'essere umano) nell'accadere del momento del giudizio che esprime sempre una volontà di essere del soggetto e quindi non è mai oggettivo.
Citazionese l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza
L'angoscia solamente accade, è data dall'accadere del nostro esserci individuale e separato, è all'alba di una coscienza che sorgendo si sente delocalizzata, proprio come la gioia che esprime invece il poter venire ricompreso in questa stessa delocalizzazione. L'io è solo una labile immagine intermedia che tenta di vivere in questa oscillazione, in nome della volontà, come l'equilibrista sul filo. E qui entra in gioco il ricordo: quando l'io scopre di potersi ricordare, si aggrappa ai ricordi per darsi consistenza (a mezzo di un dare consistenza a ciò che gli manca), e per far questo occorre assicurarsi che ci sia la consistenza certa della verità in merito a qualcosa che non è più presente e qui entra in gioco il giudizio e a questo punto la verità- aletheia si trasforma in verità- giudizio sull'oggetto del proprio ricordo e della propria aspettativa, appunto perché quell'oggetto non c'è, c'è solo il ricordo e l'aspettativa che lo velano.
In questo senso la dialettica non è tra soggetto e oggetto, ma nello stesso originario e primo accadere del mondo che istituisce ogni soggetto e ogni oggetto per rimetterli in rapporto dialettico. Non è la logica che impone di pensare "ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso", ma è il disperato tentativo dell'io che vuole permanere sempre oltre ogni logica.

CitazioneRiflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa
L'intensità del sentimento è data, nel momento in cui si riflette su di esso, dalla mancanza di quel sentimento di cui quel riflettere è rievocazione. In questo senso noi sentiamo sempre, poiché sentiamo sia la presenza che la mancanza e la mancanza evoca la presenza. Per questo pensare non è mai separato dal sentire. Non è che con la riflessione attenuo l'intensità del sentire, ma è solo quando l'intensità di quel sentire si presenta attenuato (poiché il mondo lo accoglie) che riflettere ci diventa possibile. Si può riflettere allora su ciò che di esso resta, su di un resto (ma quanto quel resto corrisponde proprio a quel sentire? E' qui che ci si sente chiamati a giudicare e lo stesso giudicare a questo punto è un accadere). 

sgiombo

Citazione di: maral il 08 Giugno 2016, 10:31:12 AM
Citazione di: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).
Certamente, ma non si tratta a mio avviso di stabilire il significato che diamo alle parole, ma di tradurci le parole nel significato che in esse possiamo sentire diversamente. Certamente che per iniziare a capirsi non si può che partire da un linguaggio comune, ma è solo un punto di partenza da cui occorre scendere per intendere quali assunzioni lo reggano.
Non ti sto chiedendo di dimostrare che i fatti possono essere reali o no, mentre i predicati, predicando di quei fatti, possono essere veri o falsi, ti sto chiedendo di provare a uscire dalla logica che vuole, secondo quanto comunemente si impara, che le cose stiano così per cogliere l'aspetto fenomenologico della questione (aspetto che ci riguarda tutti, perché è così che sentiamo): se mi do una martellata sul dito non ho dubbi che il mio dolore è reale e insieme è vero, non distinguo il fatto (martellata) dal predicato (dolorosa) per giudicare poi se è corretto o no metterli insieme. Ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi in base a quale assunzione dici e si dice che  "Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze", su cosa appoggia questo modo di dire e non può appoggiarsi sul "si" del si dice. E se quella distanza tra fatto e predicato che va istituita per misurarne la congruenza, va proprio sempre istituita, per esprimere un giudizio di verità, oppure la verità (e non solo la realtà) si esprime anche immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima che da qualsiasi giudizio? In sostanza: la verità può essere data solo da giudizi formalmente ben costruiti su confronti che pretendono di essere esclusivamente oggettivi o dall'evidenza del suo svelarsi (aletheia)?
E nota che quello che ti chiedo qui è un giudizio, ma è un giudizio che sa giudicarsi, ossia sa riconoscere se vi sono dei limiti o no nella sua pretesa di istituire la verità nella sola analisi dei predicati.
CitazioneInvece io se mi do una martellata su un dito non ho dubbi che il mio dolore è reale (=so che il mio dolore è reale; e questa è conoscenza vera); mentre il mio reale dolore, per fortissimo, insopportabile che sia, non è vero, ma semplicemente accade.
 
Non riesco a capire come tu non possa renderti conto della differenza!
 
Quando io mi do la martellata sul dito e il mio dolore è realissimo e fortissimo, oltre a me anche tu puoi benissimo affermare la verità che io mi do una martellata sul dito e provo un dolore fortissimo; ma a te al massimo può dispiacere ("moralmente") per compassione o empatia verso di me, ma non provi alcun dolore fisico: la verità ("Sgiombo prova un dolore fisico fortissimo" può essere -propria di una tale affermazione- tanto mia quanto tua), ma il fatto è solo e unicamente mio (e viceversa).
 
Immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima di qualsiasi giudizio può darsi un fatto (il mio dolore); mentre la conoscenza di esso può darsi solo in (un ulteriore fatto costituito da) un predicato ("ho dolore"): ma come fai a non renderti conto della differenza fra questi due differenti fatti (l' evento "dolore" e la conoscenza dell' evento "dolore")?
 
