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Buddhismo

Aperto da acquario69, 16 Febbraio 2017, 04:59:05 AM

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Apeiron

#105
Rispondo ad entrambi i messaggi di Sariputra ;)

Sulla "semplicità". Allora ritengo che nella spiritualità debba essere sempre presente un linguaggio bivalente. Da una parte questo linguaggio deve riflettere il fatto che ci si debba aspettare un "progresso", un "miglioramento" nella consapevolezza, nel carattere, nella prospettiva di vita. Ossia quello che si deve mettere in luce è che dobbiamo "risollevarci" da uno stato "difettoso", o se vogliamo, di "caduta" o di "impurità". Questo approccio ovviamente è "duro", non lascia spazio a molti compromessi, radicale. Questo da un'idea di perfezione come almeno ideale da raggiungere che deve essere per così dire sempre "presente" nelle nostre azioni (almeno intenzionali, il "kamma" buddista - nello giainismo addirittura il "karma negativo" è dato anche da "peccati" non intenzionali. Il giainismo mi sembra eccessivo e preferisco di molto il buddhismo da questo punto di vista). Ora questa perfezione però a sua volta è un ideale e uno stato collegato con quello nostro naturale - o più precisamente uno stato che è "nel nostro potenziale". Infatti se tale perfezione non avesse niente in comune con la nostra natura più profonda, quello che si avrebbe sarebbe una filosofia della disperazione. La cosa interessante è che il daoismo come obbiettivo ha la "semplicità senza desideri (o pretese?)", il nirvana buddista è raggiunto da una mente "senza desideri personali (o pretese personali?)", volendo tale obbiettivo è simile a quello del cristianesimo. Ora è evidente che tale "perfezione" in realtà è uno stato semplicissimo (il Daodejing addirittura dice: Le mie parole sono semplici da capire, molto semplici da mettere in pratica. Ma nessuno riesce a capirle, non nessuno riesce a metterle in pratica. - capitolo 70) ma per motivi vari, perchè abbiamo "altro da pensare e da fare" è addirittura impossibile, anche se tale perfezione è la cosa più "ovvia" che ci sia. E questa è una direzione della spiritualità. L'altra in generale è che bisogna essere in un certo senso tolleranti (vedi l'importanza data dal perdono) con i "peccatori" e con le nostre debolezze (Attenzione: "tolleranza" però non vuol dire non vederle come problematiche o essere permessivi...). Questa seconda parte rende il cammino più "umano" e più "accessibile". Personalmente trovo altamente difficile essere per esempio sempre disposti al perdono, lo riconosco come un "peccato"/difetto/debolezza/mancanza ma non mi "fustigo" per questo, anche perchè se lo facessi non potrei mai progredire (da qui l'idea della "Via di Mezzo" di Siddharta, un vero colpo di genio.). Il problema però è che la società ti fa "avere altro da pensare". Esempio (stupido ma rende): se ho una bolletta da pagare e dobbiamo fare una fila di ore alla posta o un (noioso) problema con la burocrazia (e in Italia da questo punto di vista sappiamo come siamo messi) abbiamo "altro da pensare": diventiamo infastiditi, irritati ecc. Certamente l'essere infastiditi è "dukkha" però è quasi inevitabile visto che la società stessa ci "distoglie". Un altro problema nel cammino potrebbe essere anche l'imporsi regole che ci fanno soffrire e basta e così via. Ergo: quando leggo "le mie parole sono semplici da capire, semplici da mettere in pratica. Ma nessuno riesce a capirle, nessuno riesce a metterle in pratica" mi viene in mente proprio questo. Una semplicità che all'atto pratico è impossibile. Perchè? semplicemente perchè a nessuno viene insegnato di "liberarsi dall'avidità, dall'odio e dal dell'illusione" per dirla con termini buddisti. Per esempio nella società di oggi si predica il valore della "produttività". E se uno non è d'accordo o non è capace di esserlo? Risposta semplice: direi che nemmeno rispondo, mi pare evidente la risposta :( . E uno può seguire il buddhismo ed essere "produttivo"? Volendo sì, visto che il buddhismo vuole purificare l'intenzionalità ma è molto difficile. Causa molti problemi e la notte non si dorme. Si è incompresi e si ha paura di "farsi capire" perchè in fin dei conti quando siamo in preda al dubbio non confidiamo nemmeno che quello che diciamo sia "utile per l'altro" e preferiamo tacere. D'altronde Zhuangzi mette in bocca ad un matto (che però un po' di saggezza per Zhuangzi la possiede  ;) ) queste parole, nel capitolo 4: "tutti capiscono l'utilità dell'utile. Nessuno capisce l'utilità dell'inutile". Ma in una società in cui solo l'utile è apprezzato? E se "nessuno capisce l'utilità dell'inutile" che vita potrà mai avere nella società un "inutile"?  ::) felice?  ::) sì se fosse "perfetto" e "semplice", ma siamo "deboli, imperfetti e complicati" e quindi la nostra aspirazione all'essere inutili, pacifici, all'avere una "mente luminosa, senza avidità, odio e illusione" veramente ci da pace nella nostra vita o è come una croce? La responsabilità di "accollarsi i mali del regno" (capitolo 78, Daodejing) davvero ci rende pacifici e felici oppure nuovamente è un "dukkha" necessario per arrivare a quel senso di "pace" promesso e sperato? Sì concordo che dobbiamo sentire un senso di pace nella nostra pratica. Ma ahimé allo stesso tempo significa anche prendersi sulle spalle "croci" di varia natura...

E qui rispondo al secondo messaggio, visto che le "croci" di cui ho parlato sono i simboli principali di una religione, il cristianesimo. A me non sorprende per nulla che i mistici cristiani, daoisti, indù, buddisti ecc descrivano le loro esperienze in modo simile. Esempio sull'amore. Metta sutta (buddismo): "Come una madre protegge con la sua vita suo figlio, il suo unico figlio così, con cuore aperto, si abbia cura di ogni essere, irradiando amore sull'universo intero". Daodejing (daoismo): "il bene supremo è come l'acqua...[l'acqua] fluisce in luoghi che gli altri disdegnano ed è vicina al Dao" (cap. 8 ), "il saggio nutre le creature senza tenerle come sue, lavora per esse ma non pretende di essere riconosciuto" (cap. 2). Nel cristianesimo ci sono i temi del "dono della propria vita al prossimo che a sua volta è un dono di Dio", della "Croce", l'inno all'amore (inteso come agape) della prima lettera ai Corinzi (capitolo 13) di Paolo ecc. Ora un indiano non è molto diverso da un europeo, un cinese non è molto diverso da un americano, un africano non è molto diverso da un eschimese ecc. Abbiamo diverse culture, molto differenti tra loro ma con molte cose in comune. Non mi sorprende che quindi le esperienze dei mistici siano analoghe: d'altronde un "santo dell'agape" e un sato del metta ritengo che si comporteranno in modo simile  ;) Cos'è "L'eternità si manifestava alla luce del giorno e qualcosa d'infinito appariva dietro a ogni cosa" (citazione del testo citato da Sariputra) se non qualcosa di molto simile a "il Dao è universale" o "ogni essere ha la natura di Buddha"? Se la Pace e l'Amore "semplici ma al tempo stesso perfetti" sono anche incondizionati davvero ci sorprende che si senta come un'esaltazione interiore anche nelle cose più semplici, "insignificanti" e inutili? D'altronde: "il bene supremo è come l'acqua...[l'acqua] fluisce in luoghi che gli altri disdegnano ed è vicina al Dao".

Personalmente ho avuto momenti in cui mi è sembrato di aver "toccato" qualcosa di simile a questa "pace incondizionata" ma sono durati pochissimi secondi (o forse anche "attimi" molto intensi magari durati meno di un secondo). Li ho certamente "toccati" (o semplicemente ho smesso di "agire" - wu wei  ;D - e li ho accolti? ) ma nella maggior parte del tempo sono l'uomo (oppure il "giovane", il "ragazzo"...) "difettoso", "indaguato" di sempre  :(
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#106
@ Apeiron scrive:
Il problema però è che la società ti fa "avere altro da pensare". Esempio (stupido ma rende): se ho una bolletta da pagare e dobbiamo fare una fila di ore alla posta o un (noioso) problema con la burocrazia (e in Italia da questo punto di vista sappiamo come siamo messi) abbiamo "altro da pensare": diventiamo infastiditi, irritati ecc. Certamente l'essere infastiditi è "dukkha" però è quasi inevitabile visto che la società stessa ci "distoglie".

