ateismo e proiezione umana di Dio

Aperto da davintro, 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM

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Phil

Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 20:16:40 PM
Qualunque entità materiale possa individuare la genetica sarà sempre materia formata, accompagnata da un'essenza immateriale che la configura come materia vivente.
"Essenza" (parola oggi molto "scomoda": forse più metaforica che ontologica  ;) ) che oltre a essere postulata "immateriale", mi concederai, è comunque anche indimostrabile (il che non significa non esista...). Che tale indimostrabilità poggi su un'antica tradizione interculturale, è certamente un ghiotto spunto di riflessione antropologica, ma, epistemologicamente, non mi sembra scalfire la sua indimostrabilità, e quindi l'indecidibilità della sua esistenza.

P.s.
Personalmente, credo che l'"antropocentrismo" delle quattro cause aristoteliche vada un po' ridimensionato: per me la forma è più negli occhi (e nell'intelletto) di chi guarda che nel problematico oggetto stesso (Husserl docet: l'intenzionalità della noesi forma il noema, ma l'oggetto-in-sé è altro, direi sempre un passo oltre l'epochè...).

viator

Salve a tutti. Ciò che configura la materia vivente come tale ..... è appunto la sua forma.
A parità di materia noi possiamo passare dal sasso al cervello di Einstein. Stesso numero di atomi.
A parità di materia noi possiamo passare dal cervello di Einstein al fegato di un cinghiale: Stesso numero di atomi e di cellule.

Qual è la differenza ? Semplicemente, la forma in cui risulta disposta la stessa quantità di materia. Maggiore è la complessità della forma - intesa come disposizione nello spazio, maggiore o minore contiguità dei componenti, sequenza in cui vengono interconnessi tra di loro - maggiore risulta la componente immateriale (la forma, per l'appunto) attribuibile ad un corpo.

Variando la forma varierà la funzione di ciò che - sotto qualsiasi altro aspetto - potrebbe risultare identico od equivalente come peso, densità, struttura chimica, struttura biologica.

Infatti, ad esempio, tutte le nostre funzioni superiori sono il frutto di una qual certa struttura intrinseca la quale, se diversamente disposta, permetterebbe a cellule identiche di generare solo delle funzioni inferiori.

Esiste una storia della sostanza e della forma che, se percorsa, permette di giustificare l'intera storia del mondo dal "big bang" alle estasi dei mistici ed ai sospiri dei poeti innamorati. Stasera però per me è tardi.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

davintro

beh, nulla di male a utilizzare concetti ritenuti "scomodi" come quello di "essenza" in un certo contesto storico, dato che all'onesto cercatore della verità dovrebbe mirare solo a considerare l'adeguatezza di un concetto in relazione all'esperienza delle cose oggettive, e non in relazione al sentire comune dell'epoca nella quale gli è capitato di trovarsi a vivere. Certamente nell'epoca in cui il geocentrismo tolemaico andava per la maggiore il sistema eliocentrico copernicano era certamente "scomodo", ma si è poi rivelato quello valido...

 

La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica. 

 

Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.

mi pare di dover condividere molto le osservazioni di viator, che mi sembra ricalchino bene, anche meglio di come ho provato a fare, i miei pensieri sul rapporto forma-materia.

sgiombo

#93
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.
CitazioneCome tu stesso affermi questi sono giudizi analitici a priori; cioé deduzioni da premesse stabilite per definizione (o postulate, comunque arbitrariamente), quindi certe, ma che nulla dicono di come la realtà é/diviene o non é/non diviene, di ciò che realmente accade o meno.
Non dicono quali enti determinati esistono realmente, quali eventi determinati accadono realmente e quali no, da quali essenze enti ed eventi reali sono caratterizzati e da quali no.



Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
CitazioneIl fatto che qualsiasi giudizio, qualsiasi conoscenza é propria di un soggetto che (anche) in qualche modo "agisce", considera attivamente la realtà oggettiva (se si tratta di conoscenze di fatti oggettivi) e non ne é soltanto passivamente agito non equipara giudizi oggettivamente veri a proiezioni antropomorfe (false) di qualità soggettive umane (come é il finalismo) sulla realtà naturale oggettiva (extraumana), la quale invece non ne presenta.