"Si svelano" (appaiono; sono reali; oppure non appaiono, non sono reali) determinati eventi fenomenici (di coscienza); ben distinguibili da quegli altri peculiari fatti fenomenici di coscienza che sono (eventualmente) i predicati (veri; oppure falsi) dello "svelarsi" (apparire, essere reali) di quei determinati eventi fenomenici (di coscienza) "di cui sopra".
Ancora una volta non posso non chiedermi e chiederti:
 
ma come fai a non cogliere la differenza?

maral

Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM

ma come fai a non cogliere la differenza?
La colgo la differenza, ma, come ho già detto sopra, quella differenza posso coglierla solo quando quel dolore (o più in generale quell'accadere) non è più presente, non c'è più, ossia quando è presente la sua assenza, è presente non come accadere, ma come già accaduto ed è su questa assenza che separo il dolore dalla conoscenza del dolore, mentre nell'evento esse sono simultaneamente insieme e indistinguibili per cui la verità è il modo stesso di apparire della realtà e non il risultato di un giudizio.
Il punto è che tutto il ragionamento che fate sia tu che davintro è situato nell'assenza dell'evento (e non può che esserlo nel momento in cui si intende giudicare la verità di ciò che di esso rimane ed è per questo che il giudizio di verità separa il significato dall'accadimento che, ormai accaduto, lascia quel significato, ma non è quel significato), ma questa non è l'esperienza di verità che si attua nell'evento e dire che questa non è verità, poiché la verità sta solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si dice quando non c'è più, quando resta presente solo un pallido richiamo su cui è più che lecito avere dubbi) è, a mio avviso del tutto arbitrario, per quanto così consideri un certo senso comune.

sgiombo

Citazione di: maral il 09 Giugno 2016, 09:38:32 AM
Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM

ma come fai a non cogliere la differenza?
La colgo la differenza, ma, come ho già detto sopra, quella differenza posso coglierla solo quando quel dolore (o più in generale quell'accadere) non è più presente, non c'è più, ossia quando è presente la sua assenza, è presente non come accadere, ma come già accaduto ed è su questa assenza che separo il dolore dalla conoscenza del dolore, mentre nell'evento esse sono simultaneamente insieme e indistinguibili per cui la verità è il modo stesso di apparire della realtà e non il risultato di un giudizio.
Il punto è che tutto il ragionamento che fate sia tu che davintro è situato nell'assenza dell'evento (e non può che esserlo nel momento in cui si intende giudicare la verità di ciò che di esso rimane ed è per questo che il giudizio di verità separa il significato dall'accadimento che, ormai accaduto, lascia quel significato, ma non è quel significato), ma questa non è l'esperienza di verità che si attua nell'evento e dire che questa non è verità, poiché la verità sta solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si dice quando non c'è più, quando resta presente solo un pallido richiamo su cui è più che lecito avere dubbi) è, a mio avviso del tutto arbitrario, per quanto così consideri un certo senso comune.
CitazioneNo, invece è possibilissimo contemporaneamente:
a)   sentire il dolore;
b)  predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
c)   sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!).
 
Dunque nell' accadere simultaneo dei (primi) due o anche dei tre eventi (tutti: durante la durata del dolore, che non è istantaneo ma prolungato nel tempo, avvengono –anche- le predicazioni, i pensieri di cui al punto "b" e al punto "c") essi sono simultaneamente insieme distinguibilissimi, ragion per cui la verità è una caratteristica (dell' apparire della realtà) del predicato o giudizio che afferma (l' apparire de-) il dolore.
 
 
Io e Davintro (se posso parlare anche a suo nome, per quanto lo intendo) non neghiamo affatto l' evento diciamo così "primario" (per esempio il sentire dolore; evento reale) per il fatto di distinguerlo dall' ulteriore, diverso evento, che vi può coesistere o meno, rappresentato dal (sentire) la predicazione (vera) dell' esistenza del dolore.
 
 
Ma un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) non ha alcun significato, non significa nulla, semplicemente accade.
Infatti per definizione solo i simboli (o insiemi variamente articolati e connessi di simboli; simboli verbali o di altro genere) e nessun altro genere di evento non simbolico significano qualcosa, hanno significati ("significato" = "ciò che è connotato da un simbolo; "evento non simbolico" = evento che non ha significato alcuno, che non significa alcunché").
 
 
Dire che un evento non simbolico non ha significato e che un evento non predicativo non può essere vero (o meno) ma casomai solo reale (o meno), poiché la verità sta (o meno) solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si può benissimo dire tanto quando non c'è più tanto quanto c' è ancora eccome!) è ovviamente del tutto arbitrario, come qualsiasi altro significato attribuito a qualsiasi altro insieme di parole convenzionalmente per definizione.
 
 
IL senso comune non c' entra.

maral

Citazione di: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
No, invece è possibilissimo contemporaneamente:
sentire il dolore;
predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!)
Sapere di sentire il dolore non è descriverlo a mezzo di predicati che ne presuppone l'oggettivazione e quindi l'uscita di quel dolore dal soggetto che lo sente e lo tiene di fronte a sé. Sapere di sentire il dolore è sì immediato e coincide con il sentirlo, ma non si attua in nessun discorso descrittivo.
Il dolore che ancora c'è mentre con il linguaggio posso descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore), quello che c'è è ciò che di esso è rimasto e che lo evoca, una traccia. E questa rievocazione può risuscitare certamente dolore a posteriori, ma è un dolore che nasce dalla rievocazione, dunque è evento diverso, non è ciò di cui si ritiene di predicare descrivendo.
Nel momento in cui si sente il dolore la coscienza si realizza nell'atto stesso in cui soggetto e oggetto sono la stessa cosa, se così non fosse dovremmo negare che chi non ha sviluppato una propria soggettività cosciente senta alcun dolore. E' l'osservatore che guarda questo accadere dall'esterno (cioè si pone all'esterno di questo accadere) che separa il soggetto dall'oggetto dell'esperienza per poter descrivere l'esperienza (come esperienza di un soggetto, di un io) e controllarla nell'oggetto.
Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché esso, quando c'è, è solo presente, la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa ed è su questa descrizione che si attua la distinzione (a opera dell'osservatore) tra vero e falso, non sull'accadere presente del dolore. 

