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Buddhismo

Aperto da acquario69, 16 Febbraio 2017, 04:59:05 AM

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Sariputra

#135
@Apeiron si domanda:
Come è possibile per esempio riconoscere se si è "Entrati nella Corrente" (per chi ci legge: il primo livello di Risveglio. Incompleto) ? Si è per caso "entrati" in contatto con il Nirvana? Se sì, lo si riconosce in modo automatico o lo può dire solo un altro "Risvegliato"? Cioè una volta che ho ottenuto questo "step" lo riconosco necessariamente?

"Entrare nella corrente" ( sotapanna) è il primo dei quattro 'frutti' della liberazione e , secondo la tradizione ( molto schematica ripeto...) dei sutta, permette di entrare definitivamente nel Nibbana al massimo entro sette nascite. Quali sono le caratteristiche del sotapanna?
-indebolimento dell'egocentrismo.
-minore brama verso gli oggetti sensoriali.
-minore avidità di guadagni, averi, riconoscimenti, beni mondani.
-maggior capacità di condividere.
-capacità di percepire la natura impermanente di tutto ciò che sembra piacevole e bello.
-non cadere nell'errore di considerare come permanente ciò che è impermanente.
-capacità di non-vedere l'essere in ciò che ne è privo.
-il non attaccamento a formule e riti.
-vedere l'importanza della pratica di vipassana e samatha.
Di solito si associa al sotapanna l'impossibilità di mentire, di rubare e di tenere una vita sessuale sregolata e, ovviamente, il far del male intenzionalmente agli altri.
Al di là dello schemino ( che risulta però utile e interessante per il praticante buddhista per fare una 'verifica' dello stato della propria pratica...) direi che 'entrare nella corrente' ha un significato, nella nostra vita ordinaria, particolare. Io lo definisco come "un'ombra di Dhamma su ogni cosa" (è una frase mia, prendila con le pinze... :)). Ossia lo intendo così: in ogni pensiero che rivolgo verso le cose  istintivamente lo verifico anche alla luce dell'Insegnamento ( non solo perché vi è pure un pensare concreto "necessario"...). Studio le stelle? Le vedo anche alla luce del Dhamma. Studio fisica? La studio anche alla luce del Dhamma. Coltivo la vite? La coltivo anche alla luce del Dhamma. Spero di non essere stato troppo criptico...

Sì, i jhana sono molto importanti, ma non sono decisivi per la liberazione. Questa è il frutto della visione profonda penetrante. I jhana potrebbero essere definiti come dei 'pseudo-nibbana'. Il Nibbana infatti distrugge tutti gli elementi negativi della mente; il jhana invece li sopprime solamente e temporaneamente.

Quanto è comune che i praticanti ottengano il jhana?

Non praticando grandi gruppi di meditanti non saprei darti una risposta precisa. Da quel che so per sentito dire e che leggo non è una cosa comune. Però molti possono essere, a mio avviso giustamente, riservati su queste esperienze. Diffido di quelli che vanno in giro urlando a tutti: "Ho raggiunto il primo jhana!". Nella tradizione buddhista si dice che, in quest'era di Kali-yuga, è raro trovare qualcuno in grado di realizzare anche solo il primo jhana. Sembra che era molto  comune al tempo del Buddha. Altri uomini...(sigh  :'( ).
Ciao
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Ottima risposta (e non sei stato criptico!)! Grazie mille  ;) (tra l'altro sono anche io un po' smemorato. Già in un'altra discussione avevi fatto lo stesso discorso della "rarità" delle persone che oggi ottengono i jhanas  :) )



Riguardo allo schemino. Beh come ogni schemino è un po' da "prendere con le pinze" (secondo me). Però è anche vero che è molto interessante in quanto può dare una certa libertà sulla rigidità della dottrina.

-indebolimento dell'egocentrismo.
-minore brama verso gli oggetti sensoriali.
-minore avidità di guadagni, averi, riconoscimenti, beni mondani.
-maggior capacità di condividere.
-capacità di percepire la natura impermanente di tutto ciò che sembra piacevole e bello.
-non cadere nell'errore di considerare come permanente ciò che è impermanente.
-capacità di non-vedere l'essere in ciò che ne è privo.
-il non attaccamento a formule e riti.
-vedere l'importanza della pratica di vipassana e samatha.


Gli unici punti forse veramente dottrinali sono quelli su impermanenza, quello dell'essere e quello di "formule e riti" (ossia il secondo, il terzo e il quarto a partire del fondo). E questo è un segnale di apertura non indifferente  :)

La cosa interessante semmai è vedere se questo "salto" è tanto o poco "rigido". Voglio dire: se dobbiamo pensarlo come un "salto discreto" o un "percorso continuo" (oppure entrambe le cose  ;D ). Nel caso del percorso continuo l'apertura è direi, ovvia.

 
"un'ombra di Dhamma su ogni cosa". Bellissima espressione. Almeno per la dottrina della Natura di Buddha direi che non è troppo "da prendere per le pinze" ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#137
Di ritorno, domenica sera, da un seminario con lama Geshe Gedun Tarchin, molto interessante e che verteva sul tema "Yoga e Sogno", mi risuonavano nella zucca vuota questi due termini che abbiamo approfondito durante la riflessione: saggezza e compassione. Quando si parla di 'natura di buddha' ci si chiede spesso cos'è questa benedetta natura. La 'radiosità' della mente di buddha ( Pabhassara citta) non è altro che saggezza e compassione (panna e karuna). Saggezza e compassione vanno sempre insieme come gli estremi di un bastone: quando c'è uno c'è anche l'altro. Un atto saggio è anche un atto compassionevole e un atto di compassione è anche un atto saggio. Dove dimorano la saggezza e la compassione nella natura di buddha priva di un sé esistente intrinsecamente? Questa la domanda che serpeggiava tra i partecipanti alquanto confusi...E' indubbiamente un passaggio ostico , perché in definitiva queste qualità vivono nella vacuità. Proprio perché dimoranti in uno spazio illimitato e vuoto, e non causate dai kilesa legati alla catena di cause e condizioni , vengono considerate nel buddhismo come la madre (panna) e il padre (karuna) della mente liberata dall'attaccamento. Vedendo la mente in preda alla brama, all'odio e all'illusione la si può paragonare ad un bambino bisognoso di educazione per crescere rettamente e maturare nella comprensione. Saggezza e compassione possiamo così vederli come i genitori di questa mente che, con molti sforzi e abili mezzi, trova l'uscita da questi ciechi attaccamenti al mondo creato dal contatto dei sensi. Ci sono ovviamente molti altri 'famigliari' coinvolti in questo processo: moralità, entusiasmo nella pratica, perseveranza, ecc. ma il ruolo fondamentale è quello dei genitori: il ruolo della saggezza e della compassione.
Già questa definizione delle qualità di una mente che sperimenta nibbana dimostra che la pretesa di etichettare come 'nichilismo' il buddhismo sia ingiustificata ed erronea. La vera natura di una mente che sperimenta la cessazione ( della brama, dell'odio e dell'illusione...) è la luce della saggezza e della compassione. Questa mente 'luminosa' è già in noi, per questo si dice provocatoriamente "se incontri il Buddha per la strada , uccidilo", proprio per mettere l'accento su questa auto-realizzazione e non concepire la buddhità come qualcosa da 'raggiungere', posto là fuori da qualche parte.
Con un banale paragone possiamo immaginare la mente come una lampada di vetro completamente oscurata ( a volte) o parzialmente oscurata ( altre volte) ma con la luce della lampadina ben luminosa al suo interno. Questa luce è sempre presente in noi, ma non può certo splendere se il vetro è terribilmente sporco, imbrattato da tutti i nostri attaccamenti. Attaccamento così potente che ormai è un tutt'uno con il vetro stesso, così che possiamo arrivare a dire che proviamo il piacere dell'"attaccamento all'attaccamento", la più sottile e pericolosa forma di legame samsarico della mente e che, nella visione tradizionale buddhista, è considerato la matrice dell'inesausta sete di rinascita della coscienza ( vinnana). Nel buddhismo questo speciale attaccamento all'attaccamento è definito come ' il ladro che fa da garante del ladro'...
Luminosità è anche la prima visione del jhana perché cosa sono in definitiva i jhana buddhisti se non il grande spettacolo del dissolvimento della mente ( condizionata) che scompare, nell'atto della meditazione di samatha e di vipassana ( calma e visione profonda)? E ciò che  risplende ha quel carattere che possiamo definire come 'la mia mente'? E' qualcosa di 'personale' forse? Praticare e investigare da noi stessi questo punto mi pare essenziale. Non serve che qualcuno venga a dirci cos'è o cosa non è . Sperimentiamo nella pratica meditativa se persiste ancora la volontà di definire e di identificare come 'io/mio' ciò che accade nel jhana. Assistere a questo fenomeno dà un brutto colpo all'illusione. Vedendo 'scomparire' la mente come senso dell'io/mio nel jhana si capisce che non è altro che un sankhara come gli altri. Le grandi intuizioni di Siddhartha nascono dalla pratica dei jhana e dal loro superamento nel Nibbana, nell'anatta  del dissolvimento.
La maggior difficoltà che s'incontra nel pacificare la volontà è quella di arrivare, nella pratica meditativa, al samadhi profondo, perchè questa pacificazione dà la sensazione di sparire. Ritornando all'attenzione sull'oggetto di meditazione questa sensazione viene superata... :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#138
Bellissimo post Sari!  :)

