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Buddhismo

Aperto da acquario69, 16 Febbraio 2017, 04:59:05 AM

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Eutidemo

Riguardo a molti aspetti della sua dottrina, o, almeno, di molte sue correnti, il buddismo è molto meno lontano dalle concezioni delle UPANISAD (e del VEDANTA) di quanto comunemente si pensi; specie per quanto concerne il SE'.
In merito, nella sua MONUMENTALE opera "LA FILOSOFIA INDIANA" (che invito tutti i leggere, benchè sia alquanto voluminosa) S. Radhakrishnan affronta tale tematica in un intero capitolo, di cui qui vi riporto solo un passo saliente (se si riesce a leggerlo).

Phil

Citazione di: baylham il 29 Marzo 2017, 11:46:11 AM
La prassi è forse più rilevante della teoria.
Concordo: la prassi senza teoria è cecità, la teoria senza prassi è un fantasma... i ciechi combinano pur sempre qualcosa di più dei fantasmi!  ;D

donquixote

Citazione di: InVerno il 29 Marzo 2017, 11:16:19 AM
Citazione di: donquixote il 21 Febbraio 2017, 19:09:52 PMIl Cristianesimo è una religione, con la sua Chiesa, le sue regole, i suoi riti, la sua morale eccetera; il cristiano è colui che aderisce a tale religione per cui ritengo che Duc sia certamente un cristiano. Ogni persona che invece si accosta ad una dottrina metafisica che sta alla base di una religione non si può dire propriamente appartenente a quella religione ma semplicemente uno studioso di metafisica o un "cercatore di verità". Se al termine della ricerca si rende conto che tutte le dottrine delle grandi tradizioni (quella cristiana, quella islamica, quella induista, quella buddhista, quella taoista eccetera) affermano essenzialmente la medesima cosa non può che prenderne atto, anche se ogni tradizione elabora ed esprime la medesima verità con dottrine diverse ponendo l'enfasi su alcuni aspetti invece che su altri. Diceva Ibn Arabi, uno dei più grandi maestri dell'Islam: "Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma, è pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per gli idoli, è la Ka'ba del pellegrino, é le tavole della Torah, è il libro sacro del Corano. Io seguo la religione dell'amore, quale mai sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede". Per quanto riguarda il "credere" ognuno che vuole partire alla ricerca di qualcosa deve credere: se io cerco le chiavi di casa devo prima "credere" di averle perse; gli scienziati che hanno speso anni e anni (e miliardi di euro) per cercare il "bosone di Higgs" hanno fermamente "creduto" che questo esistesse, altrimenti non avrebbero potuto nemmeno iniziare la ricerca. Gandhi disse un giorno: "Prima credevo che Dio fosse la verità, adesso so che la verità è Dio"; per andare alla ricerca di Dio devi crederci, altrimenti vai alla ricerca del nulla e ti fermi subito. Il dubbio è un ostacolo nel cammino della ricerca, non certo uno stimolo, perchè più il dubbio sarà intenso e più farà desistere dalla ricerca, mentre più la fede sarà salda più impegno si metterà nella ricerca. Poi molti si fermeranno alla prima affermazione di Gandhi ritenendosi soddisfatti (o non avendo la capacità, il talento e la costanza di iniziare e portare avanti una ricerca seria), ma chi invece, come Gandhi, percorre tutto il cammino allora arriva a dire "so", e quando hai la sapienza la fede non è più necessaria, come gli scienziati del CERN "sanno" che esiste il bosone di Higgs e non hanno più alcun bisogno di credere nella sua esistenza. Per quanto riguarda la questione dell'io prova ad andare a cercare in rete il sermone di Meister Eckhart intitolato "beati pauperes spiritu" e se riesci a comprenderlo vedrai che lì c'è tutta l'essenza del Cristianesimo e anche del buddhismo dato che sia pur espressa diversamente è la medesima. Se poi interessa approfondire c'è un interessante volume scritto da D.T. Suzuki (professore di filosofia buddhista a Kyoto e riconosciuto come il più autorevole rappresentante contemporaneo del buddhismo zen - morto 50 anni fa) intitolato "Misticismo cristiano e buddhista".
Ma non è questo il genere di sincretismo tanto odiato dai tradizionalisti e foraggiato dagli "esegeti parvenu" ? Questa storia del "credere nelle chiavi di casa" che condividi con Duc è totalmente assurda, ed è il genere di mossa che si ci aspetta da un pensiero debole, che invece che eleggere le doti della propria dottrina le annacqua nel "normale comportamento umano" come se il principale bisogno sia quello di chiarire la non nocività dei propri comportamenti.E' come quello che si affretta per primo a dichiarare di non aver scoreggiato. Credere è necessario, ma la fede va ben oltre, essa è cieca. Se questo non basta a qualificarla e la si può ricondurre quindi alla fede nelle chiavi di casa, allora si è perso il senso delle parole a tal punto che discutere diventa inutile.