Citazione... un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) non ha alcun significato, non significa nulla, semplicemente accade.
Accade, ma in questo accadere accade sempre e solo come significato, è il significato che accade, ove significare vuol dire precisamente "fare segno", accade come un segno, il suo accadere è presente come segno che comprende insieme soggetto e oggetto (a loro volta segni). Anche quel puro evento che presupponi anticipi ogni significato già significa, nel momento stesso in cui lo presenti, il suo significato che è proprio quello di essere paradossalmente un evento privo di significato. Anche il nulla (quando nulla accade) significa.

CitazioneDire che un evento non simbolico non ha significato e che un evento non predicativo non può essere vero (o meno) ma casomai solo reale (o meno), poiché la verità sta (o meno) solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si può benissimo dire tanto quando non c'è più tanto quanto c' è ancora eccome!) è ovviamente del tutto arbitrario[/font][/size][/color], come qualsiasi altro significato attribuito a qualsiasi altro insieme di parole convenzionalmente per definizione.

Non c'è alcun evento privo di significato (nemmeno quel non evento assoluto che è il nulla) e non c'è alcun significato che sia attribuito arbitrariamente per definizione, poiché ogni definizione nasce dal significato che la stabilisce e non è mai la definizione che dà i significati, ma solo l'evento che già si presenta come significato.

Ovviamente tutto questo lo posso dire solo in qualità di osservatore che tiene a distanza da sé l'evento per tentare di cogliere il significare come autentico, mentre vive il proprio evento descrittivo nel suo significare.

sgiombo

#53
Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 13:52:23 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
No, invece è possibilissimo contemporaneamente:
sentire il dolore;
predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!)
Sapere di sentire il dolore non è descriverlo a mezzo di predicati che ne presuppone l'oggettivazione e quindi l'uscita di quel dolore dal soggetto che lo sente e lo tiene di fronte a sé. Sapere di sentire il dolore è sì immediato e coincide con il sentirlo, ma non si attua in nessun discorso descrittivo.
Il dolore che ancora c'è mentre con il linguaggio posso descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore), quello che c'è è ciò che di esso è rimasto e che lo evoca, una traccia. E questa rievocazione può risuscitare certamente dolore a posteriori, ma è un dolore che nasce dalla rievocazione, dunque è evento diverso, non è ciò di cui si ritiene di predicare descrivendo.
Citazione
Se continui a pretendere che:

sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;

non si può (o meno) sapere di avere un' esperienza (per esempio quella di sentire il dolore) mentre la si sente (oltre ovviamente al sentirla);

sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) immediatamente coincide (come invece non è in lingua italiana: in lingua italiana è altra cosa!) con la realtà del qualcosa (nell' esempio la realtà del sentire il dolore) anziché essere (come invece è in lingua italiana) descriverlo e affermarlo essere reale mediante un discorso vero (= conforme alla realtà);

che (al contrario della logica: autocontraddittoriamente) Il dolore che ancora c'è (= è ancora autenticamente presente come dolore) mentre con il linguaggio puoi descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore); ovvero come mi pare di capire, confondi il ricordo del dolore passato con la sensazione di dolore attualmente presente allorché puoi benissimo dire (o anche gridare o, o anche piangere = dire gridando, dire piangendo: "sento dolore");

che non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;

che autocontraddittorimente un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) anziché non avere alcun significato, non significare nulla, semplicemente accadere, allo stesso tempo in questo accadere accada sempre e solo come significato, è il significato che accade, ove significare vuol dire precisamente "fare segno", accade come un segno, il suo accadere è presente come segno che comprende insieme soggetto e oggetto (a loro volta segni);

che (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi
il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];

Che Non c'è alcun evento privo di significato (nemmeno quel non evento assoluto che è il nulla) e non c'è alcun significato che sia attribuito arbitrariamente per definizione (come invece è in lingua italiana), poiché ogni definizione nasce dal significato [preesistente alla definizione stessa, cioè alla stipulazione del significato, N.d.R] che la stabilisce e non è mai la definizione che dà i significati, ma solo l'evento che già si presenta come significato,

allora non mi è possibile dialogare con te (conosco l' italiano e un po' l' inglese, ma per nulla il maralese, e so ragionare unicamente secondo la logica dell' identità/non contraddizione e della coerenza).
Nel momento in cui si sente il dolore la coscienza si realizza nell'atto stesso in cui soggetto e oggetto sono la stessa cosa, se così non fosse dovremmo negare che chi non ha sviluppato una propria soggettività cosciente senta alcun dolore. E' l'osservatore che guarda questo accadere dall'esterno (cioè si pone all'esterno di questo accadere) che separa il soggetto dall'oggetto dell'esperienza per poter descrivere l'esperienza (come esperienza di un soggetto, di un io) e controllarla nell'oggetto.
Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché esso, quando c'è, è solo presente, la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa ed è su questa descrizione che si attua la distinzione (a opera dell'osservatore) tra vero e falso, non sull'accadere presente del dolore.  

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).