Ritengo che la "mente luminosa" sia una delle più belle metafore mai lette. Una metafora per certi versi simile è la seguente:
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "

"Sul muro di ponente, signore."

"E se non c'è muro di ponente, dove si stabilisce? "

"Sul pavimento, signore."

"E se non c'è pavimento, dove si stabilisce? "

"Sull'acqua, signore."

"E se non c'è acqua, dove si stabilisce? "

"Non si stabilisce, signore."

"Allo stesso modo, dove non c'è desiderio per il nutrimento di cibo fisico, dove non c'è piacere, nessuna brama, allora la coscienza non si stabilisce e non cresce. Dove la coscienza non si stabilisce, il nome e la forma non si sviluppano. Dove il nome e la forma non si sviluppano, non c'è nessuna crescita delle predisposizioni karmiche. Dove non c'è crescita delle predisposizioni karmiche, non si genera il divenire per una nuova rinascita. Dove non si genera il divenire per una nuova rinascita, non c'è nascita , vecchiaia e morte. Quindi, vi dico, nessun dolore, afflizione o disperazione." https://www.canonepali.net/2015/05/sn-12-64-atthi-raga-sutta-dove-ce-avidita/

Qui la coscienza viene paragonata ad un raggio di luce. L'avidità (e l'avversione) invece è paragonata ad una superficie dove essa si stabilisce (e siamo tentati di dire dove essa "muore", così come il raggio di luce "muore" una volta che colpisce una superficie). L'immagine della libertà della luce che non si stabilisce è una di quelle che secondo me sono più affascinanti ;)

P.S. Questo messaggio in origine era molto diverso. Ma siccome conteneva molte cose già dette (dal sottoscritto) ho pensato di cambiarlo e parlar d'altro. Chiedo scusa per il disagio.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Ritengo che la "mente luminosa" sia una delle più belle metafore mai lette. Una metafora per certi versi simile è la seguente:
"Così se ci fosse una casa con un tetto o una sala con un tetto che abbia finestre a nord, a sud o ad est. Quando il sole sorge, ed un raggio entra dalla finestra, dove si stabilisce? "


Ad una fronda, docile
la luce oscilla
alle nozze con l'aria;
nel senso di morte,
eccomi, spaventato d'amore.

(Nel senso di morte- Salvatore Quasimodo)


Siate Luce a Voi Stessi
(Buddha)

:)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Di seguito la metafora della "mente luminosa" come è scritta nel Canone Pali (Anguttara Nikaya):
51. "Luminosa, o monaci, è la mente, ma è sporcata dagli influssi impuri. La persona ordinaria, non istruita, non percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per una persona ordinaria, non istruita, non v'è nessuna coltivazione della mente"

52. "Luminosa, o monaci, è la mente, quando è liberata dagli influssi impuri. Il discepolo dei Nobili, istruito, percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per un discepolo dei Nobili, istruito, v'è una coltivazione della mente".


Viene poi usata la metafora dell'acqua pulita e sporca (Anguttara Nikaya):
45. Monaci, è impossibile che un uomo stando sulla riva di uno stagno melmoso possa vedere delle conchiglie, dei sassi, delle pietre e dei pesci muoversi o fluttuare nell'acqua. Allo stesso modo è impossibile per un monaco con la mente offuscata vedere il proprio bene, il bene di un altro, o realizzare qualcosa di nobile e divino.

46. Monaci, è possibile che un uomo stando sulla riva di uno stagno limpido con acqua pura e trasparente possa vedere delle conchiglie, dei sassi, delle pietre e dei pesci muoversi o fluttuare nell'acqua. Allo stesso modo è possibile per un monaco con una mente limpida vedere il proprio bene, il bene di un altro, o realizzare qualcosa di nobile e divino.

In questo senso la metafora dell'acqua pulita e anche dello specchio è usata qui: https://www.canonepali.net/2015/06/an-10-51-sacitta-sutta-la-propria-mente/

Zhuangzi (daoismo): "nessuno si specchia nell'acqua corrente. Si specchia nell'acqua calma", (capitolo 5) "l'uomo perfetto usa la sua mente come uno specchio: non anticipa e non insegue niente, risponde ma non trattiene" (capitolo 7)...