Il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero (evidenziazione in grassetto mia) consente di per sè (se non applicato all' empiria) per l' appunto la formulazione di giudizi analitici a priori certi ma "gnoseologicamente sterili", che nulla consentono di conoscere su ciò che realmente é/accade o meno.
Per un' effettiva conoscenza della realtà sono necessari anche dati empirici, sui quali si possono affermare giudizi a sintetici a posteriori, i quali possono costituire (anche, non solo) conoscenze vere, comunque a mio parere inevitabilmente incerte, se non nell' effimero istante presente di una constatazione immediata particolare concreta.

Phil

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
beh, nulla di male a utilizzare concetti ritenuti "scomodi" come quello di "essenza" in un certo contesto storico, dato che all'onesto cercatore della verità dovrebbe mirare solo a considerare l'adeguatezza di un concetto in relazione all'esperienza delle cose oggettive, e non in relazione al sentire comune dell'epoca nella quale gli è capitato di trovarsi a vivere. Certamente nell'epoca in cui il geocentrismo tolemaico andava per la maggiore il sistema eliocentrico copernicano era certamente "scomodo", ma si è poi rivelato quello valido...
Sia le auto d'epoca che alcuni prototipi futuristici possono risultare "scomodi" per il nostro fondoschiena abituato allo standard della contemporaneità... si tratta di capire se è una scomodità su cui si può lavorare (prototipo) oppure una scomodità che risulterebbe snaturata da una rivisitazione (auto d'epoca)  ;)

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.
Non farei coincidere l'essenza metafisica con il quid dell'(arbitraria e convenzionale) identità linguistica (e quindi con la predicabilità)... se restiamo dentro l'orizzonte classico, l'essenza è indubbiamente un perno fondamentale dell'impalcatura metafisica, ma davvero non se ne può proprio uscire? Secondo me, come accennavo sopra, è possibile almeno una prospettiva alternativa (non per questo più vera, ma almeno c'è legittima concorrenza  ;D ).

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili.
Si, secondo me non si esce dall'antropocentrismo gnoseologico... possiamo forse smettere di pensare da uomini?

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AMin realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo.
Oggi umanamente la logica è così, ma se diciamo "necessariamente" e "universalmente", comprendendo così anche presunti alieni (o uomini del futuro), a mio giudizio facciamo una scommessa (antropocentrica ;) ), non una constatazione inconfutabile... siamo uomini e conosciamo il mondo da uomini, se fossimo pesci penseremmo che non sia universalmente possibile vivere all'asciutto e che ciò rappresenti una certezza trascendentale, trovando conferma nel non aver avuto notizia di pesci che vivano fuori dall'acqua...

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista.
La corrispondenza con l'oggettività, secondo me, salvo intenderla come mero "funzionalismo" ("funziona quindi è oggettivo"), non è così pacifica da verificare, perché l'oggettività (ideale normativo asintoticamente sfuggente) è sempre letta inevitabilmente dalla prospettiva umana, la stessa che potrebbe dire che, come già ricordato da altri,  è "oggettivo" che il sole corra nel cielo, che è "oggettivo" che il prestigiatore tagli in due la valletta, che è "oggettivo" che solo un dio possa averci creato, etc.

Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AMLo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
...al soggetto umano (che dà un senso a quello trascendentale  ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica"  ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani...

davintro

scrive Phil:

"Non farei coincidere l'essenza metafisica con il quid dell'(arbitraria e convenzionale) identità linguistica (e quindi con la predicabilità)... se restiamo dentro l'orizzonte classico, l'essenza è indubbiamente un perno fondamentale dell'impalcatura metafisica, ma davvero non se ne può proprio uscire? Secondo me, come accennavo sopra, è possibile almeno una prospettiva alternativa (non per questo più vera, ma almeno c'è legittima concorrenza   )."