Contemplare la sofferenza, propria e degli altri, non è semplice. Eppure, dopo tutto, il Dhamma è proprio questo: osservare la sofferenza ( la prima Nobile verità...). Sei in un ufficio pubblico in fila da tre ore per una pratica e sta per arrivare il tuo turno finalmente... I piedi ti fan male, le gambe sono anchilosate, la mente è piena di nervosismo, irritata...ma ecco! Adesso tocca a te...In quel preciso momento, come al solito, l'impiegato si alza e se ne va...è la pausa caffè! Terribile!...Vorresti ucciderlo.
Io mi arrabbio continuamente perché voglio controllare il mondo, voglio che le cose vadano come spero e progetto . Qualcosa va storto ( perché qualcosa va sempre storto...) e comincio a soffrire. Quando smetto di combattere con il mondo e inizio a comprendere questa irritazione, questa sofferenza, le cose cominciano a cambiare. Nel buddhismo questa nuova reazione viene definita nibbida . Nibbida è la risposta che nasce dal comprendere che qualunque cosa farai sarà insoddisfacente o che ci saranno problemi. A questo punto si dovrebbe ( si dovrebbe... :() essere abbastanza saggi da non evitarli e non cercare di cambiarli. I problemi fanno parte integrante del samsara. Quando si comprende questo la nostra reazione alla vita si trasforma. Con un esempio si potrebbe paragonare a quando cerchi di mangiare una mela guasta e continui a tirar via il marcio per mangiare il resto. Il problema del samsara, del resto, è che è tutto marcio. Allora si dovrebbe, per il buddhismo...gettare la mela, rendersi conto che non la si può mangiare, è tutta guasta. Capire che si può vivere anche senza la mela, disinteressarsene, lasciarla andare...
Comprendere quindi che il dukkha, la sofferenza, è connaturata al mondo e non possiamo controllarla. Non abbiamo il potere di risolvere questo problema. Al massimo possiamo continuar a tirar via pezzi, sperando che resti qualcosa di commestibile da mangiare...
Nel Dhamma non si cerca di controllare la sofferenza, ma di comprenderne le cause interiori che ci tengono aggrappati ad essa. Ajahn Brahm diceva che:
"Quando siete addolorati o in difficoltà ricordatevi sempre un'importante definizione della parola 'sofferenza': chiedere al mondo qualcosa che non può dare. Pretendere l'impossibile dal mondo. Se chiedete qualcosa che il mondo non può darvi, sappiate che state chiedendo di soffrire."
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Purtroppo seguire il Nibbida è la classica cosa che "dovremmo fare" ma non facciamo  ;D  comunque hai colto perfettamente il segno: il problema è che vogliamo controllare il mondo cosa che è chiaramente impossibile. Stiamo per prendere un regionale e... inaspettatamente vediamo una fila lunghissima alle macchinette della biglietteria. Ci infuriamo perchè con ogni probabilità non riusciremo a prendere il treno. Eppure ciò è chiaramente fuori dal nostro controllo. Imprechiamo contro la gestione della biglietteria ma poi scopriamo che lo abbiamo fatto a torto perchè il flusso di persone era eccezionale. A questo punto imprechiamo contro il "sistema che non va", ma a vuoto. Imprechiamo infine contro noi stessi, ma in realtà di errori non ne abbiamo davvero fatti, visto che non potevamo sapere nulla di tutto ciò. A questo punto imprechiamo contro il samsara perchè è un brutto "processo" (samsara e nirvana sono d'altronde prima di tutto verbi  ;D ). E nulla alla fine la nostra rabbia finisce per buttarci a terra l'umore perchè in ultima analisi siamo peggio di Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Il nemico non c'è, eppure abbiamo un bisogno profondo di "far guerra" per avere il controllo. Proprio questa pretesa di controllo ci pervade e la continuiamo a voler giustificare razionalmente. Poi vai in oriente e vedi i buddisti che ti consigliano di tirar via ogni tentativo di controllo, i daoisti che ti dicono di agire senza agire ;D  Ma solo quando, dopo molte sofferenze, uno capisce che questa "fissa" di controllare le cose che abbiamo porta ancora a sofferenza nosra e altrui allora cominciamo a "risvegliarci" (alla risposta alla domanda se le filosofie orientali condannino la sofferenza direi proprio di no: anzi soffrire è necessario per "risvegliarci"). Ma noi belli "risvegliati" dobbiamo comunque lavorare, pagare le tasse, competere nei concorsi, pensare alla nostra carriera, cercare di tenere una faccia sempre "sorridente" anche quando il nostro umore è a terra, dobbiamo combattere per rispettare le deadlines ecc. In sostanza Eraclito diceva: "Polemos - il conflitto - è il padre di tutte le cose" (frammento 51). Ma mentre FORSE Eraclito ci voleva belligeranti e coraggiosi (interpretazione mia, ma gli stoici la pensavano in modo diverso  ;) ) Buddha e Laozi ci vogliono far "trascendere" da questa condizione di conflitto. Perchè mentre Eraclito (ma anche Hegel e Nietzsche) tuonava(no) che "bisogna essere consapevoli che il conflitto è comune a tutti, la giustizia è contesa e tutte le cose nascono dalla contesa..." (frammento 80)*.  Laozi e Buddha (per esempio ma ovviamente non solo) invece pur vedendo ovviamente "il conflitto" ci volevano proprio aiutare a "salvarci" da tale realtà proprio perchè la "giustizia non è la contesa". Ma come possiamo noi raggiungere la "non-azione" dove riunciamo a controllare le cose (e quindi in ultima analisi rinunciamo alla "contesa") quando dobbiamo per mangiare e vivere nella società combattere? Perchè se magari quel regionale era importante perchè avevo un appuntamento di lavoro in un'azienda alla fine rischio di perdere l'opportunità! Come faccio a non arrabbiarmi per queste piccole cose quando praticamente tutto mi impone di farlo?  ;)  Questo è il motivo per cui "le mie parole sono facili da comprendere, facili da mettere in pratica ma nessuno le comprende, nessuno le mette in pratica" (citazione Daodejing ma probabilmente anche Gotama il Buddha era d'accordo).


http://enlight.lib.ntu.edu.tw/FULLTEXT/JR-PHIL/thomas.htm qui c'è uno studio che compara la filosofia "neoplatonica" di Plotino con la filosofia della scuola Yogacara (e in realtà anche della scuola Hua-yan).

*Nota a piè di pagina: La cosa interesante è che Eraclito (e Nietzsche) ritenevano che "il tempo è un bimbo che gioca ad un gioco di tessere (=quindi il "gioco" segue regole, il logos): di un bambino è il regno" (quindi "innocente"). Inoltre Eraclito e Nietzsche erano polemici con i propri contemporanei... quindi questa "interpretazione" che sto usando è molto probabilmente semplicistica anche se a mio giudizio per entrambi davvero "la giustizia è contesa" (ergo per loro non ci può essere una vita senza guerra, ergo...). Per quanto riguarda Hegel invece i conflitti erano necessari per un "fine superiore". In ogni caso mi sembra assurdo come gli stoici e i cristiani antichi (che preferivano la pace alla guerra) riuscivano a tollerare certe massime del filosofo efesino. Forse sono stati stregati dall'aspetto della sua filosofia che metteva in luce da un lato il flusso degli eventi e l'impermanenza mentre dall'altro il logos come "ordine delle cose". Per certi versi il "difetto" del buddimo è che in esso è quasi assente la riflessione sul "logos" della natura. Da questo punto di vista la filosofia vedanta è molto più sviluppata secondo me - non a caso eminenti fisici come Bohm e Schroedinger erano molto attratti dalla filosofia vedanta.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

@Apeiron

Il dottor David Bohm era anche molto vicino, simpatizzante direi, al pensiero di Jiddu Krishnamurti. Comunque anche il buddhismo attrae i fisici...Lo stesso Ajahn Brahm che ho citato , inglese d'origine, è laureato in fisica teorica a Cambridge e si è fatto bhikkhu theravada nel 1974. Adesso è l'eminente abate del più grande monastero dell'emisfero australe, a Perth mi sembra di ricordare.,,allievo del grande maestro della foresta Ajahn Chah. Poi c'è il famoso fisico Apeiron... ;D  ;D  ;D
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Apeiron

SARIPUTRA
Il dottor David Bohm era anche molto vicino, simpatizzante direi, al pensiero di Jiddu Krishnamurti. Comunque anche il buddhismo attrae i fisici...Lo stesso Ajahn Brahm che ho citato , inglese d'origine, è laureato in fisica teorica a Cambridge e si è fatto bhikkhu theravada nel 1974. Adesso è l'eminente abate del più grande monastero dell'emisfero australe, a Perth mi sembra di ricordare.,,allievo del grande maestro della foresta Ajahn Chah.