Il sincretismo è esattamente l'opposto di quel che ho scritto perchè questo riguarda e concerne la forma, il mettere insieme affermazioni tratte da dottrine diverse perlopiù travisandone il senso, mentre quel che descrivo io è semmai essenzialismo, il trascendere ogni possibile forma per cogliere l'essenza. E per quanto riguarda l'assurdità di cui parli è perlomeno curioso che chi non ha fede pretenda di sapere cosa sia la fede, tant'è vero che mostra poi di non saperne un tubo. Altrove ho scritto che solitamente i critici delle dottrine religiose e della "fede" in generale si inventano dei concetti inesistenti per poi poterli confutare con facilità, e queste tue affermazioni confermano in pieno l'assunto. La "fede cieca" è un concetto applicabile a qualunque disciplina, e si può avere fede cieca nella religione così come nella scienza o negli oroscopi o in una persona o in qualsiasi altra cosa, e come ho scritto la fede in sé non limita affatto la ricerca ma ne è il necessario ed indispensabile presupposto. Ci sono certamente più persone, in occidente, che hanno "fede cieca" nella scienza che non nella religione, e molti di coloro che hanno "fede cieca" nella religione ce l'hanno allo stesso modo anche nella scienza e magari anche in qualcosa d'altro. Se poi tu vuoi rimanere alla tua personale versione della "fede cieca" nelle religioni e considerarla come l'unica possibile (e magari "nobilitarla" generosamente in qualche modo come fanno alcuni ignorantissimi  "non credenti" che chiamano "fortunati" coloro che ce l'hanno) sono affari tuoi, ma allora sicuramente è del tutto inutile discutere, perlomeno con chi non ha ancora superato l'infanzia intellettuale nella comprensione di determinati concetti.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

Sariputra

#33
In questa notte di plenilunio di maggio, per la tradizione theravada, si celebra la festività del Vesak, detta anche del Visakha puja; ossia si ricorda la nascita, il Risveglio ( bodhi) e il Parinirvana ( estinzione) di Siddhartha Gotama, il Buddha storico. E' certamente la festività più importante per questa religione e si celebra ininterrottamente da 25 secoli. Nei templi sparsi per il mondo si segue un rito semplice ma molto evocativo. Si offrono fiori, incenso e candele alle statue del Buddha, girando in processione attorno ad esse, in segno di gratitudine per l'Insegnamento che la mente compassionale del Buddha ha dato a chi voglia cercare la Via per la Liberazione dal Dolore, a beneficio di se stessi e di innumerevoli esseri. Noi occidentali , di solito, storciamo il naso, quando si parla di riti e di tradizioni celebrative. C'interessa magari il buddhismo, ma solo come tecnica , come pratica meditativa di vipassana, di mindfulness ( quindi una cosa più facilmente vendibile per noi ...) e troviamo ridicoli e inutili i riti. Proprio ascoltando, questa sera, un discorso di Ajahn Chandapalo del monastero Santacittarama, mi sono ricordato che i riti sono importanti, quasi essenziali, per un motivo: per la loro capacità di parlare al cuore, di nutrire il cuore e non solo la mente. Infatti, le sole tecniche meditative, o le letture dei vari testi, non nutrite da un cuore compassionevole e che si alimenta della comunione con gli altri nel rito celebrato assieme, di solito non hanno forza, non dispongono del necessario alimento per durare, perseverare nella pratica. Ci si accosta alla meditazione, si ottengono magari dei benefici, un pò di serenità, un'aumentata capacità di concentrazione, ma poi...ci si stanca, diventa difficile perseverare, ci si annoia, si finisce per scappare in cerca di qualcos'altro ( il supermercato della spiritualità...). Questo succede perché si ritiene che sia necessario semplicemente istruire ed addestrare la mente in qualche esercizio e si trascura completamente tutta l'altra dimensione del nostro essere: una dimensione di stasi calorosa, un semplice sentirsi parte di qualcosa di grande, uno stare e celebrare assieme, senza distinzioni mondane fondate sul potere, la ricchezza , l'erudizione, ecc. , un sentiero di risveglio alla compassione che ci apre all'altro e al nostro cuore , passeggero ma pulsante d'amore. In sè questi riti possono sembrare non essenziali, un fenomeno semplicemente culturale ( e in un certo senso lo sono...)ma non bisogna sottovalutare la loro capacità di creare 'comunità' , di lavorare anch'essi per diminuire quella presunzione dell'Io di essere 'staccato', autonomo e diverso. Come un buon pranzo o una cena consumati assieme, rafforza , rinsalda e fa nascere nuova amicizia, così un rito ( non importa se miseramente celebrato...) ha lo stesso potere di rafforzare, rinsaldare e far nascere fiducia nella Via indicata dal Maestro.
Così i doni portati in processione alla statua del Risvegliato sono tre come simboli dei tre gioielli : il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E tre sono pure Prajna, Sila e Samadhi: la Saggezza, la moralità etica e il retto raccoglimento. Tre caratteristiche che in realtà sono una cosa sola.  Sempre tre sono Anicca, Dukkha e Anatta, osia i Tre Sigilli : Impermanenza, carattere doloroso e assenza di sé autonomo, presenti in ogni cosa ( Tre sono il cibo, l'aria e il calore...necessari ad ogni vita). Ecco quindi i fiori, le candele e l'incenso. Ognuno come simbolo di una caratteristica del Sentiero...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