condivido la distinzione tra essenza, intesa come aspetto necessario dell'essere dell'ente, e definizioni linguistiche. Le essenze delle cose non coincidono con le definizioni delle cose, l'accostamento che vedevo consiste nel considerare le definizioni come fondate sulle essenze, e quindi la possibilità di definire la intendevo come conferma della presenza di elementi universali necessariamente presenti in una molteplicità di individui di una specie, in quanto la definizione di un concetto coglie ciò che delle realtà a cui il concetto si riferisce è presente a prescindere dalla molteplicità dei contesti particolari in cui si determina, cioè l'essenza. Quindi la definizione presuppone sempre l'apprensione dell'essenza, ma questo non vuol dire che il termine linguistico (convenzionale, prodotto culturale dell'uomo) di identifichi con l'essenza, che ha un valore ontologico, causa formale dell'ente, inscritto nella sua realtà necessaria e naturale. Trascinare nella convenzionalità del linguaggio anche le essenza delle cose reali, negando in ogni senso la realtà di caratteri universali delle cose è sempre stato un errore tipico delle forme estreme di nominalismo, che identificando parole e cose e considerando le prime come convenzionali (giustamente) ha finito per relativizzare anche le seconde. In realtà si supera distinguendo cose e parole, considerando la possibilità umana di definire linguisticamente le cose come presupponente l'intuizione dell'essenza delle cose, senza mai però identificare definizione ed essenze, convenzionali e quindi storicamente modificabili le prime, naturali e oggettive le seconde.

Tra l'altro faccio notare che proprio la distinzione parole-cose è a mio avviso proprio il principio in base a cui è secondo me scorretto pensare di ricavare l'origine dell'idea di infinito sulla base della struttura della parola "infinito", "in-finito", pensando di assommare o associare i concetti delle singole parti, cioè la "finitezza" e la "negazione". Proprio perché parole e cose, definizioni ed essenze non coincidono, allora non dovremmo confondere l'idea di infinito con la parola "infinito" e pretendere di spiegare la formazione della prima sulla base della struttura sintattica della seconda, proiettando la complessità di questa sul senso semplice della prima. Nel nostro linguaggio l'idea di infinito viene associata a un termine "negativo", con il prefisso privativo, ma stante la convenzionalità del linguaggio nulla in teoria potrebbe impedirci di esprimere lo stesso significato con un termine semplice e non composto, "positivo" e non "negativo", senza che il senso che intendiamo cambi nella sua essenza qualitativa. Ricavare dalle relazioni che compongono la struttura del linguaggio l'analisi ontologica degli enti, ideali o reali sarebbe un approccio valido solo nel caso di ipotizzare un nesso necessario e naturale tra parole e cose, ignorando il carattere artificiale delle prime, ma questo avrebbe senso solo considerando il linguaggio onomatopeico, ma ovviamente non è questo il caso che qua ci interessa!!

sgiombo

"Essenza" non capisco che cosa precisamente significhi.

Mentre trovo del tutto convincente, esauriente, chiara e inequivoca la teoria semantica di Freghe, con la sua distinzione nei significati delle parole fra connotazione soggettiva e denotazione reale (per le parole significanti concetti che l' abbiano); e che spieghi egregiamente perché anche gli universali siano concetti dotati di denotazione (estensione) reale e non solo di connotazione (intensione) soggettiva, anche se astratta, superando un nominalismo "estremo".

viator

Salve. L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

sgiombo

Citazione di: viator il 30 Ottobre 2017, 13:14:25 PM
Salve. L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
CitazionePerò mi sembra che le espressioni "ciò senza la quale una certa cosa non sarebbe quella ma un'altra" e "l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre" mi sembra una tautologia; come: dire "il fatto che una determinata cosa sia quella determinata cosa e non altro".

Inoltre qui sorge inevitabilmente un problema.

Chi stabilisce e in base a quali criteri quali sono le "coese esistenti" (e quali ne sono le sostanze -o i criteri- che le fanno essere ciò che sono e non altro)?

Ogni distinzione nell' ambito della totalità conoscibile non può che assere arbitraria, così come i criteri per stabilirla.

In linea teorica, di principio vale secondo me una sorta di "principio di arbitrarietà mereologica" per il quale la realtà può essere "ritagliata" (presa in considerazione) teoricamente ad libitum.

Per esempio non c' é nessun motivo obiettivo perché non si possa "legittimamente", sensatamente considerare teoricamente il seguente enti/evento:

Giulio Cesare delle ore 22, 23 minuti e 7 secondi del 7 Gennaio 65 a.C. (non so come si chiamerebbe nel calendario latino) alle ore 3, 46 minuti e 33 secondi del 5 Giugno 52 a. C., più i tre quarti settentrionali della Sicilia dal 9000 a. C. al 2222 d. C., più i primi sette canti di un certo determinato volume di una determinata edizione della Divina Commedia, più l' albero di Cedro nel giardino del mio vicino di casa dalla mezzanotte del tre Gennaio 1845 al mezzodì del 15 Agosto 2019, più ...chi più ne ha più ne metta... 