APEIRON
Sì ecco ho confuso "advaita" con "vedanta"  ;D Krishnamurti d'altronde non è vedantin ma solo advaitin a quanto pare ;D Ecco Ajahn Brahm oltre ad essersi laureato in fisica ha anche insegnato per un anno... pensa che ormai ho "quasi" deciso di fare il prof al liceo visto che insegnare mi è sempre piaciuto. Poi a quanto pare il mio destino mi farà andare in Thailandia  ;D 



Tornando più serio. Volevo commentare due cose: per quanto mi riguarda la "non-separabilità" accomuna Bohm, Krishnamurti, Advaita, Daoismo e anche Buddhismo sia Mahayana che Theravada. Quindi non mi sorprende che ci siano fisici attratti dal buddhismo. Inoltre l'approccio del Buddha del Canone Pali sembra quasi quello di un matematico visto il suo impegno a chiarificare i suoi insegnamenti, a riformulare le domande che gli vengono poste e così via. In sostanza la "pecca" del buddhismo è che forse è troppo "introspettivo". Motivo per cui il "Logos dell'Universo" non entra nella filosofia buddhista anche se per certi versi la "paṭiccasamuppāda" è una sorta di "Legge della Natura". Il "vantaggio" se vogliamo della filosofia vedanta (ma anche occidentale) è che ha il coraggio di esporsi anche a parlare della natura, del mondo "esteriore".


SARIPUTRA
Poi c'è il famoso fisico Apeiron...    


Ahahah. E magari fossi un bravo fisico  ;D  ;D  ;D  alla fine sono solo un po' "pazzo" (ma Zhuangzi diceva che i pazzi... va beh dai la finisco con l'autoesaltazione  ;D )
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

#110
http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/thanissaro/notself2.html

Il buddhismo come ormai è stato ripetuto ad infinitum è una religione e una filosofia curiosamente molto sistematica ed empirica. Sistematica perchè il sistema filosofico è estremamente rigoroso; empirico perchè - per quanto viene affermato - si fonda sull'esperienza del momento presente. Ora per comunicare tra di noi utilizziamo il linguaggio e nel linguaggio utilizziamo nomi. Il fatto che noi usiamo il linguaggio si fonda sull'assunzione che per certi versi il mondo sia "mappabile" con i nostri concetti. La coppia più elementare di concetti è quella, se vogliamo, di "io" e "non-io", la primissima divisione concettuale che distingue "me" dal "resto". Ora il mondo "esterno" a sua volta viene mappato in varie "parti" e questo mi rende possibile il relativo controllo su di esso.

La cosa curiosa del buddhismo è che si fonda sulla dottrina dell'anatman. L'anatman è una posizione secondo la quale non esiste un "io" separato (attenzione: "separato" non "eterno" fra poco spiego perchè). Secondo il buddhismo una volta stabilita l'esistenza dell'io tutti i filosofi prima di lui si dividevano in due "categorie". Da una parte c'erano gli "eternalisti" secondo i quali vi era un "io" che sopravviveva alla morte del corpo. Dall'altra gli "annichilazionisti" ossia coloro che asserivano che alla morte oltre al corpo "cessa" anche l'"io". In ambo i casi si nota che le filosofie su fondano sull'assunzione dell'esistenza di un "io" separato, distingubile. Un giorno Siddhartha però disse: "ciò che voi credete atman in realtà non lo è, quindi eternalismo e annichilazionismo sono entrambe "concezioni errate"". Da questa fulminea intuzione alcuni buddhisti sono convinti che il "Buddha ha negato l'esistenza dell'io tout court" e/o che "l'unica differenza tra un annichilazionista e il buddhista è che il primo ritiene che alla morte qualcosa venga distrutto, mentre il secondo ritiene che niente viene distrutto" (interpretazione sostenuta da chi dice Nibbana=Oblio). Ebbene sapete già come la penso sulla seconda posizione che a mio giudizio è completamente errata perchè il buddhismo mira alla "trascendenza" e non all'oblio - altrimenti è nichilismo (i sassi sarebbero più saggi perfino del Buddha  e il Nulla ancora più dei sassi ;D ). Per quanto riguarda la prima posizione vorrei però fare una riflessione.

Ora se accettiamo che il Buddha ha creato una teoria metafisica allora noi esseri umani non abbiamo un "io" perchè non abbiamo una "sostanza". E questa è la dottrina della vacuità che è ovviamente compatibile con il canone Pali e le filosofie successive. Tuttavia leggendo l'articolo nel "link" mi è venuto in mente che anche "anatman" potrebbe riferirsi ad una condizione della mente, una particolare "esperienza". Ossia anziché essere una affermazione metafisica sulla realtà e quindi portare all'inevitabile "sunyata" di Nagarjuna potrebbe essere una affermazione epistemologica, ossia una radicale trasformazione della mente. Una mente che a questo punto ha trasceso ogni distinzione perfino quella tra "io" e "non-io", diventando quindi "ineffabile", "incommensurabile" ecc. Con questa interpretazione allora Buddha sarebbe interessato solo alla "sofferenza e alla cessazione della sofferenza" e non a formulare una teoria metafisica della realtà. Questa interpretazione dell'anatman come "strategia meditativa" da un lato (per stabilire che "questo non sono io, non è mio...") e come "esperienza" dall'altro "funzionerebbe" sia con la posizione secondo cui ci sono "sostanze" sia con la posizione secondo cui "non ci sono sostanze". Questo spiegherebbe il motivo per cui Buddha non ha voluto rispondere per esempio se il cosmo era eterno o meno e domande simili. In sostanza il buddhismo in questo approccio non conterrebbe una teoria della realtà bensì sarebbe una sorta di tecnica, una "via" per raggiungere una "mente liberata". Personalmente appoggio questa seconda opzione perchè evita le difficoltà dell'affermare la teoria metafisica della vacuità. In genere ritengo che Buddha volesse "spazzare via" anche le posizioni come "io sono un tutt'uno come l'universo" (che dopotutto non riesco a distinguere dalla teoria della "vacuità") perchè è una teoria metafisica a cui ci si può (erroneamente ?)"attaccare".

Ossia il buddhismo non porterebbe a negare l'io bensì a raggiungere uno stato in cui non si ha più la concezione di essere una entità separata e distinta. Questo spiegherebbe la forte affinità (che non significa "uguaglianza" !) dal punto di vista filosofico con le filosofie daoiste e advaita.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

@Apeiron scrive:
 In sostanza il buddhismo in questo approccio non conterrebbe una teoria della realtà bensì sarebbe una sorta di tecnica, una "via" per raggiungere una "mente liberata". Personalmente appoggio questa seconda opzione perchè evita le difficoltà dell'affermare la teoria metafisica della vacuità.

E' esattamente questo il significato, secondo me, delle ripetute affermazioni di Siddhartha sul fatto che lui insegna solo il dolore e la sua cessazione. Buddha non ha interesse a formulare una nuova teoria metafisica, non è lo scopo per cui ha abbandonato gli agi e i piaceri del palazzo paterno. Ha visto" nascita, vecchiaia, malattia e morte" e vuole trovare un modo per sfuggire a questa sofferenza, non vuole più ri-nascere e continuare così a sperimentare nascita, vecchiaia, malattia e morte. Già in questa vita, con la realizzazione della Liberazione, non sperimenta più la ri-nascita del dolore causato all'attaccamento ai dhamma mondani: il dolore e l'angoscia esistenziale causati da questo. Il corpo, per effetto del karma precedente, continua la sua corsa finché, logoro, vecchio e ammalato non giunge alla dissoluzione. Il karma, invariabilmente, deve giungere a maturazione.
Quindi passa anche il Buddha Shakyamuni e resta il suo Dhamma, il suo insegnamento, come un manuale d'istruzioni per giungere a sperimentare quello stato libero dal fuoco dei dhamma mondani (dhamma come cose/fenomeni...),  quella libertà che dà vero sollievo, vera pace , quel ritrarre la mano ( la mente ) dal calore doloroso della vita ( "Tutti i dhamma sono in fiamme"...). Un manuale per poter vivere lo stesso stato vissuto da Siddhartha, e che lui ha definito come Nibbana/Nirvana ( estinzione/cessazione della fiamma.. questa inesauribile sete d'esistenza, quest'arsura dolorosa).