acquario69

Citazione di: Sariputra il 16 Maggio 2017, 00:43:38 AM
In questa notte di plenilunio di maggio, per la tradizione theravada, si celebra la festività del Vesak, detta anche del Visakha puja; ossia si ricorda la nascita, il Risveglio ( bodhi) e il Parinirvana ( estinzione) di Siddhartha Gotama, il Buddha storico. E' certamente la festività più importante per questa religione e si celebra ininterrottamente da 25 secoli. Nei templi sparsi per il mondo si segue un rito semplice ma molto evocativo. Si offrono fiori, incenso e candele alle statue del Buddha, girando in processione attorno ad esse, in segno di gratitudine per l'Insegnamento che la mente compassionale del Buddha ha dato a chi voglia cercare la Via per la Liberazione dal Dolore, a beneficio di se stessi e di innumerevoli esseri. Noi occidentali , di solito, storciamo il naso, quando si parla di riti e di tradizioni celebrative. C'interessa magari il buddhismo, ma solo come tecnica , come pratica meditativa di vipassana, di mindfulness ( quindi una cosa più facilmente vendibile per noi ...) e troviamo ridicoli e inutili i riti. Proprio ascoltando, questa sera, un discorso di Ajahn Chandapalo del monastero Santacittarama, mi sono ricordato che i riti sono importanti, quasi essenziali, per un motivo: per la loro capacità di parlare al cuore, di nutrire il cuore e non solo la mente. Infatti, le sole tecniche meditative, o le letture dei vari testi, non nutrite da un cuore compassionevole e che si alimenta della comunione con gli altri nel rito celebrato assieme, di solito non hanno forza, non dispongono del necessario alimento per durare, perseverare nella pratica. Ci si accosta alla meditazione, si ottengono magari dei benefici, un pò di serenità, un'aumentata capacità di concentrazione, ma poi...ci si stanca, diventa difficile perseverare, ci si annoia, si finisce per scappare in cerca di qualcos'altro ( il supermercato della spiritualità...). Questo succede perché si ritiene che sia necessario semplicemente istruire ed addestrare la mente in qualche esercizio e si trascura completamente tutta l'altra dimensione del nostro essere: una dimensione di stasi calorosa, un semplice sentirsi parte di qualcosa di grande, uno stare e celebrare assieme, senza distinzioni mondane fondate sul potere, la ricchezza , l'erudizione, ecc. , un sentiero di risveglio alla compassione che ci apre all'altro e al nostro cuore , passeggero ma pulsante d'amore. In sè questi riti possono sembrare non essenziali, un fenomeno semplicemente culturale ( e in un certo senso lo sono...)ma non bisogna sottovalutare la loro capacità di creare 'comunità' , di lavorare anch'essi per diminuire quella presunzione dell'Io di essere 'staccato', autonomo e diverso. Come un buon pranzo o una cena consumati assieme, rafforza , rinsalda e fa nascere nuova amicizia, così un rito ( non importa se miseramente celebrato...) ha lo stesso potere di rafforzare, rinsaldare e far nascere fiducia nella Via indicata dal Maestro.
Così i doni portati in processione alla statua del Risvegliato sono tre come simboli dei tre gioielli : il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E tre sono pure Prajna, Sila e Samadhi: la Saggezza, la moralità etica e il retto raccoglimento. Tre caratteristiche che in realtà sono una cosa sola.  Sempre tre sono Anicca, Dukkha e Anatta, osia i Tre Sigilli : Impermanenza, carattere doloroso e assenza di sé autonomo, presenti in ogni cosa ( Tre sono il cibo, l'aria e il calore...necessari ad ogni vita). Ecco quindi i fiori, le candele e l'incenso. Ognuno come simbolo di una caratteristica del Sentiero...

Si e' proprio cosi.
In particolare riprendo su un punto (che ho rimarcato sopra) quel trascurare l'altra dimensione del nostro essere che poi riguarda proprio l'essenziale e quindi tutto cio che viene di seguito.

e' l'unione..si arriva a com-prendere (col "cuore" e non con la mente) che non vi e' alcuna separazione

La Spiritualita' e' appunto aprirsi ed accedere a tale dimensione..e' arrivare al "cuore" ma che di solito viene frainteso pressapoco e a torto ad un banale sentimentalismo perché in quel caso e' sempre e solo la mente a porre il limite.
 
Come dici tu i riti hanno tale funzione e non e' un fenomeno culturale (motivo per cui chi si limita a pensarla in questo modo lo scambia anche questo ad ingenua superstizione...e questa si che e' la vera ingenuità) ma per l'appunto spirituale..essenziale come detto sopra.