Nessuno che sia comunemente considerabile sano di mente di fatto considera  enti-eventi siffatti, ma solo perché del tutto inutili ai fini pratici (compreso quel particolare genere di pratica che é la ricerca della conoscenza scientifica); in pratica ben altri enti-eventi possono servire, distinti secondo "generi naturali", i quali però non sono comunque che "ritagli arbitrari" nella totalità del reale, tali da consentire di compiere induzioni circa il divenire ordinato (peraltro indimostrabile: Hume!) e conseguentemente di cercare di raggiungere (arbitrari) scopi (purché realistici) attraverso adeguati mezzi nelle circostanze in cui ci si trova a desiderarli.


green demetr

davintro : Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.


Phil : ...al soggetto umano (che dà un senso a quello trascendentale  ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica"  ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani...


Questo è il mio problema con Husserl.   >:(
Husserl non solo non l'ha precisato, ma non lo avrebbe mai detto.
Infatti non si avvede della problematicità stessa di questo passaggio in più, che non a caso viene dimenticato.

In realtà la problematicità vera sta all'inizio della questione Husserliana.

E cioè proprio dalla sostanza.

Unendo i diversi frammenti sul pensiero che mi sono fatto di Husserl, mi pare che egli ponga la trascendantelità alla base del suo ragionamento.
Egli la postula, ossia la ipotizza una volta che ha eseguito l'epochè, ossia la dimenticanza di ogni cosa che riguarda il soggetto.

Egli pensa di ritrovarla nell'idea di sfondo, su cui si staglia il primo ogetto, il primo oggetto, non è cioè mettiamo un tavolo, ma lo sfondo stesso su cui "qualcosa" si staglia.

Direi che l'errore è già tutto lì. Anche abbastanza evidente per parte mia. Considerare lo sfondo come un oggetto (a sè stante).
Quando in verità è oggetto solo all'apparire di uno stagliante, di un Altro oggetto.

E come aveva già brillantemente sciolto Hegel la realtà è semplicemente una correlazione.

La vecchia idea di sostanza aristotelica non dovrebbe essere già andata in soffitta dopo Kant??

Non tanto per l'idea di sostanza, per quella bisogna aspettare appunto Hegel, ma per quella di sostanza prima.

Non esistono sostanze prime, nè forme prime. Esistono invece percetti, primari e secondari (cosa tra l'altra pionerizzata da Locke).

Siamo d'accordo che sulla scorta di berkley, l'oggetto risale alla sua forma lentamente e nel tempo.(vogliamo parlare di sintesi passive in questo modo, sarei anche d'accordo)

Ma io non sono assolutamente d'accordo che l'oggetto sia una specie di oltre mondo, che viene percepito prima di essere percepito.

L'esempio della porta che sta sbattendo, che innesca in noi la sensazione del rumore prima che il rumore avvenga, è chiaramente frutto del trauma auditivo della prima porta che sbatte.

E in generale del primo suono esterno udito. Di solito il proprio vagito.

Ritenere sostanza ciò che è invece correlazione psicologica, e quindi giustamente intenzionalità attiva, mi sembra un errore, oltre che un approdo aporetico rispetto a come si sta costruendo la propria idea di mondo.

Tra l'altro è anche un delirio paranoico, ritenere che l'oggetto abbia uno statuto pari a quello umano, è tipico dei deliri maniaci.
(gli oggetti parlano alle persone).

E torno a ripetere Dio NON è un oggetto.

(che è poi come a dire: quando è che Aristotele viene smesso di essere creduto un grande?)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

viator

Salve, per Sgiombo:
"""""L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
Citazione"""""

Tu replichi """""Però mi sembra che le espressioni "ciò senza la quale una certa cosa non sarebbe quella ma un'altra" e "l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre" mi sembra una tautologia; come: dire "il fatto che una determinata cosa sia quella determinata cosa e non altro""""".