"Il buddhismo non porterebbe a negare l'io bensì a raggiungere uno stato in cui non si ha più la concezione di essere una entità separata e distinta. "

Qualora si realizzasse uno stato in cui non vi è più una concezione di "essere un'entità separata e distinta", l'io si sarebbe già dissolto perché la sua esistenza si fonda proprio sul fatto di ritenersi un'entità separata e distinta. L'io, come designazione mentale e innato senso di autoidentificazione che la mente fa dei suoi aggregati di cui fa esperienza, ovviamente esiste, ma è "vuoto" (shunya) di esistenza intrinseca, ossia vuoto di esistenza autonoma al di là dei fenomeni di cui può far esperienza. Nel buddhismo la consapevolezza/autocoscienza non è l'io , me è vinnana, il senso interno della mente. L'io è una struttura mentale che sta tra phassa ( contatto) e vinnana ( coscienza) ed è pertanto un prodotto dei cinque aggregati. Il Dhamma budhista mira ad ottenere uno stato in cui la mente, liberatasi della sua identificazione con il senso dell'io/mio, dimora in uno stato reale ( quindi non illusorio o concettuale) di saggezza "naturale" ( prajna) e di compassione "non pelosa" (metta/karuna).
Il Nobile Ottuplice Sentiero è la medicina , il purgante che indebolisce il poderoso senso dell'io/mio che giganteggia nelle nostre vite.
Nel buddhismo tutto passa nella relazione tra phassa e vinnana e viceversa tra vinnana e phassa, l'uno influenza l'altra, "c'è questo perché c'è quello"...tutto il processo è condizionato da avidya ( ignoranza della vacuità e relativo/conseguente inevitabile attaccamento a nama-rupa [nome e forma]...). Vinnana è l'elemento che è legato alle formazioni karmiche, pertanto è vinnana che ri-nasce di vita in vita, di esistenza in esistenza, sempre esperimentando dukkha (sofferenza). Pertanto c'è rinascita e non reincarnazione-trasmigrazione nella concezione buddhista. Non è l'io effimero che rinasce, ma le formazioni kammiche che alimentano la comparsa nel ciclo del samsara della coscienza/vinnana.

« Il Buddha disse: "Che cos'è che si chiama senso primo della Coproduzione condizionata? Perché esiste quello, esiste questo ...
Condizionate dall'ignoranza
compaiono i coefficienti karmici;
condizionata dai coefficienti compare la coscienza;
condizionati dalla coscienza compaiono nome e forma;
condizionati da nome e forma compaiono i sei sensi;
condizionati dai sei sensi compare il contatto;
condizionata dal contatto compare la sensazione;
condizionata dalla sensazione compare la "brama";
condizionata dalla brama compare l'attaccamento;
condizionata dall'attaccamento compare l'esistenza;
condizionata dall'esistenza compare la nascita;
condizionate dalla nascita compaiono vecchiaia e morte, tristezza e sofferenza.

È ciò che si chiama il grande aggregato intero dei dolori. È tale ciò che si chiama il senso primo della Coproduzione condizionata »
(Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a)

Questo processo funziona esattamente anche all'inverso, per questo parlavo di come il contatto influenza la coscienza e di come la coscienza si crei il proprio contatto spinta dall'ignoranza e dall'attaccamento. :)
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Apeiron

#112
Grazie della chiarezza e della risposta istruttiva, come sempre Sari  ;)

Volevo però fare una precisazione. La teoria meta-fisica della realtà della Coproduzione Condizionata afferma che non esistono entità separate. Questa è la "filosofia" buddhista. Il problema è che non ci sono "prove" di una tale "teoria", è un dogma da accettare o rifiutare per fede. Il problema è che se io mi metto a dibattere con un filosofo "buddhista" e chiedo: "come fai a essere sicuro della validità della teoria?" all'inizio mi dirà "caro Apeiron, guarda anche che i buchi neri prima o poi seguono la legge dell'impermanenza...". Io a questo punto dico "sì amico mio ma non hai dimostrato la teoria anche se riconosco la sua ragionevolezza"... a questo punto per sostenere le parole del Buddha mi viene detto "ehm, le parole del Risvegliato sono confermate perfino dai buchi neri, allora è certamente vero"- il problema è che dal punto di vista filosofico non si può procedere così, è ancora un "ipse dixit". E si ritorna a quello che dicevo pagine e pagine fa, se la Coproduzione Condizionata la prendiamo come teoria della Realtà allora ovviamente dobbiamo ammettere che il Buddha ha peodotto una "teoria infallibile" della Realtà.

Ma il mio post (e anche il tuo) mostrano che c'è un'altra possibilità. Ossia che il Buddha non ha prodotto alcun dogma ma ha solo insegnato "la sofferenza e la cessazione della sofferenza"! Infatti quello che dicevo io era che il Buddha era unicamente interessato al "curare" la relazione che noi abbiamo con la realtà, non a fornirci una "teoria a supporto". In questo caso anche se in realtà ognuno possiede un "atman" il buddismo rimarrebbe potenzialmente "vero", perchè alla fine della fiera sarebbe una terapia dell'atman stesso, rendendolo "puro" - ossia senza la continua sete di "io/mio". Ad ogni modo, onestamente non riesco a capire perchè mai la presenza di un atman condurrebbe all'attaccamento-avversione quando a mio giudizio è possibile pensare ad "atman" senza attaccamento-avversione e perfino liberi da io/mio.
Per esempio Meister Eckhart scrisse: "tutto sarebbe donato a chi rinunciasse a sé stesso anche solo per un istante". Ok che il cristianesimo crede nell'esistenza di un "io separato" ma una frase del genere è molto "buddhista". D'altronde la rinuncia "a sé stesso" è quella di chi non pensa più in termini di "io/mio". In questi termini secondo me Eckhart ha espresso un pensiero compatibile con il buddhismo ma non con la "teoria metafisica della vacuità/coproduzione condizionata". Ovviamente un buddhista potrebbe ritenere di avere il diritto di dirmi: "no Apeiron, perchè Eckhart è un eternalista, quindi tu che li metti in relazione dichiari un falso Dhamma. Questo ti conduce solo ad accumulare sofferenza nel lungo termine sia a te stesso che agli altri perchè chi ti ascolta ovviamente apprende un falso Dhamma e potresti commettere "Anantarika-karma" se crei uno scisma....". Me lo può dire solo se non ammette la possibilità che la Liberazione sia possibile anche se la Coproduzione Condizionata non è una "teoria metafisica".
Questo in genere è il motivo per cui non potrei mai seguire le orme di Ajahn Brahm (a meno di cambiare idea...) ;D. Non riuscirei mai ad impormi la convinzione che un principio come la "Coproduzione Condizionata" debba essere letta in un modo anziché in un altro. Come ho già detto sono più un misto tra Platone e Pirrone. Nella mia "visione" dell'anatta il Nirvana potrebbe essere, in linea di principio, ottenuto anche da persone che hanno fedi diverse dal buddhismo e che non seguono il Nobile Ottuplice Sentiero. Ma questo contraddice la Maha-Parinibbana Sutta.

Ragion per cui per certi versi preferisco il Daodejing e lo Zhuangzi, libri i cui autori anche se hanno formulato una teoria sulla Realtà non hanno mai dichiarato (da quanto ne so io) di essere infallibili. Tutta la questione dello "scisma" a mio giudizio nasce proprio dalla convinzione che il Dhamma non è "solo" una "terapia" bensì una descrizione infallibile della Realtà. Se fosse come solo una "terapia" tutti potrebbero essere "buddhisti", non solo quelli che "hanno fede nel Buddha (o più precisamente coloro che ritengono che le suttas dicano la "verità")"  ;) L'approccio dei due testi daoisti è molto meno "aggressivo" contro le altre culture e visioni, almeno per quanto sono riuscito a vedere.