Le tue parole circa la distinzione fra soggetto e oggetto di sensazione e di (sensazione interiore) di pensiero (eventualmente vero = conoscenza), che nel caso di sensazioni interiori (di se stessi) o di conoscenze circa se stessi di fatto viene meno (soggetto ed oggetto identificandosi) riguardano altro, non sono attinenti la questione della differenza fra fatti (in generale) e (fatti peculiari costituiti da) conoscenze dei fatti.

Se fosse vero che Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede.



maral

Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;[/font]
Non farne una questione linguistica, Sgiombo, non sto parlando in nessun marallese oscuro: sapere una cosa non implica né in lingua italiana, né in qualsiasi altra lingua saperla descrivere a mezzo dei predicati di quella lingua o di una qualsiasi altra. I predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto. E l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Il dolore che c'è mentre lo descrivo in oggetto non è (e non può essere in nessuna lingua) il dolore che veramente si sente significare mentre accade ed è questo che pone il problema della verità che si riferisce alla mimesi della descrizione, non certo al dolore che sento.


Citazioneche non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;
Il dolore c'è nel momento in cui lo sento, e questo momento è proprio il suo presente accadere, come ogni accadimento c'è solo nel presente finché c'è. E' la descrizione che ha bisogno di un tempo e nella descrizione quel dolore sentito è messo fuori da me che lo sento (in quello spazio in cui mi aspetto che qualcuno possa accoglierlo nel suo significare per assumerlo e prendersene cura). Il dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere. (non so se noti, ma sto parlando in lingua italiana stretta, giacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)   

Citazioneche (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi [/font][/size][/color]il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];
Il "non piovere adesso" è un significato che esprime esattamente l'accadere reale, vero e positivo del "non piovere adesso", è l'accadere di una negazione.
"Nulla accade" esprime esattamente questo evento "nulla accade" nel suo significato evidente (in lingua italiana) e "nulla" (nulla è) ha significato per quanto contraddittorio: esprime l'accadere del non accadere, l'accadere della contraddizione di questo accadere (dato che anche la contraddizione del nulla accade positivamente e accade significando esattamente ciò che significa per chiunque la senta, in qualsiasi lingua la senta espressa).
I significati non si stipulano, non c'è né mai stato un luogo dove si stipulano significati, ciò che si stipulano possono essere (a livello di linguaggi formali) delle definizioni, ossia dei segni che per convenzione più o meno evocano un accadere già significante (finché lo evocano, cosa che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari) per renderli descrivibili, ma il loro significare non sta nella definizione ed è di questo significare che si va in cerca facendo filosofia, magari anche interrogandosi sul senso delle definizioni con cui sono stati via via espressi, ma non prendendo le definizioni come base originaria dei significati.
Il significato del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia) viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione ed è per questo che ne possiamo parlare tentando di riflettere su come le definizioni traducono questo significato (cosa davvero mettono in luce e cosa nascondono della verità che accade)

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore, ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).
Ed è esattamente la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore (o anche la gioia di cui si potrebbe ugualmente parlare per tirarsi su in questa discussione) che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).


CitazioneSe fosse vero che [/size]Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede.
Nessuna pacchia purtroppo, perché quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).



Phil

#55
Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMI predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto.
Non sempre c'è uno scarto temporale fra il linguaggio e la realtà e/o uno scarto di vissuto fra il "protagonista" e il "narratore"; ad esempio: "Sta piovendo e mi bagno": realtà descritta in tempo reale da un'affermazione vera (anzi due!) dalla persona che sta esperendo il vissuto mentre lo descrive...

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PME l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Se per "vera" si intende "reale", per "significare" si intende "accadere" e per "significato" si intende "referente", sostituendo le tre parole, la frase diventa forse più precisa semiologicamente (non voglio "correggere con la penna rossa", solo suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e più standard...).
Un "significare" senza "segnificare" è soltanto legittimamente metaforico, e talvolta le metafore ci affascinano al punto da consolidarsi e non sembrare nemmeno più metafore...

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMIl dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere [...] la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore [...] che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).
[grassetto mio] Il dolore (della martellata) che percepisco è il mio dolore (altrimenti non potrei percepirlo sul mio pollice) e proprio nel percepirlo lo sento durare nel presente, e proprio nel sentirlo come mio dolore duraturo posso descriverlo al medico ("non mi passa!", oppure "adesso sta diminuendo..."). Ogni avvenimento è reale (non direi "vero") per chi lo vive: la coscienza, prima della mia memoria, esperisce i miei vissuti secondo le sue modalità; io non sono il mio dolore, io sono quella coscienza che sente quel dolore (la distinzione fra percipiente e percepito è ineliminabile, altrimenti smetterei per un attimo di avere autocoscienza e sarei solo un'impossibile "sensazione impersonale", "un vissuto di nessuno"...)

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMgiacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)
Per alcuni linguisti (con cui possiamo anche non concordare), se non erro, "significato" e "definizione" sono sinonimi, per cui la lingua crea significati e pensarli pre-esistenti alla lingua è contraddittorio... oppure per "significati" intendevi "referenti" (quelli si, pre-esistenti ed autonomi rispetto ad ogni lingua)?


Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PM quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza
Secondo me, si può discutere "dal di fuori" della verità del dolore (magari sto fingendo...), e  non si può discutere sulla realtà del mio lamentarmi, in quanto accadere, per me e per gli eventuali altri, poiché di fatto, urlo o mi lamento etc. voler esprimere giudizi su questa realtà manifesta, porta al bivio "verità/falsità" (a farla breve, direi che tutto ciò che vivo-esperisco è per me "reale", non "vero"... ma forse è solo una questione di vocabolario personale).