La bellezza di questo tipo di immagini non è fine a sé stessa (come non lo sono in realtà le poesie). Si pensa spesso qui in occidente che usare analogie e immagini è un modo per oscurare il significato. Ma talvolta parlare per immagini, utilizzare un linguaggio che può essere interpretato in più modi ha vantaggi: quello che avviene in sostanza è che il linguaggio "poetico" riesce a comunicare molto di più di quello "tecnico" in quanto l'immagine è flessibile e modellabile mentre il linguaggio tecnico è per sua natura più "vago". Ma questa vaghezza non significa che si sta parlando a vanvera o che si vuole oscurare il significato. Invece questa vaghezza serve proprio a comunicare qualcosa che il linguaggio tecnico non può comunicare. In particolare la nostra mente non possiamo osservarla come un oggetto materiale, quindi nel nostro linguaggio abbiamo molti modi allusivi di riferci ad essa: "mi è venuto in mente" ("in" quasi fosse una scatola  ;D ), "il flusso di coscienza" (quasi fosse un fiume...) e così via. D'altronde Wittgenstein scrisse una cosa meravigliosa: "un'intera mitologia è contenuta nel nostro linguaggio". Lo stesso Wittgenstein però saggiamente ci fece capire che non bisogna prendere "alla lettera" tali espressioni, altrimenti si creano confusioni concettuali: la mente non è né un fiume né un contenitore dopotutto. Tuttavia la cosa misteriosa è che questo tipo di linguaggio è davvero un "nonsenso" in quanto la mente non è né uno specchio d'acqua e nemmeno un raggio di luce solare. Ma quando leggiamo queste (e altre) metafore sentiamo che ci comunicano qualcosa, ci alludono a qualcosa. Il linguaggio è allusivo. Wittgenstein anche se è considerato talvolta il campione della "demitologizzazione" era il primo a capire l'importanza di poesie, immagini, linguaggio allusivo e "nonsensi". Ma in un'epoca dominata dalla tecnica (tecnica ancora più della scienza) come la nostra tendiamo a vedere questo tipo di immagini come un qualcosa di "ingannevole", nel senso che il linguaggio allusivo non ci sembra più allusivo ma una sorta di "inganno" che adorna il nulla con parole insensate. Dopotutto quando si accusa di "nichilismo" il buddhismo si compie proprio questa operazione: "mente luminosa", "pace", "l'altra riva", "l'incondizionato", "il non-nato" ecc sono viste tutte come metafore atte a dare una connotazione psicologicamente "accettabile" del nibbana. Le descrizioni "negative" più precise sono invece da prendersi alla lettera: "assenza di sensazioni", "tutto ciò che è percepito si raffredda", "estinzione" e così via invece sono appunto descrizioni "giuste" perchè in esse non sembra esserci alcun significato "ulteriore". Al giorno d'oggi si è persa l'allusività. La si vede come "inutile". "Inutile"...

Zhuangzi: "tutti gli uomini conoscono l'utilità dell'utile. Nessuno conosce l'utilità dell'inutile" (capitolo 4)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

green demetr

"Il commentatore del Bodhicaryāvatāra di Śāntideva, Prajñākaramati (XI secolo) nel suo Bodhicaryāvatārapañjika arrivò a sostenere che la dottrina delle Quattro nobili verità è in contrasto con quella della vacuità e che solo la terza, il nirodha, è una verità ultima, le restanti tre sono elaborate per il mondo, sono "mondane"[14]."
cit https://it.wikipedia.org/wiki/Quattro_nobili_verit%C3%A0


Ciao Sari e Apeiron.

Ho letto gli ultimi post, interessante.

La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Pur non sapendo niente di Buddismo, mi è venuto in mente il concetto di vacuo.
Ho poi pensato bene, prima di parlare, di iniziare a capirci qualcosa, di  leggere per pima la wiki, che è il metodo più veloce.
(e inutile certo).

Vi ho citato quel pezzo, perchè ha fatto da eco immediata a quanto mi è venuto in mente.(random)

Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità? Sono curioso.

In un certo senso non sono del tutto contrario all'idea che nello stato meditativo qualcuno possa aver percepito qualcosa di simile.

E però nel range delle similitudini ci possiamo pescare di tutto.

Tra l'altro leggendo la Wiki, che ricostruisce un buddismo che così a prima impressione mi sembra mooooolto mitologico, poco filosofico in ultima analisi.

Ma appunto la vacuità non c'entrerebbe niente con la sua premessa.

Credo che la questione del nichilismo si possa per così dire usando le parole di Prajñākaramati ricostruire come critica forse proprio dalla fusione del mondano con il filosofico.

A me sembra evidente che non possano convivere.

Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.

Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.

E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.

Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?

Oddio lo so una marea di domande, è che la cosa mi incuriosisce, e aprofitto dell'entusiasmo che avete portato, per riscaldare un pò il mio (anche se via indù  ;) ).
Vai avanti tu che mi vien da ridere

Apeiron

#142
Provo a dirti la mia a tuo rischio e pericolo ;D


La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Risposta breve: se per "induismo" intendi l'advaita (o tutte le filosofie che mirano all'unione dell'atman con Brahman), il buddhismo rifiuta l'esistenza di atman E brahman.

Risposta lunga: sinceramente qui mi pare più chiaro l'induismo mentre il buddhismo rischia una facile degenerazione nichilistica - specie quello del Canone Pali (uniche scritture riconosciute dalla scuola Theravada). Stando alla dottrina "ufficiale" l'assunzione fondamentale che unisce buddhismo e induismo è che i non-realizzati dopo la morte rinascano (nel Canone a seconda del karma la destinazione è uno dei 31 piani di esistenza). Come l'induismo il buddhismo dice che i piani di rinascita sono TUTTI impermanenti. Sul concetto di "realizzazione" però le due filosofie divergono. L'induismo è molto coerente e facile da capire: si rinuncia alla propria esistenza individuale e si "ritorna" a Brahman (il "vero" atman). Nel buddhismo invece l'idea è che vige l'anatta e che la morte quanto la nascita è illusoria: non perchè il PROCESSO in sé non sia reale bensì perchè "nessuno" nasce e nessuno muore. Il problema che si forma adesso però è come interpretare questo. E qui ritengo che gli stessi buddhisti si siano sbizzarriti. Alcuni (i Sautrantika e diversi pensatori moderni della scuola Theravada) ritengono che l'Incondizionato che compare nei testi buddhisti non abbia alcuna esistenza, ma sia semplicemente un modo più "positivo" per definire il Niente (Anatta=non-esistenza=abhava?). Altri invece ritengono che il Nirvana sia un altro tipo di esistenza e che sia un assoluto ontologico (es. Dharmakaya). Molti altri rigettano entrambe le posizoni dicendo che sono due estremi. Ad ogni modo una lettura molto letterale dei suttas favorisce la prima lettura, ma non appena a mio giudizio si pensa con la propria testa ci si rende conto che la posizione "anatta=nulla" è come quella di un cieco che nega l'esistenza di persone che percepiscono i colori. La cosa interessante però a questo punto è che cosa veramente rende DIVERSO in ultima analisi il buddhismo dall'induismo (e dal daoismo) a livello di "verità ultima". Su questo non so risponderti. Personalmente ti posso dire che ritengo le ontologie leggermente diverse ma molto simili. Ma dovrai accontentarti di ciò.

Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità?

L'inesistenza di "qualcosa" che abbia un'esistenza separata dal resto, la realtà è meglio pensarla come una rete (i nodi sono "agglomerati" di una rete che SEMBRANO esistere in modo distinto). Il Nirvana perciò sarebbe un "dissolvimento" in questa "rete". Ritenere che esistano "cose" distinte è una illusione "di comodo". Su questo le tradizioni advaita e simili nell'induismo (credo), daoismo (credo), e buddhismo (credo) concordano.

Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.
La vera differenza è l'idea Bodhisattva. I Mahayana ritengono che siccome il Dhamma trascende anche l'insegnamento del Buddha storico è "più giusto" cercare di fare in modo nel corso delle varie rinascite che più persone "entrino nella corrente". I Theravada invece ritengono che anche se il Dhamma trascende il Canone Pali, essendo la liberazione una cosa molto difficile tale "speranza" dei mahayana rischia di "trattenere" le persone nel samsara. Così almeno è come la vedo io. Ad ogni modo la distinzione tra i due percorsi è meno "netta" di quello che sembra.

Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.
E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?