P.S. Se i buddhisti ritenessero che il buddhismo è solo una terapia di certo si vedrebbero dibattiti di questo tipo nei monasteri. Invece questi dibattiti sono impossibili nei monasteri stessi, così come ad un monaco cattolico non può venire in mente di negare la Trinità. Un filosofo invece riconosce certamente la sua "ignoranza" (ossia la "saggezza socratica") ma allo stesso tempo può apprezzare le dottrine delle varie religioni. Un filosofo cerca il Bene e la Verità indipendentemente dalle dottrine lette, conosciute ecc. Con ciò non voglio "attaccare" chi si affida ad una dottrina o l'altra ma non si può nemmeno dire che chi si affida a tali dottrine sia solo "filosofo" - è un filosofo religioso. Però ecco questo è ciò che ha distanziato il "Siddharta" personaggio dell'ononimo romanzo di Hesse dalla dottrina di Gotama (nel racconto del romanzo ovviamente) - non a caso dal punto di vista esperienziale mi ritrovo molto nella vicenda umana di Hesse anche se a differenza sua non sono cristiano.
Ma se ci sono "altri sentieri" allora quel passo del Maha-parinibbana sutta dimostra o che il Buddha non era infallibile oppure che è stata una aggiunta successiva oppure che la nostra interpretazione è errata ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Sicuramente chi si affida ad una particolare dottrina spirituale e vi ripone la sua fiducia non è un filosofo nel senso stretto del termine, ma aspira a qualcosa di enormemente grande. Vuole tutto in poche parole. Eppure per raggiungere questo tutto il sentiero che ti sforzi di seguire ti chiede, come nel buddhismo, di rinunciare a tutto, compresa la tua volontà di aver tutto. Oltre a questo ti chiede persino di rinunciare a te stesso, al tuo attaccamento all'idea di raggiungere la "verità". E questo non è un obiettivo che si pone un filosofo che vuol comprendere concettualmente una dottrina. Infatti è il filosofo che chiede: dimostrami  che la tua dottrina è vera, così che la possa preferire ad un'altra. Mentre l'aspirante al tutto, famelico di tutto, ode una parola ( di "vita eterna", come dice Pietro a Yeoshwa...) e corre ad investire la sua vita in quella precisa parola. Perchè è proprio quella parola che trascende, che crea uno squarcio nell'ossessione di "afferrare" la verità con il pensiero.
Nel caso del paticcasamuppada buddhista, la catena di co-produzione interdipendente, la coerenza appare al praticante, al meditatore tra le coppie stesse degli anelli. E', come dice il Buddha, perché esiste quello  che anche questo esiste.  E' nella pratica stessa che, per esempio, posso vedere che dal contatto nasce la sensazione, e come dalla sensazione nasce l'attaccamento all'esistenza , e così via...
Ma paticcasamuppada non può, come giustamente scrivi, essere definita come una teoria scientifica sulla realtà. Non è dimostrabile scientificamente. Paticcasamuppada è sempre un'esperienza  della mente che pratica "il vero ascetismo". Quindi si tratta sempre di un piano spirituale di conoscenza. O di un piano mentale se preferisci...
Il Buddha ha sempre messo in evidenza che il suo è un insegnamento (Dhamma) in cui si può trovare il vero ascetismo, vuoto di dispute e che invita a venire a vedere. Non ha mai affermato che non possano esistere altri sentieri in cui vi sia questo vero ascetismo. Quindi la centralità è sempre del Dhamma e non della figura storica o mitologica, leggendaria di Gotama Siddhattha. E' la medicina che guarisce la malattia, il Buddha è solamente il medico che invita a prenderla.  E  l'unica dimostrazione che può dare è il far vedere come la medicina l'abbia realmente guarito, come ha guarito lui stesso. E qui entra in gioco il discorso sulla "fede", che contraddistingue qualunque forma di pensiero religioso. Se non hai fiducia che la medicina che il Buddha ti invita a prendere sia  quella giusta ( "dimostramelo" dice il filosofo o lo scienziato al medico) non la prenderai, o la prenderai "un poco", giusto un assaggino per vedere che effetto fa, ma non andrai fino in fondo con la cura e quindi , in un certo senso, tu stesso la invaliderai, ritenendo alla fine che "non funziona". Ma è possibile anche che quello che non ha funzionato sia stato l'approccio...
Molti pensieri ed esperienze possono essere 'affini' a quello buddhista. La saggezza intuitiva naturale della mente (prajna) non è circoscritta a chi opera la tonsura e si infila la kesa ( tonaca ). Farsi monaco è utile casomai per avere uno stile di vita, un'opportunità per sviluppare con maggior vigore la pratica meditativa senza tutti gli obblighi e adempimenti della vita ordinaria nella società.
Poi , aver intorno a sé altre persone che condividono il cammino, può essere utile per approfondire, sviluppare o mettere in discussione la bontà del proprio impegno o della propria coerenza.
Ma si può praticare e seguire i cinque precetti anche senza farsi monaco. Vimalakirti viene indicato spesso come esempio di persona laica egualmente "illuminata".
Sempre restando nella metafora del medico e del malato  direi che il Dhamma originario di Buddha , come viene tratteggiato nel Canone Pali, è "duro", spietato quasi. Non lascia nulla alla consolazione umana. Sembra che il medico ti stia operando senza alcun anestetico. Non si cura di spazzare via tutto, senza lasciare un "contentino" all'io/mio del paziente. E' assolutamente pre-cristiano in questo senso. Sei avvolto nell'ignoranza, ti dice senza tanti giri di parole. Devi liberartene, punto. Il tuo bene non è "sentirti bene" ma liberarti dall'ignoranza. Non vuoi farlo? "Così come a te, ora, bene pare. vai in pace." Di fronte a questa asciutta schiettezza, questa sistematica opera di demolizione, capisco perfettamente che il daoismo, il brahmanesimo, le espereinze mistiche dei vari monoteismi, abbiano un sapore molto più "dolce". Questi parlano della gioia dell'incontro con l"assoluto" , con il "trascendente", quello invece si accanisce sulla tua sofferenza cercando di estirparti tutto il pus purulento...
Io, se fossi stato il Siddhartha di Hesse, sarei rimasto nel bosco di bambù, anche se fa molto male... :(
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#114
Sì concordo il Canone Pali è durissimo, un percorso letteralmente senza compromessi. Qualsiasi "opinione" che si discosta viene definita "pericolosa", "erronea", "eretica" ecc. Si afferma poi che tutti i problemi nascono dalla "visione errata", ossia dall'avere un'opinione diversa da quella del Buddha. Su cosa? su sé stessi e il mondo. Infatti come era da tradizione nell'India il comportamento discende dalla propria "concezione" del mondo. Quindi se uno ha una concezione sbagliata, i suoi comportamenti sono sbagliati. Buddha dice rinuncia a tutto. E "tutto" significa: dubbio, incertezza, curiosità all'infuori del Dhamma, brame, attaccamenti, avversioni... E cosa rimane dopo aver rinunciato a tutto? Beh Niente  ;D o come diceva Schopenhauer "niente" in relazione al "tutto". Ma la cosa che a me sorprende molto è il successo del Buddhismo nell'occidente quando filosofie come quella di Schopenhauer vengono "bollate" come "pessimiste". Per certi versi il Buddhismo del Canone Pali è anche peggio perchè mentre Schopenhauer lascia intendere che il "nulla della non-volontà non è il nulla assoluto", questo "contentino" non è nemmeno lasciato dal Buddha, anzi il buon "numero due" Sariputra dice: "l'assenza di sensazioni è la felicità". In sostanza la cura non corrisponderebbe alla morte solo perchè l'io è illusorio. Ma di fatto sì! E anzi: chiunque la pensa in modo diverso è destinato a un lunghissimo cammino di sofferenza visto che il meglio che può aspirare è una rinascita nei "paradisi" ma ciò che sta in alto nella ruota finisce in basso. Ma è davvero questo l'obbiettivo? Perchè se è così allora il buddhista ha lo stesso obbiettivo dei suicidi: dire che niente ha valore intrinseco e che l'io è illusorio finisce - se preso con zelo e rigore - per voler dire "la mia cura che ti sto dando non è un'eutanasia solo perchè in fin dei conti tu non esisti"  ;D  Bastava una frase, un solo sutta, un verso che dicesse "Nibbana è trascendenza" o "Nibbana non è il Nulla" e queste perplessità che in fin dei conti allontanano dal Dhamma sparirebbero, almeno in parte, e sarebbe più facile "conquistare" un po' tutti (in realtà volendo ci sono ma sono completamente fumose, come ad esempio "il Tathagatha non può essere classificato" - se non è trascendenza questa ;)... ma nuovamente anche l'Oblio non può essere classificato con "definizioni positive" quindi si ritorna al punto di partenza). E invece no... in sostanza è come se Buddha dicesse "tutto è futile e tu non esisti ma hai la testa in fiamme, quindi cosa aspetti a porre fine a questa farsa? ma attento non te la cavi nemmeno con la morte perchè poi rinasci in una vita vana e illusoria in cui soffri anche se tu sei illusorio. Se vuoi evitarti questa perdita di tempo he chiamiamo "vita" ti offro la morte definitiva perchè tutto è futile e tu sei illusorio." - ahimé il Canone Pali può essere accostato anche a questo e mi sconvolge l'assoluta facilità con cui tanti monaci si "bevono" il Dhamma senza porsi questo problema - d'altronde quello che sinceramente mi da più "fastidio" non è l'assenza dell'"immortalità" bensì l'asssenza di qualcosa che possieda valore intrinseco. Ma allo stesso tempo c'è una luce in fondo al Tunnel... ossia il riconoscere che "la vita più autentica" è proprio di quelli che sono "privi di sé" e in tal caso la "morte definitiva" in ultima analisi è "l'espressione più alta della vita" e in tal modo quel "Niente" in realtà sarebbe il Vero Tutto, un qualcosa degno di essere enormemente grande. Ma qual è il problema: l'onestà intellettuale. Davvero, dico io, un monaco deve accettare di "buon grado" una filosofia che può significare "tutto è futile e anche tu sei illusorio ma hai la testa in fiamme, quindi cosa aspetti a porre fine a questa farsa?". Secondo me - personalissima opinione - tanti monaci, specie occidentali, sono anche molto ingenui dal punto di vista filosofico, altrimenti non mi spiego questa "felicità" che hanno quando si mettono a parlare del Dhamma senza ammettere che il Nirvana potrebbe essere un "tipo di mente". Poi eh... sarà la mia follia o la mia brama o il mio orgoglio a farmi dire queste cose, ma sinceramente il tutto mi lascia perplesso. Posso capire ad esempio uno che si sacrifica anche senza speranza speranze ultraterrene ma lo fa per "amore" ritenendo che l'amore sia una cosa con valore intrinseco, non riesco a capacitarmi della motivazione che possa portare un uomo a rinunciare a tutto in cambio di niente, nemmeno una convinzione di dire "cerco ciò che ha Valore Intrinseco". Mi scuso per il messaggio ma mi pare evidente o che noi "comuni mortali dubbiosi" siamo dei semplici folli accecati da quel simpaticone di Mara che parlano senza cognizione di causa, oppure mi pare altrettanto evidente come la motivazione che spinge un buon numero di monaci sia una delle seguenti: o non è molto diversa da quella del "nichilista" che cerca la morte oppure per una irrazionale fede nell'essere sicuro che le espressioni "positive" riferite al Nirvana non siano semplicemente dei palliativi e che i "nichilisti" in realtà hanno ragione.