Sul "dove" si ponga la verità (criterio del "vero") nel comunicare, o meglio, dove possa essere posta, propongo un'immagine:

chiaramente, per "referente" non va inteso solo un oggetto materiale, ma, in generale, l'oggetto dell'atto comunicativo (quindi anche un esperienza o un vissuto).
[Il triangolo della significazione di Ogden e Richards. Adattato da C. K. Ogden e A. Richards, The Meaning of Meaning: a study of the influence of language upon thought and of the science of symbolism, New York, Harcourt & Brace, 1938 [1923], p. 11)]

P.s. L'immagine forse è troppo piccola, ecco il link:
http://www.bmanuel.org/corling/ogden&Rich++_.jpg

maral

#56
Citazione di: Phil il 11 Giugno 2016, 23:07:21 PM
Se per "vera" si intende "reale", per "significare" si intende "accadere" e per "significato" si intende "referente", sostituendo le tre parole, la frase diventa forse più precisa semiologicamente (non voglio "correggere con la penna rossa", solo suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e più standard...).
Ringrazio innanzitutto Phil per le precisazioni semiotiche e parto da qui per alcune considerazioni.
La distinzione tra vero e reale è opportuna, come ho già detto a Sgiombo, ma nel contesto di verità come Aletheia, la verità non può essere assunta come il risultato di un giudizio sul discorso che predica la realtà. Qui a essere vero è il reale che si presenta svelandosi e in quanto semplicemente si svela, dunque non c'è un vero contrapposto a un falso di cui si è tenuti a dare giudizio, ma un vero che, in quanto svelamento, è contrapposto al nascosto che, nel suo svelarsi come nascosto, è parimenti vero. Falsa è quindi solo la negazione dello svelamento di ciò che si svela.
Per significare si intende accadere, non per sostituire un termine più appropriato a un altro, ma perché l'accadere è inseparabile dal significare, ossia le cose accadono sempre significando e significano accadendo, dunque accadere = significare, entrambi sono svelamento.
Per il discorso sul referente, non essendo un semiologo, mi rifaccio a quanto qui spiegato:http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=significato.html
In cui si dice, tra l'altro, che i termini di significato, significante e referente sono stati indicati in modo diverso e, in fig.3, indica che Frege denomina il referente proprio come "significato". Ma non è su una questione linguistica che intendo soffermarmi, bensì sul fatto che se il referente è "la realtà rappresentata dal segno" nell'ottica dello svelamento, se il segno svela (facendo segno, ossia segnificando), la realtà rappresentata dal segno è la realtà che si svela, dunque è proprio la verità (aletheia), di cui significato e significante sono momenti logici posti a posteriori dall'analisi dell'osservatore, che la valuta oggettivamente nel discorso (ossia estromettendola nel discorso posto in oggetto per l'analisi). Pertanto nell'esperienza della verità come svelamento referente, significato e significante coincidono, mentre vanno doverosamente distinti nella trattazione logica che ne fa l'osservatore allo scopo di chiarire una verità che a questo punto considera le modalità tecniche della sua comunicazione.
Ovviamente, si può sempre accettare o rifiutare la verità come aletheia e analizzarla solo nel suo aspetto   tecnico comunicativo, ma qui era appunto sulla verità come svelamento che intendevo soffermarmi.
(un aspetto che può essere interessante da approfondire in merito e che ora lascio solo accennato come tema può essere ad esempio come gioca la verità nella produzione artistica).

CitazioneIl dolore (della martellata) che percepisco è il mio dolore (altrimenti non potrei percepirlo sul mio pollice) e proprio nel percepirlo lo sento durare nel presente, e proprio nel sentirlo come mio dolore duraturo posso descriverlo al medico ("non mi passa!", oppure "adesso sta diminuendo..."). Ogni avvenimento è reale (non direi "vero") per chi lo vive: la coscienza, prima della mia memoria, esperisce i miei vissuti secondo le sue modalità; io non sono il mio dolore, io sono quella coscienza che sente quel dolore (la distinzione fra percipiente e percepito è ineliminabile, altrimenti smetterei per un attimo di avere autocoscienza e sarei solo un'impossibile "sensazione impersonale", "un vissuto di nessuno"...)
Certamente, ma l'emergere di un soggetto e di un oggetto è a posteriori (frutto di considerazioni logiche a posteriori che ne impongono una necessità a priori), ma non nel momento dell'apparire del dolore, del suo immediato originario svelarsi. Ovviamente nella possibilità o meno dell'apparire logico di un soggetto (io) a cui quel dolore appartiene come oggetto sta tutta la possibilità linguistica di descrivere quel dolore al medico o a chiunque altro, ma sempre su un piano logico descrittivo in cui un io viene per porsi come osservatore oggettivo del proprio dolore che non è più semplicemente sentito ed espresso, ma può essere spiegato e quindi interpretato. E' il piano di verità di un dolore spiegabile che necessita di un soggetto e di un oggetto che nella sensazione non ci sono ancora, perché c'è solo il dolore che si rende manifesto.
CitazionePer alcuni linguisti (con cui possiamo anche non concordare), se non erro, "significato" e "definizione" sono sinonimi, per cui la lingua crea significati e pensarli pre-esistenti alla lingua è contraddittorio... oppure per "significati" intendevi "referenti" (quelli si, pre-esistenti ed autonomi rispetto ad ogni lingua)?
Certo, nell'accezione che ne hai dato, intendo referenti (che peraltro abbiamo visto che Frege chiama significati), comunque basta intendersi.