Apeiron

Buddha diceva che non bisogna attaccarsi ai riti. Eppure il Nobile Ottuplice Sentiero è una sorta di "rito" nel senso che è un comportamento ordinato, regolare che deve stare all'interno di alcune norme ecc. Il vero problema è la concezione del rito: per le religioni "occidentali" l'uomo è al serivizio del rito mentre il rito per il buddismo (ma anche per frange induiste e per i taoisti) è un mezzo per la Liberazione, la classica "zattera". Nel senso che se l'Ottuplice Sentiero ti crea solo problemi uno è libero di "personalizzarlo" oppure di seguire un'altra via. Nelle nostre religioni non c'è spazio per mutare la fede o il rito, pena "essere anatemi" (e pensare che nel Vangelo c'è anche "il Sabbath è stato creato per l'uomo e non l'uomo per il Sabbath"). Il problema che da noi ogni volta che c'è un'innovazione il rito nuovo diventa "il fine" e non il mezzo. Questo è il motivo che mi fa preferire le religioni orientali (o almeno quelle "non-duali"): là l'idea della fede è una fede come aiuto e non come un "devi credere". In sostanza mentre da noi la fede è imposta pena "essere anatemi", da loro il religioso è una sorta di medico.

In un certo senso in occidente "si deve" seguire un rito come si segue un legge civile, in oriente "si deve" seguire un rito come si segue il consiglio del medico.

P.S. Recentemente ho (ri)riscoperto il taoismo. A mio giudizio le differenze dottrinali tra taoismo, buddismo e alcune filosofie indù sono veramente poco importanti. In comune c'è sempre: l'ineffabilità della realtà (nel senso che la realtà è sempre vista come inconoscibile e ciò crea libertà nella dottrina) e appunto la visione del rito come mezzo e non come fine.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#36
Un certo livello di ritualità è inevitabile in qualunque forma religiosa organizzata, soprattutto quando si allarga a strati sempre più ampi di popolazione  e quindi ad esigenze profondamente diverse nei soggetti in cui si manifesta l'interesse e la fede verso quella particolare forma di spiritualità. Alcuni temperamenti sono portati alla devozione e quindi si sentono attratti dalle forme rituali di offerta simbolica e di donazione, come segni di gratitudine. Il problema sorge quando si scambia il rito con il fine, e diventa esso stesso la finalità dell'atteggiamento religioso. Se vado in processione attorno alla statua del Buddha pensando così di 'ingraziarmi' la benevolenza dello stesso nei miei riguardi, e che questo comporterà una mia 'elevazione' spirituale, sono completamente fuori strada. Se invece 'costringo' il mio ego ad inginocchiarsi davanti alla statua, non significa affatto che considero la statua dotata di qualche  particolare 'energia' spirituale o trascendente, ma eseguo una pratica di liberazione dall'attaccamento alla servitù dell'ego: ossia lavoro per indebolire questo attaccamento. La statua diventa un aiuto, uno strumento, un'immagine  che mi costringe ad assumere un atteggiamento del corpo che influenza la mente stessa. La quale , di solito, si ribella e comincia a formulare una marea di obiezioni. Diventa quindi molto interessante osservare con consapevolezza questo obiettare della mente, questo suo voler "andarsene" da qualche altra parte, in territori a lei più soddisfacenti. Costringerla a restare là, ferma e insoddisfatta, agitata e recalcitrante, con l'attenzione della stessa che vaga verso la percezione del dolore alle ginocchia, del freddo del pavimento, del bisogno di muoversi, dell'osservazione di chi "molla per primo", così da potersi rialzare senza sembrare negligenti, è pratica , esattamente come stare seduti nella posizione del loto consapevoli del respiro. Non c'è alcuna differenza. Si sta semplicemente lavorando ad osservare la mente con la mente...si sposta l'attenzione cosciente dall'esterno all'interno. Come quando si osserva, per esempio, un magnifico cavallo libero al galoppo e si colgono tutti i particolari, come la criniera al vento, il colore del manto, il paesaggio, ecc. Così si osserva il rimuginare e il protestare della mente in certe situazioni rituali in cui non prova alcuna soddisfazione. Si comprende pian piano come noi non la controlliamo, ma viviamo di reazione al bisogno di soddisfarsi della mente.
Il rito, così correttamente inteso e praticato, e naturalmente perseguito con questa finalità di mezzo, piano piano comincia ad operare sullo stato mentale di agitazione continua. Si entra in empatia con coloro che ci circondano e che partecipano al rito stesso. Lentamente, man mano che la mente, domata come si doma un cavallo selvaggio, si placa, sorge in essa quello stato naturale di 'benevolenza' privo di confini definiti, uno spazio mentale privo di netta separazione che, per l'appunto, riscalda e rinsalda il cuore e la fiducia.
Il Dhamma originario era molto probabilmente privo di queste forme rituali. Consideriamo però che era un insegnamento rivolto principalmente a chi aveva scelto l'ordinazione monastica nel Sangha e che quindi disponeva già di una comunità di altri monaci, che condividevano il sentiero, attorno a sè, e che questa comunità era già una forza interiore e una possibilità di praticare la benevolenza ( aiutandosi reciprocamente nella malattia, mettendo insieme il cibo elemosinato così che tutti potessero sfamarsi con la stessa quantità, ecc.). Diversa era la situazione dei, sempre più numerosi, devoti laici che , probabilmente in modo autonomo e spontaneo, iniziarono a dare corpo a tutta una serie di festività e rituali per ricordare il Maestro, che poi i monaci stessi inglobarono nella loro pratica e insegnamento.
L'utilità del rito è sicuramente più rivolta al praticante laico che non al bikkhu, al monaco che magari già pratica tutto il giorno con diligenza ( si spera...) il Dhamma...
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Apeiron

@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine.


Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione.

La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 18 Maggio 2017, 09:38:12 AM@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine. Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione. La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)

L'aspetto rituale e devozionale è parte integrante dell'esperienza religiosa, perché la sottrae alla dimensione 'privata' e ne fa un'esperienza collettiva. Seguire , in modo personale, questo o quel filosofo, e condividerne la visione, ovviamente non si può considerare 'religione' ( anche se, per alcuni, l'ammirazione per un pensatore può sfociare in una specie di "culto" personale, che a volte impedisce di coglierne le contraddizioni, come spesso non scorgiamo i difetti della persona molto amata che ci sta di fianco...finché non notiamo che esce con il nostro miglior amico  ;D ).
I riti sono strettamente connessi con la sfera del "sacro", servono a rendere tangibile l'esperienza religiosa ( e questa tangibilità può essere utile come mezzo) e la liberano da un eccesso di individualismo privato ( che spesso è territorio della mistica...). Il Nobile Sentiero è un insieme di norme etiche e pratiche da seguire per ottenere la Liberazione e si rivolge all'individuo, che lo attua. Ma non ha il carattere rituale di momento collettivo. Altra cosa è la celebrazione di festività varie, come il Vesak, o la recitazione comunitaria di brani dei sutra, che diventano, questi sì, momenti rituali specifici.
La visione buddhista del significato del rito, come giustamente scrivi, è quella di mezzo, quasi un momento di meditazione collettiva che ha lo scopo di rinsaldare il sentimento di benevolenza verso chi ci sta attorno. Ovviamente il significato è molto diverso, per esempio, dalla messa cristiana in cui la comunità dei fedeli partecipa di un momento di comunione con Dio, attraverso la celebrazione dell'Eucarestia, in cui il Cristo, secondo questa fede, si fa veramente presente, sotto le specie del pane e del vino. Il rito buddhista è simbolico e non è il centro della pratica religiosa. Quello cristiano è realmente il centro, attorno a cui ruota l'intera comunità ed è il compimento, a mio parere, dell'intera esperienza cristiana che, privata di questo, sfuma in una specie di filantropia.
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Apeiron

Citazione di: Sariputra il 18 Maggio 2017, 10:49:06 AM
Citazione di: Apeiron il 18 Maggio 2017, 09:38:12 AM@Sariputra concordo con quanto hai scritto. Il mio punto però è un altro: anche l'Ottuplice Sentiero puoi considerarlo un "rito", visto che devi seguire delle "regole". Non per forza un rito deve essere "devozionale" e non per forza viceversa un rito devozionale deve essere il fine dell'uomo. Anche un rito devozionale può essere un aiuto. Il problema è quando le pratiche religiose diventano il fine. Quello che manca in occidente, e in generale nelle tre religioni abramitiche è proprio questo, ossia la presa di coscienza seria che il rito è un mezzo e non un fine. Nel buddismo, nel gianismo, nel taoismo e tradizioni simili il rito è visto come un mezzo e l'attaccamento allo stesso è visto come una vera e propria degenerazione. La cosa interessante semmai è vedere se si può considerare "religione" una tradizione in cui il rito non è al primo posto. O addirittura: se si può considerare "religione" una tradizione in cui non c'è l'aspetto devozionale. Ad esempio se faccio come mia (anche nella pratica) la filosofia di Schopenhauer e considero il filosofo di Danzica come mio "guru" non credo che ciò si possa considerare "religione" :)
L'aspetto rituale e devozionale è parte integrante dell'esperienza religiosa, perché la sottrae alla dimensione 'privata' e ne fa un'esperienza collettiva. Seguire , in modo personale, questo o quel filosofo, e condividerne la visione, ovviamente non si può considerare 'religione' ( anche se, per alcuni, l'ammirazione per un pensatore può sfociare in una specie di "culto" personale, che a volte impedisce di coglierne le contraddizioni, come spesso non scorgiamo i difetti della persona molto amata che ci sta di fianco...finché non notiamo che esce con il nostro miglior amico ;D ). I riti sono strettamente connessi con la sfera del "sacro", servono a rendere tangibile l'esperienza religiosa ( e questa tangibilità può essere utile come mezzo) e la liberano da un eccesso di individualismo privato ( che spesso è territorio della mistica...). Il Nobile Sentiero è un insieme di norme etiche e pratiche da seguire per ottenere la Liberazione e si rivolge all'individuo, che lo attua. Ma non ha il carattere rituale di momento collettivo. Altra cosa è la celebrazione di festività varie, come il Vesak, o la recitazione comunitaria di brani dei sutra, che diventano, questi sì, momenti rituali specifici. La visione buddhista del significato del rito, come giustamente scrivi, è quella di mezzo, quasi un momento di meditazione collettiva che ha lo scopo di rinsaldare il sentimento di benevolenza verso chi ci sta attorno. Ovviamente il significato è molto diverso, per esempio, dalla messa cristiana in cui la comunità dei fedeli partecipa di un momento di comunione con Dio, attraverso la celebrazione dell'Eucarestia, in cui il Cristo, secondo questa fede, si fa veramente presente, sotto le specie del pane e del vino. Il rito buddhista è simbolico e non è il centro della pratica religiosa. Quello cristiano è realmente il centro, attorno a cui ruota l'intera comunità ed è il compimento, a mio parere, dell'intera esperienza cristiana che, privata di questo, sfuma in una specie di filantropia.