Questa riflessione mi fa capire perchè in fin dei conti, a parte i Sautantrika, siano stati "costretti" a "postulare" una certa metafisica del Nirvana. Per i Sarvastivadins il Nibbana era una "cosa esistente", per i Theravada non è da intendersi come "semplicemente non-esistente" ma è "una realtà", i Pudgavaladins e erano più o meno eternalisti e molti Mahayani in fin dei conti dicono che "non è la non-esistenza". Ma ahimé nulla è più coerente dell'interpretazione "logica" dei Sautantrika e nulla è più coerente ad una geniuna perplessità rispetto a tale interpretazione ;)

Ma ormai mi sono accorto di essere divenuto fin troppo ossessionato dalla questione  :( un buddhista Zen "per compassione" mi starebbe bastonando (e non avrebbe tutti i torti) per calmare la mia "mente di scimmia"  ;D . Con questo discorso volevo mostrare tre cose: 1) il voler essere "privo di desideri" non siginifica l'essere convinti che ad esempio l'io non esiste - ossia è ben pensabile vedere qualcuno con un "io" ma senza (o quasi) alcuna preoccupazione individuale (un santo) e in genere un "santo" di una tradizione non buddhista sarà più vicino al "santo buddhista" di quanto lo sarà mai un "sempliciotto" come me 2) che una interpretazione "completamente negativa" delle parole del Buddha (o dei suttas) è ben plausibile e secondo me non è così attraente, non mi "smuove" per nulla se non per dare un po' di "terrorismo psicologico" 3) interpretazioni diverse dalla (2) non sono più plausibili della (2) se si ascolta solo "il cervello" ma anche "il cuore" quando si leggono i discorsi dei suttas. Si deve per così dire ascoltare anche il "cuore", ma il "cuore" è molto legato alle brame quindi... boh.


Finire un mega-discorso con un "boh" ormai mi succede in continuazione, probabilmente non ha nemmeno senso quello che dico  ;D anche perchè questo mio discorso apparentemente "anti-Buddha" non aveva alcuna intenzione di essere tale, perchè chi può essere contro qualcuno a cui è attribuito il Metta Sutta? Maledetto e allo stesso tempo benedetto Logos umano, che ci (non uso "mi" ma "ci" perchè di certo non sono l'unico  ;D ) fai combinare?  :o

Aggiunta: So benissimo che non ha senso discutere su cose già dette dopo che si è stabilito che sono cose oltre ogni discussione... "So" benissimo che la Cessazione non è quella cosa. Ma come dici tu, Sari, una cura senza anestetico può dare l'impressione di una tortura. Ad ogni non ritengo nemmeno che il buddismo non abbia una "prospettiva" eterna e ritengo he Il Supremo Obbiettivo sembri il Nulla ma in realtà è...  Per dirla alla Schopenhauer: "Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.". D'altronde come già ho accennato più uno è meno preoccupato per sé, più vive di più anche se sembra che viva di meno. Se uno non ha più una prospettiva individuale e a differenza dei sassi l'ha trascesa a questo punto vive al massimo anche se sembra che non viva più. In questo modo, per certi versi, il Parinibbana sembra la morte ma in realtà è in un senso importante la Vita... ad ogni modo le mie perplessità di vedere alcuni monaci sempre sorridenti rimangono, secondo me non si sono ancora resi conto di quanto il Nibbana somigli al Nulla e di quanto sia errato avere riverenza per il Nulla. Socrate per esempio non aveva molti problemi con l'annientamento alla morte dell'io ma riteneva che in ogni caso bisognasse seguire il Bene e la Giustizia anche se questo poteva significare molta sofferenza... ma il Bene e la Giustizia erano valori "eterni" o più precisamente che trascendevano l'esistenza individuale e aveva senso spendere la propria vita per essi. Ritengo un peccato che nel buddismo non si parli dell'assiologia, ossia lo studio dei valori. Altrimenti se il "nibbana è solo la cessazione della sofferenza" il Nobile Ottuplice Sentiero sembra semplicemente una ricerca della propria "cessazione della sofferenza", una sorta di edonismo mascherato. Ritengo ben più "alto" accettare la propria sofferenza di un obbiettivo simile. Ma come ho già detto questo deriva da una lettura troppo "letterale" del Canone Pali. Questo approccio letterale confonde il simile con l'uguale ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

#115
Chiudendo il discorso del messaggio di prima (ossia se il buddista è un filosofo "puro" - qui concordo col il primo paragrafo del Sari, se Nibbana= Nulla ecc) vorrei però fare una domanda sull'etica buddhista (ma ovviamente se qualcuno vuole riaprirlo può farlo).