Citazione...a farla breve, direi che tutto ciò che vivo-esperisco è per me "reale", non "vero"... ma forse è solo una questione di vocabolario personale.
D'accordo, ma in termini di aletheia, mi pare si possa dire che è vero come reale che si svela, cioè che si rende manifesto e in questo rendersi manifesto potrà determinarsi come oggetto di un soggetto.
Riprendendo il tuo esempio iniziale, se dico "sta piovendo e mi bagno" credo che siamo di fronte a uno svelamento che può costituire una descrizione (rivolta a qualcun altro per il quale magari non sta piovendo e non si bagna) oppure la semplice espressione di qualcosa che direttamente si manifesta. Nel primo caso la verità si pone nel triangolo che può darci il criterio alla base di una valutazione del discorso in termini di coerenza o non coerenza al reale, nel secondo è nel manifestarsi dell'evento stesso, ossia nell'apparire del reale nell'aspetto in cui appare.

Mi scuso per il mio discorso in qualche misura sempre ambiguo e oscuro, ma qui sto tentando di dire ciò che è essenzialmente indicibile, cosa che è certo una contraddizione, ma che non possiamo non voler tentare.

sgiombo

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PM
Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;[/font]
Non farne una questione linguistica, Sgiombo, non sto parlando in nessun marallese oscuro: sapere una cosa non implica né in lingua italiana, né in qualsiasi altra lingua saperla descrivere a mezzo dei predicati di quella lingua o di una qualsiasi altra. I predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto. E l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Il dolore che c'è mentre lo descrivo in oggetto non è (e non può essere in nessuna lingua) il dolore che veramente si sente significare mentre accade ed è questo che pone il problema della verità che si riferisce alla mimesi della descrizione, non certo al dolore che sento.

CitazioneA questo punto non insisto a farti notare le differenze fra essere ed essere saputo (in maniera sofisticata ovvero "linguisticamente", oppure in maniera immediatamente intuitiva ovvero "non verbale" che sia), fra reale e vero, né fra essere (in generale) e significare (essere significante): lascio il cimento ad altri volonterosi.

Citazioneche non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;
Il dolore c'è nel momento in cui lo sento, e questo momento è proprio il suo presente accadere, come ogni accadimento c'è solo nel presente finché c'è. E' la descrizione che ha bisogno di un tempo e nella descrizione quel dolore sentito è messo fuori da me che lo sento (in quello spazio in cui mi aspetto che qualcuno possa accoglierlo nel suo significare per assumerlo e prendersene cura). Il dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere. (non so se noti, ma sto parlando in lingua italiana stretta, giacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)  

CitazioneOvviamente ogni accadimento c'è [tempo presente] solo nel presente finché c'è; ma se si prolunga nel tempo (se ha una durata, fatto possibilissimo), allora c' era [tempo passato] anche prima e ci sarà [tempo futuro] anche poi.
E ogni dolore se dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi ha una durata di alcune ore (se invece fosse costantemente presente, allora avrebbe una durata infinita, cioè sarebbe eterno).

Se è vero, come è vero, che (in generale, "di regola", le definizioni dei concetti significati dalle parole sono sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di ridefinizione (secondo me possibile, non sempre e comunque necessaria, altrimenti si cadrebbe inevitabilmente in una Babele tale da impedire qualunque comunicazione), tuttavia ogni ridefinizione è comunque stabilita arbitrariamente, per convenzione: bisogna cercare di mettersi d' accordo (e cercare di stabilire se le lingue preesistono ai significati o viceversa mi sembra un po' come cercare di stabilire se sia nato prima l' uovo o la gallina).

Citazioneche (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi [/font][/size][/color]il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];
Il "non piovere adesso" è un significato che esprime esattamente l'accadere reale, vero e positivo del "non piovere adesso", è l'accadere di una negazione.
"Nulla accade" esprime esattamente questo evento "nulla accade" nel suo significato evidente (in lingua italiana) e "nulla" (nulla è) ha significato per quanto contraddittorio: esprime l'accadere del non accadere, l'accadere della contraddizione di questo accadere (dato che anche la contraddizione del nulla accade positivamente e accade significando esattamente ciò che significa per chiunque la senta, in qualsiasi lingua la senta espressa).
I significati non si stipulano, non c'è né mai stato un luogo dove si stipulano significati, ciò che si stipulano possono essere (a livello di linguaggi formali) delle definizioni, ossia dei segni che per convenzione più o meno evocano un accadere già significante (finché lo evocano, cosa che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari) per renderli descrivibili, ma il loro significare non sta nella definizione ed è di questo significare che si va in cerca facendo filosofia, magari anche interrogandosi sul senso delle definizioni con cui sono stati via via espressi, ma non prendendo le definizioni come base originaria dei significati.
Il significato del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia) viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione ed è per questo che ne possiamo parlare tentando di riflettere su come le definizioni traducono questo significato (cosa davvero mettono in luce e cosa nascondono della verità che accade)

CitazioneIl "non piovere adesso" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (= veracemente), il (fatto) reale e positivo (del) non piovere adesso (nota l' assenza delle virgolette), è l'accadere di un predicato negativo (= una negazione nel predicare, nel pensare): per lo meno in linea di principio le stesse cose si possono dire, pensare, predicare tanto in forma positiva, quanto in forma negativa (mentre le "cose", gli enti ed eventi reali possono realmente o accadere oppure non accadere: fra il dire o pensare in forma positiva o negativa sussiste una differenza puramente formale, mentre fra l' accadere e il non accadere realmente sussiste una ben diversa differenza reale, ontologica).
E "Nulla accade" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (ma falsamente) questo evento che nulla accade (nota l' assenza delle virgolette) nel suo significato (del predicato! E non della realtà!) evidente (in lingua italiana); e che è falso ma non contraddittorio (sarebbe contraddittorio casomai "nulla accade e contemporaneamente accade qualcosa").