Ho capito ciò che intendi e sono d'accordo. In questo senso si potrebbe vedere la differenza sostanziale tra cristianesimo e buddismo. In occidente si deve credere a scapito dell'evidenza (a parte certi visionari) mentre nel buddismo il fatto che "il rito è un mezzo" ci fa capire che si "dovrebbe" credere. Questa differenza ahimé è enorme.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

@Apeiron scrive:
Ho capito ciò che intendi e sono d'accordo. In questo senso si potrebbe vedere la differenza sostanziale tra cristianesimo e buddismo. In occidente si deve credere a scapito dell'evidenza (a parte certi visionari) mentre nel buddismo il fatto che "il rito è un mezzo" ci fa capire che si "dovrebbe" credere. Questa differenza ahimé è enorme.


Questa differenza appare nella sua evidenza se prendiamo in esame due affermazioni importanti fatte dal Buddha e da Cristo:

Come l'oro viene fuso, tagliato e lucidato,
Così i monaci e i discepoli devono accettare la mia parola
Dopo averla attentamente analizzata
E non solo in segno di rispetto nei miei confronti.

Di diverso segno il brano di Giovanni:

"Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto" (Gv 20,29)

La fede nel Buddha nasce dopo aver "attentamente analizzato" l'Insegnamento, messo in pratica, ed eventualmente goduto dei frutti della pratica stessa. La fede nell'Insegnamento cresce man mano che si sviluppa la comprensione dello stesso. Come un malato aumenta la sua fiducia nel medico man mano che vede migliorare la sua malattia ( o malattia interiore...).
IL Cristianesimo, mettendo al centro la fede ( anche senza "aver visto"...) presuppone un'apertura ad un trascendente che ci visita per sua Natura ( Grazia) e ci trasforma, vivificando la nostra esistenza.
Uno appare come un atteggiamento 'attivo' ( l'Insegnamento non può curare nessuno se questi non si applica , non prende la 'buona medicina'...). L'altro invece come atteggiamento 'passivo'; un lasciarsi 'visitare', un mettersi da parte per far posto alla Presenza. In tutti e due i casi però ci vuole uno sforzo della volontà, la volontà di liberarsi dal "servo diventato padrone" ( l'Ego). E' quando il servo prende il comando del nostro agire, della nostra vita, che sorgono i problemi. Quando l'ego si afferma a scapito del padrone ( la pura consapevolezza) riversa sopra questo limpido specchio una polvere fittissima, fatta di attaccamenti, desideri, paure, volontà di sopraffazione, di potere, ecc. Quando invece il padrone 'controlla' il servo, cioè quando la consapevolezza guida e osserva le manifestazioni, le proprietà, la razionalità dell'agire...il servo è il servo e il padrone è il padrone.
Sulla strada del bosco
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Apeiron

Oggi ho avuto occasione di parlare con un mio amico teologo e mi ha nuovamente "sconvolto". In sostanza mi ha detto che per lui la "fede" in sostanza è accogliere il messaggio di "vedere la propria vita come un dono e donare la propria vita agli altri" più che una "presa di posizione dogmatica" e che il "vero peccato" è proprio quello di "rifiutarsi ad amare". In questo senso è un messaggio per tutti, sia per chi crede che per chi non crede e anzi l'attaccamento "eccessivo" (per intenderci l'essere eccessivamente pii) al rito è segno di "scrupolosità" più che di "fede". Quindi, almeno in questi tempi l'idea del rito come mezzo a quanto sembra circola anche tra i cattolici  ::) 