Nel pensiero "occidentale" in genere si sente dire la frase (con cui ovviamente concordo) "si deve fare il giusto perchè è giusto, indipendentemente dalle conseguenze" - motivo per cui come ho citato prima Socrate (o il Platone dell'Apologia) non era davvero interessato alle conseguenze nella vita dopo la morte, seguiva la convinzione che "fare il giusto ha valore intrinseco". Nel caso del buddhismo invece una frase come "si deve fare il giusto perchè è giusto" è vista come "vera" o no? Voglio dire l'azione si definisce "giusta" per le sue conseguenze? O più precisamente ci sono filosofi buddhisti - non necessariamente antichi - che hanno esplorato questa tematica in modo analogo ai filosofi "occidentali"?  ;)

N.B. Per me l'etica consequenzialista è un "passo indietro" rispetto all'etica che contempla il comportarsi secondo "il giusto perchè è giusto". Ovviamente per definizione l'Arhat si comporta in questo modo visto che è "disinteressato", ma ero curioso nel sentire se c'è una letteratura buddista sul tema... anche se non credo visto che per loro è "papanca"

Edit: Sull' infallibilità del Buddha ossia incapacità di errore etico e dottrinale segnalo questp https://dhammawheel.com/viewtopic.php?t=22342
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#116
@Apeiron
Il buddhismo è pieno di valori positivi: c'è la gioia, la libertà, la compassione, la benevolenza, la beatitudine, la calma, la tranquillità, per esempio.  Quindi non stiamo parlando del manuale del perfetto suicidio senza residuo. Nel Dhamma però manca totalmente l'idea , che viene dal pensiero greco-cristiano, che il mondo sia un "bene" e che la vita materiale e sensibile "nel mondo" sia bella ( perché voluta da un Dio-Bene che l'ha creata per noi...). Pertanto il concetto di "giusto" appare un pò diverso. E' giusto ciò che sopprime la brama , l'odio e l'illusione, perché questo permette di realizzare uno stato mentale di autentica compassione. Il bene autentico poi viene da sé, dalla mente liberata. La moralità (sila) è quindi fondamentale, è la pietra su cui costruire l'edificio meditativo  che può sfociare nella saggezza e quindi nel bene.  La vacuità dei fenomeni non li consegna all'irrealtà, ma toglie solamente l'illusione che siano dotati di "sostanzialità", ossia della proprietà di essere autonomi, separati . E' come svegliarsi da un lungo sonno. Mentre sogni ritieni vere le immagini e le vicende del sogno, ma al risveglio percepisci una realtà diversa e comprendi di aver solo sognato. Per questo Chokei (Chang-ching), dopo venti lunghi anni di studio del Dhamma, alzò la tenda e vide il mondo esterno, perse la precedente comprensione ( concettuale) e disse:
"Come mi sbagliavo! Come mi sbagliavo! Alzo lo schermo e guardo il mondo! Se qualcuno mi chiede quale sia la filosofia che io capisco gli darò immediatamente un colpo sulla bocca con il mio hossu"
Qui Chokei parla dell'esperienza del satori, dell'illuminazione e non solo non spiega con il linguaggio ciò che vide quando lo schermo fu alzato ( inteso come i kilesa,le contaminazioni mentali) ma respinge qualsiasi domanda che potesse essergli posta sull'argomento e giunge persino a "minacciare" l'interlocutore se anche lui non tiene la bocca chiusa. Chokei sa che, se qualcuno tentasse di pronunciare anche una sola parola, di dire "questo" o "quello", la reale definizione mancherebbe il segno.
Tu vorresti, "avresti bisogno" si potrebbe dire che i testi ti spiegassero concettualmente cos'è la Cessazione, ma qualunque definizione mancherebbe il segno, come racconta la storiella che ho riportato.
Io uso spesso , per definirmi, il termine "zucca vuota"  ;D. ..In realtà è un'espressione tipica buddhista quella di paragonarsi la testa ad una zucca...
La mente di Saichi è come una zucca sull'acqua,
che galleggia sempre, Sospinta dai venti,
Navigando
Verso la Pura Terra
La vacuità della mente ( dal peso della brama, dell'odio e dell'illusione...) le permette di "galleggiare" verso il Nibbana che non si ottiene con la volontà di ottenerlo, ma che si realizza quando si rende "vuota" la zucca...La vera esperienza della vacuità è quindi l'esperienza di una vita "trascendente".
Nell'Aranavibhanga sutta Siddhartha distingue due tipi di piacere: quello sensoriale e quello della rinuncia. Il primo è un piacere che acquisisce ( oggetti  ed esperienze e si lascia coinvolgere da essi..), il secondo è quello del Dhamma, ossia del lasciarli andare, del lasciarli sfumare, della loro scomparsa e della rinuncia al controllo.
Da ragazzino  ricordo che , qualche volta, mi capitava di avere dei pomeriggi senza compiti . Allora me ne andavo per la campagna, passeggiando tra i filari delle viti. Toccavo le foglie , mi fermavo ad osservare...in quei momenti non avevo desideri, nè voglia di giocare o fare qualcosa. Mi piaceva semplicemente assaporare la calma e la tranquillità .  Era un'esperienza di vacuità, in un certo senso.  La calma data dal pomeriggio "vuoto" dai compiti e da ogni impegno, da ogni gioco. E' uno dei ricordi più preziosi che serbo. Forse i pomeriggi più memorabili della mia adolescenza. Ero già un pò "strano"... ;D
Perchè la meditazione sia fruttuosa andrebbe praticata con lo stesso spirito. Non bisogna appesantirsi la mente con ogni sorta di concetti o di aspettative...si dovrebbe semplicemente dimorare nel piacere che dà la calma della mente, il suo acquietarsi. Sopra scrivevo dell'importanza della semplicità. Ecco...la semplicità è come piantare un seme: le cose poi iniziano a crescere da sé. Se il terreno è buono, non occorre controllare...che crescano. Nel buddhismo questa semplicità, portata nella meditazione, conduce ai jhana e quindi all'uscita dal samsara.
La meditazione quindi dà felicità autentica. Non c'è alcun annichilimento, alcun suicidio. E' proprio perché facciamo spazio ( vuoto) nella zucca che può dimorarvi una felicità e una compassione autentica.
E' una felicità dal gusto diverso da quella che otteniamo dal piacere sensoriale . Diventa un veicolo di quiete e poi, infine, di libertà...
Più si procede sul cammino della Cessazione e più , a parer mio, si capisce la genialità dell'insegnamento di Siddhartha.
Ti lascio con un altro passo del tuo collega fisico, Ajahn Brahm:
Quando si assapora uno stato di vera pace, fiorisce la beatitudine e allora tutto l'Insegnamento ci appare nel nostro stesso cuore. L'intero Tipitaka vi si schiude davanti, mentre i sensi svaniscono e la mente conosce i vari stati di beatitudine.. I khanda vengono visti nella loro realtà. capite perché si dice che i sensi sono in fiamme, perchè sono sofferenza, e provate un senso di stanchezza. Avete un moto di rifiuto, o nibbida; dalla nibbida viene il viraga (sfumare), e dal viraga la cessazione. Ecco in che modo ci si libera. Il sentiero, la comprensione, la gioia, la meditazione profonda, sono nel vostro cuore.
Sulla strada del bosco
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Apeiron

Nietzsche si divertiva a dividere le filosofie e le religioni in due classi "affermatrici della vita (o del mondo)" e "negatrici della vita (o del mondo)". Nella prima classe ci ha inserito di tutto: cristianesimo, platonismo, filosofia di Schopenhauer, buddhismo, alcune scuole vedanta, spinozismo ecc. Nella seconda classe ha inserito: la sua filosofia e forse quella di Eraclito ( ;D ) e alcune scuole vedanta. Questo perchè a suo dire tutte le filosofie a parte la sua e quella di Eraclito erano un rifiuto al mondo, alle passioni, ai desideri ecc. Nel caso di platonismo e cristianesimo ovviamente il desiderio era spostato. Nel caso della filosofia di Schopenhauer, buddhismo ecc invece si aveva un "rifiuto" del mondo. Per quanto riguarda Eraclito scrisse: "vedere il mondo come un gioco divino oltre il bene e il male: in questo Eraclito e i Vedanta sono i miei predecessori". Ora il "povero" Nietzsche a mio giudizio fece un errore grossolano, ossia non si rese conto che anche le filosofie che da lui erano "negatrici della vita" in realtà davano il massimo della vita. I cristiani nella "gioia della Lode divina", i platonisti nella "contemplazione delle Forme, specie quella del Bene (quest'ultima se vuoi è la mia attuale "concezione di Assoluto")", i buddhisti nella Cessazione ecc. Tu giustamente mi fai notare i valori positivi presenti nel buddismo che ogni tanto mi dimentico (come vedi sono una "zucca vuota" anche io  ;D ): d'altronde è proprio l'assenza di desideri che ci fa vivere pienamente perchè usando impropriamente le parole di Schop. "smettiamo di voler vivere e finalmente viviamo ;D " - in questo ritengo che il trittico delle filosofie orientali (ossia: vedanta, daoismo e buddhismo) sia d'accordo. Ma il problema del Canone Pali forse è il linguaggio: mi sembra molto spostato verso il "negare", l'annichilire, lo sguardo negativo verso la realtà. Ben diversa è la mia impressione quando ho letto alcuni scritti del buddhismo cinese dove viene invece enfatizzata la parte "positiva" dell'insegnamento del Buddha, ossia quasi la glorificazione della Vita (Dogen arriva addirittura a dire: "la Natura di Buddha è l'impermanenza" - non so se il Buddha storico l'avrebbe preso a ceffoni per una frase simile ma a mio giudizio l'unica differenza è di tono, di enfasi - davvero a questo punto la filosofia Zen è diversa da quella del gioco divino "lila" vedantino??). E qui appunto a mio giudizio c'è la differenza tra il Canone Pali e la filosofia Mahayana. Leggendo il Canone Pali si ha l'impressione che tutta la realtà sia una prigione, che bidogna amare (metta&karuna) le creature perchè siamo come in una prigione e soffriamo assieme (ossia quasi un amore di "pietà" più che di compassione), e che dopo milioni di anni di "lacrime" (la Assa Sutta per esempio) la contemplazione dell'annichiliazione viene quasi automatica - non mancano ovviamente anche note positive nel Canone Pali, ma la parte "negativa" è molto enfatizzata. Leggendo invece certi scritti del buddhismo Mahayana l'impressione è quasi ribaltata, la "vacuità" diventa quasi un'apertura all'Infinito, l'impermanenza diventa quasi una glorificazione della vita contro la morte ecc. Non a caso mi rendo conto che molti theravadins più conservatori siano molto "perplessi" rispetto alla filosofia mahayana. Personalmente sono più vicino alla filosofia mahayana proprio perchè la trovo più "ricca", aperta, accogliente ecc. La Cessazione concordo con te che è un bene - ad esempio quando abbiamo una sete intensa stiamo male, quando abbiamo bevuto non abbiamo più sete, che è cessata ;)