Ciò che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari è l' accadere reale dei fatti (l' esistere reale delle cose) o meno, e non i significati delle parole.
Il fatto del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia; e non il significato della parola "dolore") viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione; ma con le parole possiamo benissimo parlare anche di enti ed eventi inesistenti, irreali (come per esempio minotauri, chimere, imprese di Ercole ecc.), attribuendo alle (stipulando per le) parole anche significati che non denotano alcunché di venuto prima, né che mai verrà (presumibilmente) dopo di esse.

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore, ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).
Ed è esattamente la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore (o anche la gioia di cui si potrebbe ugualmente parlare per tirarsi su in questa discussione) che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).

CitazioneUn conto sono soggetto e oggetti del sentire, altra cosa sono soggetto e oggetti del (sentire di) pensare o predicare o anche sapere di sentire; anche se soggetto di sentire e soggetto di (sentire di) sapere possono (ma non devono necessariamente) coincidere: si può pensare, predicare, sapere di se stessi (e anche contemporaneamente a ciò che accade o si sente di se stessi e di cui si pensa e si sa!) ma anche di altro (almeno il linea ipotetica, o comunque per definizione).

CitazioneSe fosse vero che [/size]Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede. (Sgiombo)

Nessuna pacchia purtroppo, perché quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua). (MARAL)
Citazione
Risposta di Sgiombo:
Che un dolore (che è un fatto! E infatti si può discutere della sua realtà o meno, non della sua verità) è presente mentre è presente è una tautologia.
Non è il predicato di un'esperienza: è quell' esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).

[/font][/size][/color]

Phil

La tua prospettiva è interessante e mi suscita alcune domande e osservazioni, per vederci più chiaro:
Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMQui a essere vero è il reale che si presenta svelandosi e in quanto semplicemente si svela 
 Se il presentarsi-svelandosi del reale è vero, cosa distingue il "vero" dal "reale"? Vero e reale non diventano sinonimi?

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMl'accadere è inseparabile dal significare, ossia le cose accadono sempre significando e significano accadendo, dunque accadere = significare, entrambi sono svelamento. 
Non è dunque possibile che ci siano eventi che accadono senza significare? 
Se la risposta è no, non si rischia anche qui di distinguere fra due termini (accadere e significare) che in fondo si denotano come sinonimi?
L'accadere non necessità certo di segnificazione, ma il significare (anche secondo Frege) non è solo un attributo semiologico, non ontologico, dell'accadere?

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMse il referente è "la realtà rappresentata dal segno" nell'ottica dello svelamento, se il segno svela (facendo segno, ossia segnificando), la realtà rappresentata dal segno è la realtà che si svela, dunque è proprio la verità (aletheia)
Non per fare il "ventriloquo" di Frege, ma, anche stando dentro il suo vocabolario, credo che la realtà rappresentata dal segno sarebbe per lui (come per molti altri) una realtà semantica, quindi strutturata, quindi convenzionale (nulla che "si sveli" o "si dia"), anche perché, se non erro, era uno di quelli che intendeva la verità solo come valore di verità (V) di una proposizione. 
Ma, anche sorvolando su Frege, e parlando più in generale, la realtà che il segno segnifica e (rap)presenta è una realtà soltanto semantica, concettuale e convenzionale (e proprio per questo può essere vera o falsa). 

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMPertanto nell'esperienza della verità come svelamento referente, significato e significante coincidono 
Quei tre possono coincidere solo in caso di "parola divina" che crea (referenti) pronunciando (significanti)... se ci si crede...
 
Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMOvviamente, si può sempre accettare o rifiutare la verità come aletheia e analizzarla solo nel suo aspetto tecnico comunicativo, ma qui era appunto sulla verità come svelamento che intendevo soffermarmi. (un aspetto che può essere interessante da approfondire in merito e che ora lascio solo accennato come tema può essere ad esempio come gioca la verità nella produzione artistica). 
Se, con estrema alchimia ermeneutica, proviamo ad amalgamare il vocabolario di Frege con l'ontologia di Heidegger, il virtuosismo che ne consegue potrebbe anche essere "artistico" (scherzo! ;))

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMnella possibilità o meno dell'apparire logico di un soggetto (io) a cui quel dolore appartiene come oggetto sta tutta la possibilità linguistica di descrivere quel dolore al medico o a chiunque altro, ma sempre su un piano logico descrittivo in cui un io viene per porsi come osservatore oggettivo del proprio dolore che non è più semplicemente sentito ed espresso, ma può essere spiegato e quindi interpretato. E' il piano di verità di un dolore spiegabile che necessita di un soggetto e di un oggetto che nella sensazione non ci sono ancora, perché c'è solo il dolore che si rende manifesto. 
Non direi "un io viene per porsi", quasi fosse una sua scelta contingente: soprattutto nel caso del dolore, direi "un io si trova ad essere", volente o nolente, soggetto (non "osservatore") di quel vissuto (il dolore che descrivi sembra avere una connotazione molto trascendentale, priva di ogni impulso nervoso... siamo sicuri che sia dolore?).