Mi chiedo a questo punto se non si potesse creare una sorta di religione "universale" con il solo e unico principio di "amare".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#42
Lavorare con la benevolenza (metta) è veramente utile.Però non è la soluzione magica per risolvere il probelma del dolore. Se pensiamo di praticare la benevolenza come una formula magica per migliorarci e giungere a chissà quali 'mete'...ecco di nuovo l'io che parla. L'io sta nuovamente affermando se stesso per impadronirsi dei nostri tentativi di apertura e di amicizia. Se c'è questo intervento, coinvolgimento dell'ego, le cose non possono funzionare veramente bene. Perché per essere pienamente aperti bisogna arrendersi completamente. La vera benevolenza esiste solo quando ci poniamo al di fuori dei confini del nostro io, abbandoniamo le identità del nostro io, le definizioni del nostro io.Nella pratica questo succede poco a poco. Più sviluppiamo la benevolenza e più allentiamo il controllo del nostro io, passo dopo passo.
C'è una storiella interessante , in uno dei libri post-canonici, che ci illustra con un esempio :
quattro persone se ne stanno sedute su una panchina. Noi, il nostro miglior amico, una persona che ci è indifferente e il nostro peggior nemico. Arrivano degli assassini e dicono che devono sacrificare uno di noi. E, proprio noi, dobbiamo scegliere una di queste quattro persone perché venga uccisa. Bene, chi sceglieremmo? Questo è un grande dilemma morale, giusto? Posso scegliere me stesso e dire, "Be', io sono così altruista e santo. Prendete me!" O potrei dire, "Bene, prendete il mio peggiore nemico. Non vale niente comunque. Ripulite la terra da quest'individuo" E la persona indifferente? Non è nessuno di speciale. O potrei essere veramente generoso, "Be', io non posso proprio andare, sto prendendo una decisione importante, quindi prendete il mio migliore amico, è come se prendeste me."
Qui, con le risposte che danno le persone, si potrebbe fare un test di personalità. Chi sceglieremmo? 
La risposta deve arrivare dal cuore, è impensabile infatti.In questa storiella, la risposta impensabile, se veramente si pratica la benevolenza amorevole ad un livello molto alto, è che non puoi scegliere nessuno dei quattro. L'amorevolezza è sviluppata così ampiamente che non si fa più alcuna discriminazione tra le quattro persone, si è completamente aperti e amichevoli verso tutti loro, in egual misura – e persino anche verso gli assassini!
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Citazione di: Sariputra il 21 Maggio 2017, 00:00:04 AMLavorare con la benevolenza (metta) è veramente utile.Però non è la soluzione magica per risolvere il probelma del dolore. Se pensiamo di praticare la benevolenza come una formula magica per migliorarci e giungere a chissà quali 'mete'...ecco di nuovo l'io che parla. L'io sta nuovamente affermando se stesso per impadronirsi dei nostri tentativi di apertura e di amicizia. Se c'è questo intervento, coinvolgimento dell'ego, le cose non possono funzionare veramente bene. Perché per essere pienamente aperti bisogna arrendersi completamente. La vera benevolenza esiste solo quando ci poniamo al di fuori dei confini del nostro io, abbandoniamo le identità del nostro io, le definizioni del nostro io.Nella pratica questo succede poco a poco. Più sviluppiamo la benevolenza e più allentiamo il controllo del nostro io, passo dopo passo. C'è una storiella interessante , in uno dei libri post-canonici, che ci illustra con un esempio : quattro persone se ne stanno sedute su una panchina. Noi, il nostro miglior amico, una persona che ci è indifferente e il nostro peggior nemico. Arrivano degli assassini e dicono che devono sacrificare uno di noi. E, proprio noi, dobbiamo scegliere una di queste quattro persone perché venga uccisa. Bene, chi sceglieremmo? Questo è un grande dilemma morale, giusto? Posso scegliere me stesso e dire, "Be', io sono così altruista e santo. Prendete me!" O potrei dire, "Bene, prendete il mio peggiore nemico. Non vale niente comunque. Ripulite la terra da quest'individuo" E la persona indifferente? Non è nessuno di speciale. O potrei essere veramente generoso, "Be', io non posso proprio andare, sto prendendo una decisione importante, quindi prendete il mio migliore amico, è come se prendeste me." Qui, con le risposte che danno le persone, si potrebbe fare un test di personalità. Chi sceglieremmo? La risposta deve arrivare dal cuore, è impensabile infatti.In questa storiella, la risposta impensabile, se veramente si pratica la benevolenza amorevole ad un livello molto alto, è che non puoi scegliere nessuno dei quattro. L'amorevolezza è sviluppata così ampiamente che non si fa più alcuna discriminazione tra le quattro persone, si è completamente aperti e amichevoli verso tutti loro, in egual misura – e persino anche verso gli assassini!

Il problema della sofferenza a mio giudizio c'è per la presenza per i pensieri che includono "me, io e mio". Il completo "amore" (che per me è una disposizione che precede l'atto) fa trascendere la prospettiva che fa sorgere questi pensieri e quindi "libera" dall'egoismo. Sinceramente questa prospettiva mi sembra già "anatta". La difficoltà è proprio mettere in pratica...
Comunque su quanto dici sono d'accordo.