Nel buddhismo "atman" non è mai esistito, ergo nascita e morte di "qualcuno" sono illusioni perchè quel "qualcuno" in ultima analisi non c'è. Quindi sì in un certo senso puoi dire che siamo già Buddha. Le interpretazioni "nichilistiche" dicono che rimosse le illusioni e cessati i condizionamenti non rimane che il nulla (e sono talvolta pure contenti di dire ciò  ;D ). Altri ritengono che è come purificare l'oro dalle impurità e quindi qualcosa rimane. Stando a quanto mi pare di capire dal Canone Pali la mia posizione è più simile a quest'ultima. Per inciso la mia scuola "preferita" è lo Huayan anche se a dire il vero la conosco molto superficialmente (l'interpentrazione dei fenomeni - la rete di Indra ecc). Per quanto mi riguarda non sono buddhista, l'anatta non mi convince ancora (anche perchè le interpretazioni nichilistiche hanno molto supporto e a me sinceramente il nichilismo non mi piace. Se i nostri valori, la nostra coscienza ecc sono tutte illusioni allora la vita è un semplice errore. Siccome credo invece che la vita abbia valore non sono d'accordo). Questo mi costringe a dire che NON ho superato alcuna "ruota" (inoltre non credo nemmeno alla dottrina delle rinascite se non come metafora - probabilmente se non avessi studiato qualcosa di scientifico avrei accettato questo "dogma".).

Riguardo al commentatore del XI secolo ha per certi versi ragione. La verità eterna è il Nibbana: solo il Nibbana è incondizionato per il semplice motivo che "non si rinasce più". Lo stesso Nobile Ottuplice Sentiero è "condizionato" ("mondano" lo eviterei come termine, per noi significa dire tutt'altro. Di certo i "deva" e gli "inferni" non sono mondani). Tuttavia il Dhamma almeno è un "assoluto epistemologico" ma le sua attualizzazioni chiaramente sono "condizionate" (un concetto simile lo dice Laozi nel Daodejing: "il Dao di cui si può parlare non è l'eterno Dao...i maestri dei tempo antichi praticavano l'insegnamento non detto...colui che sa non parla, colui che parla sa" ecc. Il discorso è che l'espressione della verità incondizionata è condizionata). Il Karma pur essendo "condizionato" è molto vicino ad essere considerato una "legge morale" così "forte" da essere analoga alla "legge di gravità" (questo significa che il buddhismo non è relativista).

N.B. Personalmente ritengo che il "Dharma" ossia la "Verità" non l'abbia (ancora) detta nessuno. Motivo per cui ritengo che sia improprio parlare di "false religioni" anziché di "religioni incomplete".

P.S. La componente "mitologica" del Buddhismo è un altro indizio che fa capire come il Processo della storia secondo il buddhismo non sia illusorio (idem per l'induismo, altrimenti non servirebbero i riferimenti ai kalpas). Però secondo entrambe le tradizioni (così come per il daoismo) la rete concettuale di astrazioni con cui "comprendiamo" la storia è qualcosa da trascendere. Proprio perchè bisogna "trascendere" non riesco a capacitarmi di una possibile concezione nichilistica e la componente "mitologica" è un forte indizio contro a questa.

Nota sul nichilismo: il nichilismo sostiene che esiste solo l'elemento "mondano", ossia che esistano solo i condizionamenti. Tolti i condizionamenti non rimane niente. Lo stesso "incondizionato" d'altronde può essere letto come "libero da condizionamenti" e la "non-esistenza" è libera da condizionamenti. Ad ogni modo il punto che maggiormente sostiene questa lettura è l'ambiguità del Buddha (e di Sariputra, il suo numero due ;)) riguardo a "cosa rimane" tolti i condizionamenti. Siccome in nessun testo c'è scritto che "Nirvana non è non-esistenza" allora chi propone questa lettura dice che in caso contrario una frase del genere dovrebbe esserci stata.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

@Green Demetr scrive:
La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?

Da punto di vista storico il buddhismo si propone come una critica profonda dell'intero sistema vedico. Nel buddhismo vi è il rigetto del sistema delle caste e del potere brahminico basato sui sacrifici. Abbiamo così, nella prima comunità buddhista un insieme eterogeneo di figli della casta dei guerrieri, di quella dei brahmani, dei commercianti frammista a intoccabili e financo a ex assassini (Angulimala). Brahmano , per il Buddha, non si è per diritto di nascita: "Non è per i capelli intrecciati né per il clan né per la nascita che un uomo diventa un brahmano. Colui nel quale sono sia la verità sia il Dharma, questi è felice, questi è un brahmano.!" E ancora: "Che importa dei tuoi capelli intrecciati, stupido? Che importa dei tuoi abiti di pelle di antilope? Dentro di te c'è la giungla e tu pulisci di fuori!" (Dhammapada, 393-394).
Il Buddha accoglie nella comunità monacale anche le donne, che però praticano separate dagli uomini per evidenti motivi.
Se la moksa induista presenta analogie con il Nirvana buddhista ci sono però profonde divergenze filosofiche. L'una ha come obiettivo la realizzazione della propria identità col Brahman (Tat Tvam Asi, "Tu sei Quello"-"Quello sei Tu" in cui il soggetto è "Quello"), nel buddhismo il fine è la liberazione dalla sofferenza esistenziale e si rifiuta qualsiasi tipo di speculazione metafisica su cos'è questa liberazione, in quanto trattasi di esperienza e non di concettualizzazione. Il Nirvana non è qualcosa da teorizzare o capire, ma qualcosa da vivere. Il silenzio del Buddha su queste questioni è coerente con l'insegnamento che la Cessazione è uno stato da realizzare, attraverso una pratica e una condotta di vita che viene chiamato Nobile Ottuplice sentiero. Pertanto del Nirvana non si può dire che "è" e neppure che "non-è" essendo indefinibile. Se pensiamo che il fine del buddhismo è raggiungere la liberazione dalla sofferenza possiamo intuire che il Nibbana è quello stato in cui viene a cessare la sofferenza.

Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità? 

Cercando di essere coerente con quanto sopra personalmente non mi sono fatto alcuna idea in proposito. Nel buddhismo originario quando si parla di vacuità la s'intende come mente vuota dalla brama, dall'odio e dall'illusione. Questa definizione, apparentemente 'povera' del Nibbana, in realtà comunica un messaggio positivo e stimolante, indica la possibilità e l'esistenza di una via/sentiero che può essere percorsa e di una meta che può essere raggiunta.
Vacuità di esistenza intrinseca o 'anatman' ( assenza di atman) è riferito alla totalità dei fenomeni che nel buddhismo sorgono sempre in dipendenza da cause e condizioni e sono perciò interdipendenti, sono quindi privi di esistenza intrinseca, di atman/anima/essenza propria. Per il buddhismo la concezione di un sé dotato di esistenza autonoma è la primaria fonte della sofferenza.

Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?