Ma la mia domanda era però un'altra. Fin dal principio la filosofia greca era interessata alla questione del "Valore". Comunemente il valore "econimico" è una stima di quanto un bene sia importante. Per Platone il "Bene-in-sé" è il massimo "Valore" ed è infinito, eterno ecc. Mi chiedevo se la filosofia buddhista in genere ha per così dire composto "trattati" su questi temi (e non solo sutras ;) )? Spero di essermi spiegato meglio.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

@Apeiron
Non sono purtroppo a conoscenza di trattati specifici che parlino di "valori", nel senso comune che intendi .  I valori penso si possano trarre in maniera implicita dai discorsi stessi, ma certamente non sono trattati per esteso. Il bene o la virtù morale è fondamentale nel buddhismo, è quasi una condizione sine qua non per lo sviluppo spirituale e quindi umano ( se ti ricordi la famosa allocuzione più e più volte ripetuta dal Buddha: "Ecco la virtù, ecco la meditazione, ecco la saggezza...ecc.). 
Sul tenore del linguaggio , diverso tra il Canone e i sutra mahayanici, sono d'accordo e credo vada a indicare, oltre alla diversa epoca storica e culturale in cui sono stati scritti (India e cultura ascetico-itinerante i primi; Tibet-Cina in prevalenza i secondi ...) anche l'enfasi diversa che si voleva dare alle due "anime" del buddhismo praticato. Da una parte la visione più conoscitiva, speculativo/filosofica e dall'altra quella più devozionale-compassionevole ( a grandi linee s'intende che poi abbiamo ampie eccezioni da l'una e dall'altra parte...). Il buddhismo, come via di mezzo, si è sempre distinto per una posizione/non posizione lontana da ogni estremo. Ma se la pratica era più facilmente inseribile in questo contesto, il linguaggio invece, per sua natura , tende sempre a inclinare verso una posizione o l'altra, accentuando un aspetto o l'altro, ambedue presenti nell'insegnamento. Quindi il canone "pende" sempre per un'accentuazione, a mio parere, dell'aspetto dell'ascesi, del non-attaccamento e cioè di negazione di ciò che non è Dhamma . Il Mahayana invece usa un linguaggio più positivo, in cui vengono messe in evidenze le qualità e gli aspetti più decisamente trascendenti  ( assolutistici) del pensiero di Siddhartha. Ambedue gli aspetti sono però già presenti in  seme nel buddhismo originario. Nagarjuna infatti, pur considerato come l'iniziatore della riflessione mahayanica, ci teneva a specificare che il concetto di vacuità (shunyata) era ben presente già nei testi originali. Quindi si vedeva come uno sviluppatore di qualcosa predicato dal Buddha e che però era rimasto quasi in secondo piano a causa delle successive interpretazioni del primo Sangha, che vertevano molto sulla centralità dell'Abidhamma. Attualmente, a parte qualche scuola particolarmente tradizionalista, vedo che c'è un ampio uso di citazione di passi dei sutra mahayanici anche in autori theravada e viceversa. Questo dà l'idea che si cerchi una visione più complessiva, proprio per giungere a smussare le inclinazioni verso un estremo o l'altro che affiorano nei linguaggi scritti usati nei secoli. E questo è interessante e ci richiama il testo ecumenico che ho inserito sopra. Insomma, anche l'insegnamento cammina...
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Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Sulla questione dei "trattati" filosofici devo dire che me lo aspettavo, d'altronde a parte forse la filosofia Vedanta, questo tipo di "opere" non sono comuni in oriente. Peccato, aiuterebbe chi ha una mentalità "matematica" e "speculativa".;) 
Anche la spiegazione che dai sul linguaggio in effetti ci può stare: d'altronde allora i Samana indiani erano quasi tutti eternalisti, ossia ritenevano che "il (senso del) sé" si potesse conservare in qualche modo ad infinitum e quindi l'obbiettivo era proprio quello di "dare una spinta" da questo punto di vista. Probabilmente fosse nato in Occidente avrebbe usato un linguaggio simile ai Mahayana visto che le neuro-scienze d'altronde suggeriscono già loro che "il (senso del) sé è illusorio", ergo da noi l'anatta sembra quasi un'ovvietà, motivo per cui per esempio un Sam Harris o un Batchelor non hanno problemi a dire che il Buddha non era religioso, che non ha insegnato la teoria delle rinascite, che la parte mitologica del buddismo è mera superstizione e che non possiede assoluti (quando in realtà ovviamente è tutto falso...)  ;) mentre una volta in pratica era dire "l'io esiste" la moda, oggi invece in occidente si dice "l'io è illusorio", ma questi "buddhisti" di certo non sono Arhat. Fai conto che tempo fa ero molto vicino al materialismo (per non molto tempo in realtà), credevo che la nostra identità fosse una flebile illusione che alla morte veniva annientata ecc ma allo stesso tempo ritenevo che l'uomo avesse la mente più sviluppata o quasi (visto che mi sono immaginato alieni più sviluppati di noi) di ogni essere. D'altronde l'evidenza scientifica di certo non smentisce tale visione, anzi. Tuttavia per quel brevissimo periodo che ho sostenuto una tesi simile rimpiangevo quella ricchezza perduta di quasi tutti gli altri filosofi che parlavano di un mondo molto più ricco e denso di quello visibile. Ben diverso è il buddhismo, che come la maggioranza delle religioni suggerisce l'esistenza di menti qualitativamente diverse dalle nostre ma a differenza di molte - se non tutte- altre religioni nega l'eternità di questi individui perfetti (per certi versi si può dire che il Buddha è un "dio" - d'altronde supera i devas, gli dei del Pantheon - ma è un "dio" che è impermanente  ;D ) . Sentire parlare però di "anatta" così frequentemente lo ritengo pericoloso, visto che appunto i materialisti moderni asseriscono bene o male una cosa simile (ovviamente non uguale, ma simile). Ben vengano le assolutizzazioni dei Mahayana altrimenti si corre il rischio di creare un fraintendimento molto grosso, ossia quello tra "nulla" e "trascendenza". Il rigoroso Buddha del Canone Pali d'altronde doveva parlare di qualcosa che "non è né terra né fuoco..." (Udana 8.1) ossia negando tutti i concetti (fino ad allora?) utilizzati per descrivere tale "trascendenza". Inoltre il buddhismo "secolare" moderno non si rende conto di quanto per tutti i buddhisti sia importante l'infallibilità del Buddha mentre il buddhismo secolare non credo che contempli la possibilità che un uomo possa veramente diventare "infallibile", "impeccabile" ecc come l'Arhat.
Probabilmente Sari l'insegnamento è in cammino (bella immagine  ;) ) per questo motivo: pur essendo infatti "immutabile" lo "Zeitgeist", la mentalità dell'uomo continua a mutare, quindi anche le parole utilizzate nelle suttas e nelle sutras hanno un significato diverso da quello che riteniamo noi (chissà tra l'altro quanto questo mutamento è cominciato). Quindi per quanto mi riguarda tenderò sempre più ad usare termini "eternalisti" parlando di buddhismo perchè l'altro estremo purtroppo ormai è la norma  ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)