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMin termini di aletheia, mi pare si possa dire che è vero come reale che si svela, cioè che si rende manifesto e in questo rendersi manifesto potrà determinarsi come oggetto di un soggetto. 
[si parla del vissuto]
Qui propongo un esperimento, trovare la/e eventuale/i differenza/e fra: 
1-"è vero come reale che si svela"
2-"è reale come verità che si svela"
3-"è reale come realtà che si svela"
4-"è vero come verità che si svela"
sul filo di queste differenze c'è la non-sinonimia di "vero" e "reale".

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMla verità si pone [...] nel manifestarsi dell'evento stesso, ossia nell'apparire del reale nell'aspetto in cui appare
Anche qui mi viene il dubbio che ciò che "si pone nel manifestarsi dell'evento" sia la realtà, più che la verità (o, se ti ho ben capito, "la verità della realtà che si manifesta" oppure, a scelta, "la realtà della verità che si manifesta").

P.s. Linguisticamente, come avrai già capito, vedo "la verità" connessa al verificare (come suo possibile esito) e "la realtà" connessa all'essere, all'accadere, e al realizzare; per questo mi ritrovo a triangolarle a fatica con "lo svelamento"...

maral

#59
Citazione di: Phil il 12 Giugno 2016, 16:10:03 PM
Se il presentarsi-svelandosi del reale è vero, cosa distingue il "vero" dal "reale"? Vero e reale non diventano sinonimi?
Mi pare sia implicito: vero è lo svelarsi del reale, quindi solo al reale (e non al vero) appartiene ciò che ora non accade svelandosi.

CitazioneNon è dunque possibile che ci siano eventi che accadono senza significare?
Se la risposta è no, non si rischia anche qui di distinguere fra due termini (accadere e significare) che in fondo si denotano come sinonimi?
L'accadere non necessità certo di segnificazione, ma il significare (anche secondo Frege) non è solo un attributo semiologico, non ontologico, dell'accadere?
Sì in questo contesto (che ovviamente non è quello in cui si muove Frege, a cui mi riferivo solo per dire che lui denota il referente con il termine di significato, ma qui è solo una questione linguistica) il significato è proprio ciò che accade e ogni accadere accadendo in qualche modo significa. La distinzione dei due termini appartiene alla necessità predicativa di un contesto diverso. Il riferiento della verità come aletheia non mi pare (ma può essere che mi sbagli) sia nella moderna semiotica, ma va alle origini della filosofia greca e "modernamente" a Husserl e Heidegger che la riprendono in senso fenomenologico (ovviamente è del tutto lecito criticare questa prospettiva).
Citazione"...parlando più in generale, la realtà che il segno segnifica e (rap)presenta è una realtà soltanto semantica, concettuale e convenzionale (e proprio per questo può essere vera o falsa)."
Ma non è solo concettuale e convenzionale nei termini di riferimento sopra indicati, ossia è proprio il segno che nell'accadimento appare. Non c'è una dimensione semantica che va confrontata con una realtà effettiva per verificarla vera, giacché la verità è nello svelarsi che si presenta come segno, è l'evocazione che il segno presenta che non evoca una diversa realtà sottostante a cui va commisurata per stabilire il grado di congruenza, ma evoca solo altri segni a cui fa segno.

CitazioneQuei tre possono coincidere solo in caso di "parola divina" che crea (referenti) pronunciando (significanti)... se ci si crede...
Ecco, qui quella parola divina è la parola che si fa carico del proprio significato/accadere assoluto, quello che Heidegger, nella seconda parte della sua vita cercò nella poesia di Holderlin.

CitazioneNon direi "un io viene per porsi", quasi fosse una sua scelta contingente: soprattutto nel caso del dolore, direi "un io si trova ad essere", volente o nolente, soggetto (non "osservatore") di quel vissuto (il dolore che descrivi sembra avere una connotazione molto trascendentale, priva di ogni impulso nervoso... siamo sicuri che sia dolore?).
Sì, "un io viene per porsi" è una mia espressione infelice, è più giusto dire che un "io si trova a essere", ma si trova a essere perché quel dolore originario è possibile che sia accolto in una sorta di spazio esterno costituito da altri accadimenti/significati. Quello che una certa attuale filosofia (e psicologia) vede come spazio transindividuale. E' grazie a questo spostamento che l'io comincia ad apparire. Per maggiore chiarezza rimando a questo interessante intervento di Felice Cimatti che illustra il lavoro di Bion: http://riviste.unimi.it/index.php/noema/article/viewFile/4683/4883 )

Citazione
[si parla del vissuto]
Qui propongo un esperimento, trovare la/e eventuale/i differenza/e fra:
1-"è vero come reale che si svela"
2-"è reale come verità che si svela"
3-"è reale come realtà che si svela"
4-"è vero come verità che si svela"
sul filo di queste differenze c'è la non-sinonimia di "vero" e "reale".
Certo, potrà essere interessante rifletterci sopra. Per ora mi limito alla posizione 1, che mi pare richiami il modo in cui Heidegger pone la relazione tra essere (coincidente con il Niente) ed ente.  

CitazioneP.s. Linguisticamente, come avrai già capito, vedo "la verità" connessa al verificare (come suo possibile esito) e "la realtà" connessa all'essere, all'accadere, e al realizzare; per questo mi ritrovo a triangolarle a fatica con "lo svelamento"...

Ma anche questo, dopotutto. è una forma di svelamento, potrebbe essere interessante vederne il rapporto, oltre alla contrapposizione.

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