Non si tratta di tautologia: ad esempio, l'essenza di una religione è la fede. Mancando la fede quella religione non sarebbe più religione ma filosofia od ideologia. Salutoni.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

sgiombo

Ma allora, se ben capisco è qualcosa che viene stabilito arbitrariamente (convenzionalmente) per definizione.

viator

Salve a tutti ed in particolare ad altamarea. Per via assimilativa-deduttiva. Si deve andare a vedere cosa c'è in comune con altro e cosa invece è esclusivo di quella tale manifestazione. Tubercolosi e polmonite hanno sintomi in comune e, in mancanza di analisi più profonda, possono venir definite entrambe come "patologia polmonare". Ma mentre l'essenza della tubercolosi è la presenza del bacillo di Koch, quella della polmonite pneumococcica (ce ne sono di diversi altri generi) è la presenza dello pneumococco.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

davintro

proprio perché le essenze non sono le definizioni (anche se queste ultime presuppongono implicitamente il riconoscimento delle prime, intese come elementi necessariamente presenti in un ente al di là delle differenze dei contesti in cui si esistenziano), non ne assumono il carattere di contingenza, l'essenza di un ente non è un concetto avente un significato distinto da quello dell'ente a cui l'essenza è riferita, che si aggiunge in modo estrinseco, non è che A sia essenza di B. L'essenza di un ente è ciò che gli permette di fissare un limite alle proprie possibilità di essere, limite oltre il quale quell'ente non potrebbe essere e svilupparsi. Nella misura in cui ogni ente ha un senso determinato e delimitato, il suo sviluppo si orienta in una certa direzione anziché altre, ciò presuppone la presenza di una necessarietà, dunque di un'essenza, che non è un concetto che si aggiunge arbitrariamente all'ente, ma ne costituisce il senso intrinseco di tale sviluppo. L'arbitrarietà presente nello stabilire l'identità degli enti, "ciò in cosa dovrebbero consistere per essere quelli e non altri" è una caratteristica presente nel linguaggio, nelle definizioni, sempre convenzioni comunicative, ma non tocca la realtà delle cose, e la loro essenza. Se da un seme di un albero di ciliegio si pone in atto un dinamismo finalizzato (più o meno ostacolato o favorito da interventi esterni) alla crescita di un albero di ciliegio e non di una quercia, allora dobbiamo ammettere un'essenza dell'albero di ciliegia, la sua causa formale (l' "alberodiciliegità") che fa sì che il movimento di sviluppo naturale tenda necessariamente un albero di ciliegie piuttosto che una quercia o di un altro albero. Dal punto di vista linguistico, nulla mi impedisce di smettere di usare la distinzione terminologica tra ciliegio e quercia, utilizzando un solo termine, non dando importanza al fatto che una delle due piante produca ciliegie e un altro ghiande (del resto nulla impedisce agli anglosassoni di usare lo stesso verbo, to play, per definire due attività decisamente diverse come "suonare" e "giocare"). Così dal punto di vista linguistico il ciliegio non avrebbe più alcun quid che lo renda "ciliegio e non quercia". Dal  punto di vista linguistico, ma non certo dal punto di vista reale e ontologico: lo sviluppo dell'albero di ciliegio continuerebbe a porsi come realmente distinto da quello dell'albero di ciliegio, infischiandosene del fatto che il nostro linguaggio convenzionale stabilisca che non c'è ragione di formalizzare tale distinzione in una distinzione terminologica, l'albero di ciliegio continuerebbe a essere realmente diverso da una quercia, ed avrebbe pienamente senso continuare ad affermare un'essenza del ciliegio che lo rende "ciliegio" e non "quercia". Semplicemente a tale essenza non sarebbe associabile una categoria linguistica. Quando ci si occupa di ontologia si dovrebbe considerare le strutture necessarie degli enti, tagliando fuori ciò che è contingente e arbitrario, come le definizioni linguistiche, necessarie certamente a comunicare, ma spesso ostacoli alla comprensione profonda del senso delle cose. Occorre forzarci in un certo senso a pensare fuori del linguaggio, approccio di certo estremamente scomodo e difficile considerando quanto le esigenze pratiche-comunicative ci portino a permeare ogni forma di esperienza del mondo con le parole, e ad influenzare il pensiero interiore, associando idee e sfumature concettuali ai segni esteriori convenzionali che costantemente utilizziamo... però in nome di una maggiore chiarezza nella ricerca teorica ci si potrebbe almeno provarci a provare tale forzatura