In ogni caso se fossi un individuo illuminato, libero dalla paura della morte, libero da attaccamenti ecc probabilmente direi "prendete me". Ma ovviamente non lo sono ergo non ho idea di come mi comporterei in una situazione...
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Quando ho detto che versavo l'8 per mille all'UBI ( Unione Buddhista Italiana), nella dichiarazione dei (pochi) redditi, il sopracciglio sinistro dell'impiegato si è arcuato e poi, con curiosità, dopo avermi scrutato e notato che non portavo un saio color zafferano, e che la calvizie aveva operato più in profondità della tonsura, piegandosi verso di me, mi ha quasi sussurrato: " Allora lei crede nel karma?"
Per quasi tutti gli occidentali parlare di qualcosa che viene da Oriente significa una parola sola: Karma.  Dalla pagina astrologica sui giornali , alle canzonette demenziali sanremesi, al salone del barbiere ( da me, come si può ben capire, assai poco frequentato...) il karma è la filosofia dell'orientale. E fa molto figo parlarne...
Ma cos'è 'sto karma (kamma in pali) ? Karma significa fare , ed è possibile osservarlo mantenendo la consapevolezza di ciò che è presente alla coscienza attimo dopo attimo. Qualunque cosa, qualunque percezione o sensazione, pensiero o ricordo, piacevole o spiacevole, è karma. E' osservabile direttamente ma, ovviamente, ci vien sempre una gran voglia di costruirci sopra altre speculazioni. E allora: perché abbiamo il karma che abbiamo? Rinasceremo in uno stato più alto di esistenza o il karma accumulato nelle vite precedenti sarà come piombo che ci trascinerà nella pignatta di messer satanasso?
Ci sono poi le speculazioni sulla rinascita: che cosa passa da un'esistenza all'altra se non c'è un'anima? Se tutto è anatta (non-sé) come posso esser stato qualcosa in una vita precedente o avere una sostanza che rinasce? 
Osservando come le cose agiscono indipendentemente ( purtroppo) da noi, si inizia a capire che la rinascita non è altro che il desiderio che cerca un oggetto a cui afferrarsi per esere nuovamente suscitato. E' l'abitudine della mente disattenta. Abbiamo fame e il condizionamento acquisito ci spinge a cercare il cibo. Questa è una ri-nascita: andare alla ricerca di qualcosa a cui afferrarci. Ri-nascere è continuarsi , giorno e notte, notte e giorno; quando poi siamo stufi di ri-nascere, ci annulliamo nel sonno. Tutto qui, sotto i nostri occhi. Non si tratta di una teoria, il karma non è una teoria, ma dell'osservazione e dell'esame delle azioni. Si dice: "Fai il bene, e riceverai bene; fai il male, e riceverai male". Cosa significa, visto che spesso il giusto riceve ingiustizia dal mondo? Quello che facciamo lo ricordiamo: è semplicissimo. Le azioni passate, buone o malvagie, non esistono più, ma esiste il loro ricordo che è il nostro karma. Il ricordo di un'azione gentile, piena di compassione e d'amicizia o di generosità, ci fa star bene; ma se commettiamo un'azione gretta, sporca ed egoista, ce la ricorderemo! Poi, ovviamente, cercheremo in tutti i modi di cancellare il ricordo, di sfuggirgli, di trovare frenetiche scappatoie, qualcosa alla notte risalirà dal pozzo nero dentro di noi: ecco il risultato karmico. Il karma ha fine quando viene riconosciuto dalla consapevolezza. E' proprio la consapevolezza che lascia finire le formazioni karmiche invece di ricrearle. La morte non è altro che il risultato karmico della nascita, e tutto quel che necessita sapere su ciò che nasce e muore è che è condizionato, è il non-sé...Qualunque ricordo è il non-sè. Seguire un sentiero come quello tracciato da Siddhartha non è alla fine troppo complicato: è la pratica di fare il bene e , se non ci riusciamo, almeno astenersi dal fare il male con il corpo e la parola ( che spesso è più ferente del corpo), ed essere consapevoli. Non ci creiamo complicazioni, non cerchiamo la perfezione nel regno dei sensi. Impariamo ad aiutarci a vicenda ( soprattutto quando si sta veramente male si comprende l'importanza dell'altro, dell'aiuto che ci dà, della presenza...). Molte volte cadiamo, ma non sarà intenzionalmente. E poi...permettiamo sempre anche agli altri di cadere. Lasciamo spazio agli altri e gli permettiamo di essere imperfetti, invece che pretendere che siano perfetti perché non ci infastidiscano. Per avere pace mentale, quando siamo di fronte all'azione sbagliata di qualcuno, la riconosciamo semplicemente come una formazione karmica. "Che bastardo! Si è comportato così o cosà, mi ha fatto questo o quello..." Sto 'costruendo' una persona con il materiale di determinate formazioni karmiche, e il ricordo sgradevole che conservo dell'altro mi farà soffrire ogni volta che lo vedo. Se poi, nella reciproca ignoranza, io lo faccio all'altro e lui lo fa a me in risposta, ecco che ci leghiamo a vicenda con le catene delle cattive abitudini karmiche.
Riconosciamo questo solito, noioso 'modello' di ri-creazione come insoddisfacente; il processo continuo e ossessivo della paura, del dubbio, della preoccupazione: brama, odio e illusione in tutte le sue forme. Se siamo consapevoli, non c'è attaccamento a idee o ricordi di sé e la creatività sorge spontanea. Non c'è nessuno che ama o che è amato, non c'è creazione di nessun essere personale. Così , quando questa nevrotica creatura karmica se ne sta un pò quieta, scopriamo una dimensione di gentilezza, di compassione e di equanimità sempre fresca e paziente e che sa perdonare a noi stessi e agli altri.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.