Questo aggregato che si fa chiamare Sari sta rotolando ormai da tanti anni... :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#144
Mah sono sempre più convinto che la tendenza a voler vedere le distinzioni crei molti più conflitti dove questi non dovrebbero esserci...  ;D
Faccio un dialogo immaginario tra un advaitin (A) e un buddhista (B)...
A: per i non-realizzati cosa succede secondo la tua dottrina: rinascono, non rinacono, rinascono e non rinascono, non rinascono e non non rinascono? per me rinascono
B: rinascono
A: ok. Questo perchè sono convinti di avere un'esistenza separata e intrinseca, il "jivatman".
B: sì infatti in ognuno dei 31 piani di esistenza si parla di "essere", inteso come essere individuale. Su questo direi che concordiamo, caro rivale.
A: E non è vero che nascita e morte ecc visto che sono concetti sensati quando si pensa all'esistenza di "qualcuno", un individuo separato, in realtà non sono che illusioni (visto che richiedono che tale essere sia distinto dal "resto")?
B: su questo ti posso dare ragione. Infatti il Buddha-Dhamma dice che le "cose condizionate" in realtà non sono "cose". Questa è "anatta", l'inesistenza di un'identità intrinseca delle cose. Vorrei però adesso parlare dell'incondizionato, d'altronde se non ci fosse l'incondizionato come potremmo liberarci dal condizionato?
A: L'incondizionato esiste e lo chiamo Brahman. Jivatman, l'io individuale, abbiamo concordato che è illusorio. Ma "atman", il vero io, in realtà non è diverso da Brahman, la Realtà Incondizionata. Però noi vediamo illusoriamente distinzioni dove in realtà queste non ci sono.
B: Qui amico mio dobbiamo però non essere d'accordo. Pensare a Brahman è pensare ancora ad un sé. Esso è prodotto da ignoranza, attaccamento e odio.
A: Mah, tu che non riconosci Brahman non sei libero da ignoranza, attaccamento e odio. Ad ogni l'incondizionato, il nirvana, è la semplice liberazione dai condizionamenti?
B: sì.
A: e tolti i condizionamenti rimane qualcosa o no?
B: (non parla)
A: per me quello che rimane è proprio Brahman. Infatti il Realizzato non è più convinto di possedere un "io", ma il suo "io" si è per così dire dissolto. Questo è il riassorbimento in Brahman.
B: Anche per il Buddha-Dhamma il senso dell'io si dissolve. Ma l'unione con Brahman è falsa perchè è un concetto.
A: e il tuo no? Ad ogni modo Brahman è oltre ogni concetto, quindi ciò che ho detto è solo un dito per puntare alla luna.
B: no. Il tuo dito crea attaccamento, odio e ignoranza. "Atman= Brahman" è falso.
A: tu sei nichilista, tu crei attaccamento, odio e ignoranza. Eretico. Non a caso se neghi che "nirvana=nulla" allora affermi che il nirvana esiste. Viceversa se neghi che "nirvana= qualche forma di esistenza" sei nichilista.
B: tu sei l'eretico.
Ecc... a me sembrano tremendamente simili le loro posizioni. Le distinzioni nette mi sembra che creino solo settarianismi e incomprensioni (ahimé da entrambe le posizioni). Se in entrambi i casi viene negata l'esistenza di un'identità separata e il senso dell'io-mio, che senso ha continuare a fissarsi sulle distinzioni? Mi pare ben chiaro che puntino a "quella cosa" entrambi. La descrizione di "quella cosa" è ovviamente diversa. Ma è davvero utile, produttivo fissarsi in questo modo sulle distinzioni? Mah. Rimango sempre più convinto che la verità trascenda ogni dottrina e queste dispute su dettagli simili mi sembra che siano un buon contributo a dukkha (che poi ovviamente fu Sankhara il primo a non capire il buddhismo e tacciarlo di nichilismo perchè negava "atman".... non sto facendo un'apologia dell'advaita  ;) ).

Per quanto riguarda il vero motivo per cui preferire uno o l'altro. Secondo me il buddhismo è molto più pratico per la pratica individuale. Però l'induismo oltre a cercare di spiegare la "sofferenza" cerca anche di spiegare perchè ad esempio il mondo ci appare regolare (perchè gli oggetti cadono sempre verso il basso e così via). Nei testi buddhisti non ho mai visto nessuna filosofia della natura, non ho mai visto alcuna curiosità per capire perchè la materia anch'essa si comporta in modo regolare. Questo è il grosso limite del buddhismo secondo me, così come il buddhismo è certamente migliore dell'induismo per altri aspetti. Ma proprio perchè il loro approccio alla realtà è diverso, diversa è anche la "zattera". Fare disquisizioni su quale delle due sia più "vera" secondo me crea solo conflitti.

Il buddhismo cinese in genere si è anche interessato della natura. Ritengo che per esempio la filosofia per la quale "ogni cosa contiene la saggezza del Buddha" ha il grande merito di riconoscere che anche nella natura "inanimata" esitono "regolarità" (e spesso questo tipo di filosofie non è molto distante da tradizioni che puntano ad una sorta di "monismo"...). Non capisco sinceramente la tendenza anche di questo tipo di religioni e filosofie (che non sono filosofie e religioni del Libro) a mettere in risalto così tanto le differenze, ossia ad essere rigide con i dogmi. Posso capire la rigidezza delle religioni devozionali, ma qui la religione e la filosofia sono fuse nel tentativo di comprende la realtà (a partire dalla nostra natura). Motivo per cui quando leggo le espressioni a riguardo della "liberazione" fatte da questo tipo di tradizioni tendo a vedere più somiglianze che differenze.

Buona Domenica.

P.S. Ovviamente buddhismo e advaita sono diversi. Ma il motivo della loro differenza è il loro approccio iniziale alla realtà. Differenza che poi si riflette anche nella descrizione della "verità ultima". Purtroppo devo dire che anche gli "orientali" mi deludono per quanto riguarda il dogmatismo.

Modifica: personalmente ritengo entrambe le visioni incomplete. Al di là della differenza, così ben evidente dal messaggio di Sariputra, vorrei precisare come nonostante la differenza tra i due approcci (il Buddha si interessa della "sofferenza" dell'individuo e del modo per estirparla. Un indù si interessa invece del rapporto tra l'individuo e il "resto".) la descrizione della "verità ultima" contiene notevoli somiglianze. Ovviamente un buddhista può rimanere tale senza riconoscere alcun merito alla filosofia induista e viceversa. Quello che mi fa specie però è la rigidità con cui anche in queste tradizioni si tratta l'altro. Il Buddha è "l'unico insegnante" per i buddhisti (gli altri sono degli eretici, dei folli ecc) e un eretico per gli indù. Osservando come ci sono vari approcci alle cose ritengo totalmente inutile questo tipo di comportamento. Perchè non cercare di armonizzare ed andare oltre i punti di vista delle sette?  Che differenza c'è tra il "dissolvimento dell'io", "il riassorbimento in Brahman" ecc? E la mia domanda non è meramente "cosa mi succede alla morte?" quanto invece "qual è la natura della realtà?": qual è la differenza del significato di queste espressioni (e non meramente delle espressioni stesse)?