sgiombo

#104
X Davintro
Citazione
Ma che per esempio il tronco di un albero sia un ente, che i rami e le foglie e i frutti siano altri enti o che sia un ente l' albero in toto (o magari l' intero bosco di cui quest' ultimo fa parte) sia un altro ente ancora, che o sia il sistema solare e/o il sole e/o il pianeta doppio Terra - Luna o la sola Terra, o solo un continente o un oceano, "ritagliandoli" per così dire metaforicamente dall' "indistinto divenire naturale" sono gli uomini (i soggetti di  pensiero, intenzionalità, considerazione teorica, eventualmente di conoscenza più o meno integralmente vera) a stabilirlo, in quanto arbitrariamente ne decidono (per convenzione) le rispettive definizioni.
Certo in questi casi, trattandosi di entità reali (i cui concetti, comunque arbitrariamente definiti, presentano, oltre che una connotazione o intensione mentale, anche una denotazione o estensione reale), tutto ciò accade non del tutto (non assolutamente) ad libitum, come potrebbe invece accadere nel caso di entità irreali, puramente immaginarie (come i miei amati ippogrifi, che presentano solo una connotazione o intensione "di pensiero" ma non anche una denotazione o estensione reale, la definizione arbitraria dei quali é soggetta pertanto unicamente a vincoli di correttezza logica a priori o non contraddizione), ma per l' appunto entro limiti o sotto vincoli anche di "fedeltà" o "conformità" alla realtà (indipendentemente dal fatto che sia anche pensata o meno) constatabili (o al limite falsificabili) a posteriori e non solo di correttezza logica.

Fin qui mi sembra che le nostre considerazioni non si contraddicano ma in gran arte coincidano, in parte siano reciprocamente complementari (ma dimmi se sbaglio, ovviamente).

Non concordo invece per nulla sulla presenza di finalismo nella natura extraumana (salvo "minimi embrioni" nelle specie animali  a noi più affini).

Se da un seme di un albero di ciliegio si pone in atto un dinamismo [per me non] finalizzato (più o meno "ostacolato" o "favorito" in maniera meramente meccanica -notare le virgolette!- da interventi esterni) [che porta alla] alla crescita di un albero di ciliegio, e non per esempio di una quercia, ciò accade, per dirla "a là Aristotele" esclusivamente per cause efficienti, cioè per il divenire naturale le secondo modalità generali astratte, universali e costanti o leggi (biologiche, perfettamente riducibili alle leggi fisiche) del divenire naturale (indimostrabili logicamente, né provabili empiricamente: Hume!).

Per parte mia, ovviamente, come tutti coloro che abbiano un minimo di elementarissime conoscenze botaniche credo che anche nei casi in cui il nostro linguaggio convenzionale stabilisca che non c'è ragione di formalizzare la distinzione reale fra un ciliegio e una quercia in una distinzione terminologica (nell' ambito del pensiero circa la realtà), comunque nella realtà gli alberi di ciliegio continuerebbero a essere realmente diversi dalle querce, ed avrebbe pienamente senso continuare eventualmente ad affermare nella realtà l' esistenza di ciliegi e querce reciprocamente diversi; però il termine "essenza" (del ciliegio che lo rende ciliegio e non quercia; e viceversa "essenza" della quercia) mi sembra un inutile orpello retorico (o un retaggio del passato, magari anche elegante, in certe circostanze, un po' "vintage" come si suole orrendamente dire).

Dissento inoltre dalla tua valutazione del linguaggio, anche come mezzo di riflessione e conoscenza (second me), oltre che di comunicazione.
Infatti credo che, malgrado ovviamente possa anche portare a confusioni, fraintendimenti, errori teorici, credenza in falsità se non ben logicamente padroneggiato e correttamente impiegato, consenta comunque anche un enorme salto di qualità nella conoscenza teorica (con "spettacolari" conseguenze pratiche), che é all' origine del sorgere, "dal tronco della storia naturale" sostanzialmente, quasi completamente afinalistica (implicante al massimo soltanto "minimi embrioni di finalismo" nelle specie animali a noi più affini) e non contraddicendola punto, della storia (o civiltà) umana, nella quale unicamente al causalismo afinalistico naturale si affiancano, con esso intergendo, fini coscienti.


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