Ossia oltre ad osservare le espressioni ed evidenziare le differenze, dovremo chiederci qual è il loro significato. C'è differenza ontologica tra le varie descrizioni? Perchè se il nirvana non è semplicemente "la cessazione" ma anche una realtà "positiva" allora la differenza a livello ontologico è veramente piccola. Il Daodejing dice: "tutti al mondo dicono che la mia Via è vasta e somiglia a nessuna cosa. Proprio perchè è vasta che somiglia a niente. Se somigliasse a qualcosa, sarebbe diventata, molto tempo fa piccola." (capitolo 67). Ossia ciò che trascende la nostra capacità di comprendere può essere sì indicato in molti modi. Ma c'è veramente un modo "giusto" per indicarlo? O ci sono diversi modi "giusti"? Nuovamente l'unico modo per dire che c'è solo un modo giusto è equivalente a ritenere che un determinato maestro è infallibile e - mi si lasci dire anche "onniscente" (ossia che conosce tutto ciò che si può conoscere). Motivo per cui paragonare queste tradizioni è come paragonare le mele alle pere, dicendo che le mele (o le pere) sono migliori. Dire che "anatta" o la "vacuità" falsificano il "riassorbiomento" in Brahman significa dire che Buddha e gli advaitin usano il termine "atman" allo stesso modo. Non c'è alcuna evidenza di ciò. Vorrei ricordare come equivoci millenari nascono proprio dall'uso della stessa parola per dire cose diverse. In ambo le tradizioni la liberazione è legata al non ritenere che si ha un'identità distinta e in entrambe le tradizioni l'idea è che "ciò che rimane" va oltre le nostre possibilità cognitive. In fin dei conti atman è solo una parola...
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#145
Le differenze non devono necessariamente essere percepite come negative soprattutto, come nel caso delle tradizioni spirituali sorte nella cultura indiana, se non sono causa di contrapposizioni violente. Per questo non direi che la visione sia 'dogmatica' come la intendiamo in senso monoteistico, ma dialettica. Mi sembra addirittura di ricordare che, per secoli, fino all'invasione mussulmana dell'India, scuole buddhiste e brahmaniche spesso studiavano sotto lo stesso tetto, come per es. nell'università di Nalanda. dove tra l'altro si trova lo stupa dove sono sepolto.  ;D
Pensiamo poi come la fervida fantasia indiana abbia inglobato la figura stessa del Buddha nel suo ricco pantheon, ritenendolo un avatar di Vishnu come Rama e Krshna e 'neutralizzando' la teoria dell'anatta in modo inverosimile...Nel crogiuolo hindu ogni visione spirituale viene rispettata, ammirata...il mito del guru, del maestro che ti indica la Via è onnipresente e pervasivo ...quasi non importa il fondamento filosofico di quel che insegni, se sei un guru sei sicuramente nel giusto ( con tutti gli squallidi abusi che poi si concretizzano praticamente e socialmente...).
Ben diverso è il carattere dogmatico dei monoteismi abramitici che crea mondi separati, violente contrapposizioni, incomprensioni e rigetti totali, financo arrivare alle persecuzioni e alla guerra...eppure tutti e tre adorano fondamentalmente lo stesso concetto di Dio   :(...
E come nei monoteismi ci sono differenze  così le ritroviamo nell'alveo della cultura indiana sorta sui Veda e che ha visto nel Dhamma buddhista il primo  sforzo di smarcamento da essa e dalla sua cultura, 'cristallizzante' la società, basata sulle caste. Il buddhismo , da subito, si viene a configurare come una religione universalistica, che sa parlare e adattarsi a molteplici culture , arrivando a permearle in profondità , come nel caso della Cina, del Giappone e dell'intero sud-est asiatico, mentre il neo-brahmanesimo rimane confinato ad una forma di spiritualità fortemente su base etnica e le sue scorribande in giro per il mondo spesso si riducono a palestre yoga per casalinghe stressate e con la cellulite...
Il buddhismo ha un carattere di apertura che manca a molte tradizioni religiose e questo , nel bene e nel male, lo sta facendo apprezzare molto al di là dei confini in cui si è sviluppato.
Le differenze sul concetto di 'assoluto' ci sono , tra buddhismo e advaita vedanta e , a mio modesto parere, non sono nemmeno superficiali, o marginali o semplicemente di linguaggio.
Dobbiamo considerare, sempre tendendo presente le differenze di punto di partenza già citate da @Apeiron, che nel Vedanta l'assoluto/brahman è satchitananda, ossia essere-conoscenza-beatitudine ( oceano dei poteri di saggezza) mentre l'assoluto buddhista o Nirvana è impersonale e privo di qualunque definizione e non è uno stato estatico. Questa differenza riflette la differenza nella pratica meditativa delle due tradizioni: la pratica vedanta cerca l'unione con l'assoluto che è Dio/personalizzazione di satchitananda e ritiene che questa si realizza compiutamente nell'estasi in cui sparisce la concezione erronea dell'io/mio e ci si 'immerge' in questo oceano di beatitudine consapevole. Il buddhismo ritiene questi stati, erroneamente identificati come unione col sacro, impermanenti e inefficaci in ultima analisi per trascendere lo stato di sofferenza in modo definitivo, che si ottiene solamente con la visione profonda del carattere impermanente, doloroso e privo di un sé di ogni cosa ( compresi quindi gli stati estatici così importanti per il vedantino...). Per il Buddha il Nirvana non è un essere e non è beatitudine sensibile. La differenza non è di poco conto perché una, quella vedanta, porta alla visione di un assoluto che è Dio, che quindi è un 'essere' dotato di esistenza intrinseca e da cui, a cascata, come una immensa fioritura  sbocciano innumerevoli forme del divino; l'altra ad uno stato di libertà non definibile in categorie concettuali di teismo o a-teismo ma solo per via negativa come superamento di tutto ciò che, essendo impermanente, ci lega al carro della sofferenza.
Banalizzando si potrebbe riassumere con: una cerca l'unione col divino; l'altra lo ignora, pur non essendo atea, semplicemente  ritiene che il Nirvana sia più assoluto di qualunque Dio e infatti, nei sutta, spesso appaiono le raffigurazioni di questi dei che vengono ad ascoltare il Buddha, per sfuggire anch'essi alla sofferenza di essere un dio...
Il Buddha insiste spesso nel mettere in guardia contro la tendenza della mente a opporre coppie di opposti, come esistenza e non-esistenza. Questa tendenza dà grande soddisfazione alla mente e questo rafforza l'adesione/attaccamento a essi. Per questo Siddhartha soleva ripetere che solitamente gli uomini si basano sul dualismo. Non mi stupisce quindi che anche il Nirvana si tenti di concepirlo secondo questa logica di contrapposizione: assoluta esistenza o assoluta non-esistenza. Ma i rigidi concetti dell'esistenza e dell'inesistenza non possono esprimere adeguatamente la natura dinamica della realtà. E tanto meno possono essere applicati al Nibbana, definito da Siddhartha come  lokuttara (trascendente) e atakkavacara (oltre ogni pensiero concettuale)...
Non sorprende nemmeno quindi che , presi da questa tendenza a contrapporre, a volte si definisca il Nibbana come non-esistenza ( soprattutto all'inizio della sua penetrazione in Occidente  che ha portato molti a definire il buddhismo come una dottrina nichilistica...), e altre volte in senso di esistenza , interpretato quindi alla luce di nozioni filosofiche  e religiose già conosciute, quali "puro essere", "pura coscienza", "pura identità" o in base a qualche altro concetto metafisico.
Alcune scuole buddhiste, di fronte all'elusività del Nibbana, a loro volta cadevano in questa mania di contrapporre e così troviamo i sautantrika che favorivano un'interpretazione negativa e invece le scuole mahayana delle 'Terre di buddha', del Buddha Primordiale, del Tathagatagarbha, che favorivano un'interpretazione positiva o metafisica.
Non è sempre facile evitare questi due punti di vista opposti dell'esistenza e della non-esistenza e lo vediamo , nel nostro piccolo, anche in questa riflessione sul forum...
Ricordiamoci sempre che il Nibbana, nel pensiero del Buddha, è identificato con la terza nobile verità, cioè con la Cessazione del dolore. Mi sembra che spesso molti, anche tra i buddhisti, se lo dimentichino...
Questa discussione aperta da @acquario è iniziata proprio dal fondamentale prerequisito per accostarsi e interessarsi al Dhamma buddhista e cioè la profonda percezione che il problema da risolvere è legato alla sofferenza dell'esistenza. Compresa a fondo la prima nobile verità, quella della sofferenza, abbiamo una prima intuizione anche della terza... :)

« Di ogni oggetto che a una causa deve la sua esistenza, il Tathagata la causa ha spiegato, e di questo oggetto ha spiegato anche la fine. Questa è la dottrina del Grande Asceta "
Questa è la formula tradizionale, ancora usata, per indicare gli insegnamenti del Buddha e che Assaji recitò a Sariputra/Upatissa nei pressi di Rajagaha e che lo convinse a seguire Gotama Siddhartha... :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#146
A me sincerament ela differenza tra le varie tradizioni non mi entusiasma molto se esiste un'unica via per la liberazione. Però posso capire chi invece l'apprezza. Ma non posso condividere. Se la Liberazione è qualcosa di possibile ritengo che siano possibili più vie e che queste possano essere descritte in vario modo. Ad ogni modo vorrei puntualizzare che qui non è la questione di prendere un estremo o l'altro. Nella visione nichilistica non si da alcun valore alla vita. Nella visione non-nichilistica invece si cerca di cambiare "tipo" di esistenza, un'esistenza nuova senza "io" e senza sofferenza. Ma in questa seconda visione si riconosce il valore dell'esistenza comune. In sostanza si vede come un miglioramento. 

Inoltre una mente matematica non può accettare che qualcosa che "non è esistenza" non sia "esistenza"  ;)  motivo per cui ho grosse difficolta a capire Ajahn Brahm  ;D (scherzo, ma solo in parte)

Ad ogni modo vorrei far notare come nell'advaita Brahman non è visto come un Dio Personale. Si parla di "Nirguna", senza attributi.

P.S. Ho eliminato una parte di troppo
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#147
Citazione di: Apeiron il 05 Novembre 2017, 19:25:45 PMA me sinceramente la differenza tra le varie tradizioni non mi entusiasma molto se esiste un'unica via per la liberazione. Però posso capire chi invece l'apprezza. Ma non posso condividere. Se la Liberazione è qualcosa di possibile ritengo che siano possibili più vie e che queste possano essere descritte in vario modo. Ad ogni modo vorrei puntualizzare che qui non è la questione di prendere un estremo o l'altro. Nella visione nichilistica non si da alcun valore alla vita. Nella visione non-nichilistica invece si cerca di cambiare "tipo" di esistenza, un'esistenza nuova senza "io" e senza sofferenza. Ma in questa seconda visione si riconosce il valore dell'esistenza comune. In sostanza si vede come un miglioramento. Inoltre una mente matematica non può accettare che qualcosa che "non è esistenza" non sia "esistenza" ;) motivo per cui ho grosse difficolta a capire Ajahn Brahm ;D

E infatti sia il Buddhadhamma che l'Advaita riconoscono un grande valore all'esistenza umana e non solo, lo estendono pure a tutte le creature senzienti, sensibilità che, diciamocelo francamente, non ha certo abbondato in passato ( e nemmeno molto tutt'oggi direi...) nei monoteismi abramitici, con grandi eccezioni come, per esempio, la figura di Francesco d'Assisi...
Sulla questione della matematica direi che sono avvantaggiato , visto che solitamente schiacciavo un pisolino durante le lezioni scolastiche, dovuto al mio totale disinteresse per la materia... :-[...ma se Ajahn Brahm non ha trovato controindicazioni.... ;)
A parte gli scherzi è evidente che queste specie di contraddizioni concettuali servono per accentuare l'importanza data alla pratica meditativa, al fattore esperienziale più che non a quello puramente speculativo...direi che il 'capire' questo passo sia intuibile all'interno della comprensione del paticcasamuppada, almeno per me...


P.S. Il brahman è privo di attributi ma è "sostanziale" e le sue manifestazioni , da Ishvara in giù, prendono la forma e gli attributi degli dèi personali con caratteristiche precise e riconducibili alle forze in cui si manifesta il Brahman...
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Trattiene rondini nei capelli.

green demetr

Citazione di: Apeiron il 04 Novembre 2017, 16:11:09 PM
Provo a dirti la mia a tuo rischio e pericolo ;D


La prima cosa che mi è venuta in mente, è cosa distingue induismo e buddismo?
Risposta breve: se per "induismo" intendi l'advaita (o tutte le filosofie che mirano all'unione dell'atman con Brahman), il buddhismo rifiuta l'esistenza di atman E brahman.

Risposta lunga: sinceramente qui mi pare più chiaro l'induismo mentre il buddhismo rischia una facile degenerazione nichilistica - specie quello del Canone Pali (uniche scritture riconosciute dalla scuola Theravada). Stando alla dottrina "ufficiale" l'assunzione fondamentale che unisce buddhismo e induismo è che i non-realizzati dopo la morte rinascano (nel Canone a seconda del karma la destinazione è uno dei 31 piani di esistenza). Come l'induismo il buddhismo dice che i piani di rinascita sono TUTTI impermanenti. Sul concetto di "realizzazione" però le due filosofie divergono. L'induismo è molto coerente e facile da capire: si rinuncia alla propria esistenza individuale e si "ritorna" a Brahman (il "vero" atman). Nel buddhismo invece l'idea è che vige l'anatta e che la morte quanto la nascita è illusoria: non perchè il PROCESSO in sé non sia reale bensì perchè "nessuno" nasce e nessuno muore. Il problema che si forma adesso però è come interpretare questo. E qui ritengo che gli stessi buddhisti si siano sbizzarriti. Alcuni (i Sautrantika e diversi pensatori moderni della scuola Theravada) ritengono che l'Incondizionato che compare nei testi buddhisti non abbia alcuna esistenza, ma sia semplicemente un modo più "positivo" per definire il Niente (Anatta=non-esistenza=abhava?). Altri invece ritengono che il Nirvana sia un altro tipo di esistenza e che sia un assoluto ontologico (es. Dharmakaya). Molti altri rigettano entrambe le posizoni dicendo che sono due estremi. Ad ogni modo una lettura molto letterale dei suttas favorisce la prima lettura, ma non appena a mio giudizio si pensa con la propria testa ci si rende conto che la posizione "anatta=nulla" è come quella di un cieco che nega l'esistenza di persone che percepiscono i colori. La cosa interessante però a questo punto è che cosa veramente rende DIVERSO in ultima analisi il buddhismo dall'induismo (e dal daoismo) a livello di "verità ultima". Su questo non so risponderti. Personalmente ti posso dire che ritengo le ontologie leggermente diverse ma molto simili. Ma dovrai accontentarti di ciò.

Ma appunto che idea vi siete fati della vacuità?

L'inesistenza di "qualcosa" che abbia un'esistenza separata dal resto, la realtà è meglio pensarla come una rete (i nodi sono "agglomerati" di una rete che SEMBRANO esistere in modo distinto). Il Nirvana perciò sarebbe un "dissolvimento" in questa "rete". Ritenere che esistano "cose" distinte è una illusione "di comodo". Su questo le tradizioni advaita e simili nell'induismo (credo), daoismo (credo), e buddhismo (credo) concordano.

Cosa ne pensate di chi pensa che il buddismo abbia una corrente di destra (elitaria) e una di sinistra (sociale). Appunto il Theravada e il Mahāyāna.
La vera differenza è l'idea Bodhisattva. I Mahayana ritengono che siccome il Dhamma trascende anche l'insegnamento del Buddha storico è "più giusto" cercare di fare in modo nel corso delle varie rinascite che più persone "entrino nella corrente". I Theravada invece ritengono che anche se il Dhamma trascende il Canone Pali, essendo la liberazione una cosa molto difficile tale "speranza" dei mahayana rischia di "trattenere" le persone nel samsara. Così almeno è come la vedo io. Ad ogni modo la distinzione tra i due percorsi è meno "netta" di quello che sembra.

Seguendo una argomentazione logica, d'altronde è per me ovvio, che siamo tutti già Buddha.
E che si tratti "semplicemente"(per modo di dire) di consapevolezza.
Ma voi siete ascoltatori o avete superato già qualche ruota?

Nel buddhismo "atman" non è mai esistito, ergo nascita e morte di "qualcuno" sono illusioni perchè quel "qualcuno" in ultima analisi non c'è. Quindi sì in un certo senso puoi dire che siamo già Buddha. Le interpretazioni "nichilistiche" dicono che rimosse le illusioni e cessati i condizionamenti non rimane che il nulla (e sono talvolta pure contenti di dire ciò  ;D ). Altri ritengono che è come purificare l'oro dalle impurità e quindi qualcosa rimane. Stando a quanto mi pare di capire dal Canone Pali la mia posizione è più simile a quest'ultima. Per inciso la mia scuola "preferita" è lo Huayan anche se a dire il vero la conosco molto superficialmente (l'interpentrazione dei fenomeni - la rete di Indra ecc). Per quanto mi riguarda non sono buddhista, l'anatta non mi convince ancora (anche perchè le interpretazioni nichilistiche hanno molto supporto e a me sinceramente il nichilismo non mi piace. Se i nostri valori, la nostra coscienza ecc sono tutte illusioni allora la vita è un semplice errore. Siccome credo invece che la vita abbia valore non sono d'accordo). Questo mi costringe a dire che NON ho superato alcuna "ruota" (inoltre non credo nemmeno alla dottrina delle rinascite se non come metafora - probabilmente se non avessi studiato qualcosa di scientifico avrei accettato questo "dogma".).

Riguardo al commentatore del XI secolo ha per certi versi ragione. La verità eterna è il Nibbana: solo il Nibbana è incondizionato per il semplice motivo che "non si rinasce più". Lo stesso Nobile Ottuplice Sentiero è "condizionato" ("mondano" lo eviterei come termine, per noi significa dire tutt'altro. Di certo i "deva" e gli "inferni" non sono mondani). Tuttavia il Dhamma almeno è un "assoluto epistemologico" ma le sua attualizzazioni chiaramente sono "condizionate" (un concetto simile lo dice Laozi nel Daodejing: "il Dao di cui si può parlare non è l'eterno Dao...i maestri dei tempo antichi praticavano l'insegnamento non detto...colui che sa non parla, colui che parla sa" ecc. Il discorso è che l'espressione della verità incondizionata è condizionata). Il Karma pur essendo "condizionato" è molto vicino ad essere considerato una "legge morale" così "forte" da essere analoga alla "legge di gravità" (questo significa che il buddhismo non è relativista).

N.B. Personalmente ritengo che il "Dharma" ossia la "Verità" non l'abbia (ancora) detta nessuno. Motivo per cui ritengo che sia improprio parlare di "false religioni" anziché di "religioni incomplete".

P.S. La componente "mitologica" del Buddhismo è un altro indizio che fa capire come il Processo della storia secondo il buddhismo non sia illusorio (idem per l'induismo, altrimenti non servirebbero i riferimenti ai kalpas). Però secondo entrambe le tradizioni (così come per il daoismo) la rete concettuale di astrazioni con cui "comprendiamo" la storia è qualcosa da trascendere. Proprio perchè bisogna "trascendere" non riesco a capacitarmi di una possibile concezione nichilistica e la componente "mitologica" è un forte indizio contro a questa.

Nota sul nichilismo: il nichilismo sostiene che esiste solo l'elemento "mondano", ossia che esistano solo i condizionamenti. Tolti i condizionamenti non rimane niente. Lo stesso "incondizionato" d'altronde può essere letto come "libero da condizionamenti" e la "non-esistenza" è libera da condizionamenti. Ad ogni modo il punto che maggiormente sostiene questa lettura è l'ambiguità del Buddha (e di Sariputra, il suo numero due ;)) riguardo a "cosa rimane" tolti i condizionamenti. Siccome in nessun testo c'è scritto che "Nirvana non è non-esistenza" allora chi propone questa lettura dice che in caso contrario una frase del genere dovrebbe esserci stata.

Bellissimo. Diciamo che sei un buddista critico.  ;)

Sì credo però che la cosa interessante è perchè parlare di vacuità invece che niente.

La vacuità è infatti un niente al posto di qualcosa, e cosa sarebbe questo "qualcosa"?

La storia dei nodi l'ho capita poco.

Sul termine induismo.
Sì scusate intendo l'advaita anche se il mio maestro a posteriori ho capito che viene dalla tradizione shivaita. (un mix delle 2 scuole dunque).




Vai avanti tu che mi vien da ridere

Apeiron

Già  ;)  ed è proprio la compassione/metta/karuna ciò che lega queste "vie". La pratica meditativa certamente è utile per comprendere le cose.



In sostanza: in entrambe le tradizioni l'obbiettivo è valorizzare la vita. In un certo senso è passare dalla "vita" alla "Vita". Per dirla in modo "paradossale": la massima "rinuncia" è la massima realizzazione, la massima resa è la massima vittoria e così via.


In genere il problema del matematico "stereotipato" è che pretende chiarezza. Per sua natura ciò che è vago lo spaventa. E inoltre cerca anche una certa coerenza con tutto il suo pensiero.

La mente razionale è come una sorta di "coltello di precisione". Divide e separa, cerca di rimuovere ogni ambiguità. Purtroppo questo non è sempre possibile quindi si rende conto che qualcosa superi la sua "zona di competenza". Finisce per "venerarla" e fare in modo che ogni descrizione "sbagliata" di essa venga rimossa. Motivo per cui l'apofatismo in genere piace ai matematici. Però il rischio dell'apofatismo è che continuando a rimuovere non rimane niente.

Si potrebbe passare a discutere poi della relazione matematica-filosofia indiana. Ci sono molti spunti interessanti. Però è proprio la matematica (e la fisica) una delle cose che mi trattiene dall'abbracciarle. In particolare ho un fortissimo fascino del platonismo, anche questo è molto comune. Concetti di infinito, perfezione ecc sono concetti molto "affini" alla matematica. Idem per la fisica: il mondo è ordinato. Sembra davvero che ci sia un "logos" dentro di esso.

Per quanto riguarda Brahm mi sorprende la sua scelta perchè ha scelto una tradizione molto disinteressata alla scienza. Però tale scelta può essere vista proprio come un'espressione di venerazione dell'"ordine" naturale stesso. Si riconosce che è "oltre" la nostra comprensione e quindi si rinuncia anche a questo. Così come si rinuncia alla filosofia. Se non si rinuncia a scienza e filosofia (che si fondano proprio sul continuo metttere in discussione e voler conoscere cose nuove) è impossibile abbracciare una tradizione rinunciante (in toto). Al massimo si può essere dei "ammiratori e critici" esterni come furono Einstein, Bohm, Schroedinger ecc.  ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)