ateismo e proiezione umana di Dio

Aperto da davintro, 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM

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sgiombo

Citazione di: Sariputra il 29 Settembre 2017, 00:39:39 AM
@Green Demetr scrive:
Ma poi non vedo cosa c'entri con tutto quello che ho scritto.

Io non mi riferisco certo al culto dell'immaginetta dell'ambulante di turno.

Io mi riferisco al fatto che Dio si è trasformato in Uomo.

E che persino un personaggio come Ravazzi ai nasconda dietro alla frase "ma la carne è debole" quando fa capire chiaramente come il messaggio cristico sia tutt'altro che popolare per pochi eletti.
Una captatio benevolentiae ridicola, che testimonia solo come la chiesa sia totalemte addentro al mondo degli oggetti.

Non diciamo sciocchezze: Dio non è un oggetto.


Caro Green, tra noi è rimasto in sospeso da tanto tempo un bel discorso sulla Paura. Non la pauretta di questo o di quello, del robot  da acquistare al super market per i single che vogliono farci l'amore ( che poi sappiamo tutti che gran parte della produzione di quei "cosi" finirà così...) ma la Paura, quella con la P maiuscola, ossia la paura della Morte ( con la M maiuscola ). Che poi, ci si gira intorno intorno, chi con la logica formale, chi con la razionalità , chi con gli archetipi e le visioni solo per cercar di dimenticarsi che corriamo insieme alla nostra compagna, quella che dorme sotto il nostro letto, quella che abbiamo Paura che ci afferri per le caviglie mentre sogniamo e progettiamo cose e vacanze...E quindi...per parlare della Paura e della Morte , e quindi di Dio, quello vero intendo, ci si dovrebbe ritrovar per intendersi dove ci eravamo lasciati: in quella caverna primordiale , in cerchio attorno al fuoco, con i visi anneriti dal fumo. Se ci dimentichiamo della morte...che ci sta a fare Dio? Non è precisamente dentro alla morte stessa che dobbiamo cercarLo?...O abbiamo paura dell'abisso?...Non è anche in questa vertigine d'abisso che lo intuiamo?...Ma cos'è questa vertigine che ha a che fare con la nostra paura e con la nostra morte?...Non so se sbaglio, spiegami tu...ma a me sembra una domanda filosofica questa; che però ha bisogno di metterci dentro Passione, qualcosa pure di angoscioso mettiamo, qualcosa di veramente "umano"...Perchè sento tanta angoscia e paura attorno al fuoco e con il buio che si muove alle mie spalle...è un'"oscuro terrore" di Dio per caso? Perchè lo abbiamo "tradito"  e come dei vili traditori adesso ci nascondiamo dietro la logica formale, la razionalità, gli archetipi e le visioni e i nostri volti anneriti dal fumo dell'ipocrisia? ...In questo buio sembra che il fantasma di Dio ci insegua dappertutto...
Mah!...ecco gli effetti di scrivere a un'ora tarda con il silenzio della campagna come unico amico...

P.S. Riletto con la luce dell'alba questo ha tutto il sapore dell'incubo... :(
CitazioneMa perché si dovrebbe temere la fine di tutto (almeno per ciascuno di noi), compresi desideri, insoddisfazioni, dolori?

Personalmente vorrei vivere ancora a lungo quando ho in mente qualche progetto da realizzare (per esempio nuovi paragrafi del librone di filosofia che ho "nel cassetto" dove resterà per sempre (alla lettera: nei files del computer e in un paio di chiavette perché non si sa mai...), o qualche "lettera on line" da inviare al sito Riflessioni, che il buon gestore del sito stesso e di questo forum, probabilmente impietosito dal mio proprio "caso umano", finora mi ha sempre dato la soddisfazione di pubblicare.

Ma pensando che la vecchiaia é comunque destinata a darmi, in tempi più o meno lunghi, sempre più acciacchi, tribolazioni e limitazioni, non vorrei in realtà vivere troppo a lungo (vorrei potermi accorgere per tempo che il bilancio della vita potenziale che mi rimane da vivere sia destinato ad essere decisamente negativo per potermi somministrare una bella pera di barbiturici e addormentarmi per sempre e senza sogni ascoltando musiche dolci dopo aver gustato un' ultima tavoletta di cioccolato gianduia alle nocciole italiano e sorseggiato un ultimo bicchiere di buon vino (credo che non ti offenderai se preciso che ritengo più adatto alla circostanza, secondo i miei gusti, un vino dolce da dessert, come un passito di Pantelleria, piuttosto che il pur sempre ottimo prosecco).

Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.

Sariputra

#76
@Sgiombo scive:
Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.

Mah! forse non l'ho capita del tutto neppure io. Ho scritto infatti che mi dava l'idea dell'incubo. Come quando litighi con una persona cara...e non sai veramente perchè! ???
Forse 'tradimento' perché un tempo ci si amava e poi...abbiamo voltato le spalle? A volte nella vita si scappa anche da ciò che amiamo, non solo da ciò che odiamo...
Per questo e su questo sono assolutamente d'accordo con Green: Dio non è un oggetto e noi non siamo macchine...

P.S. attento con le "pere"...se sbagli la dose potresti risvegliarti in un bell'ospizio con attaccato un pannolone! Della serie: dalla padella nella brace! ;D
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

Per come la interpreto io il "tradimento" si riferisce al sapere che "qualcosa non va" ma non sapere nemmno cosa (concordo su questo con l'analisi del Sari). In genere è proprio forse per questa Caduta che abbiamo il "concetto" e il "desiderio" dell'Infinito: d'altronde se ne avessimo "esperienza diretta" probabilmente tali concetti e desideri non ci sarebbero nemmeno. Ma d'altronde chi parlerebbe di Dio, Infinito, Immortalità, Nirvana, Dao, Brahman, Eternità, Pace se non vedessimo nella nostra vita l'Impermanenza, la Morte, la Paura, il Flusso Inarrestabile del Tempo, il "Dao sbagliato", il Conflitto? Eraclito: "Morte è quanto vediamo stando svegli" ;) . Ma viceversa ci sarebbe d'altro canto così tanta preoccupazione con la Morte, l'Impermanenza ecc se non ci fosse alcunché che trascende queste "cose che non vanno"?
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: Sariputra il 29 Settembre 2017, 09:54:42 AM
@Sgiombo scive:
Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.

Mah! forse non l'ho capita del tutto neppure io. Ho scritto infatti che mi dava l'idea dell'incubo. Come quando litighi con una persona cara...e non sai veramente perchè! ???
Forse 'tradimento' perché un tempo ci si amava e poi...abbiamo voltato le spalle? A volte nella vita si scappa anche da ciò che amiamo, non solo da ciò che odiamo...
Per questo e su questo sono assolutamente d'accordo con Green: Dio non è un oggetto e noi non siamo macchine...

P.S. attento con le "pere"...se sbagli la dose potresti risvegliarti in un bell'ospizio con attaccato un pannolone! Della serie: dalla padella nella brace! ;D
CitazioneSempre arguto, oltre che profondo!

paul11

#79
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2017, 23:50:11 PM
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 18:29:38 PM
Personalmente ritengo del tutto contraddittorio pensare alla morte senza un pensiero "che chiuda il cerchio" logico razionale. [... ]Che senso avrebbe l'etica, la morale, se tutto finisce in nulla?
La genealogia, squisitamente metafisica, di questa esigenza di chiusura del cerchio, di bilanciare i due lati dell'uguale (per inaugurare un'identità dialettica letteralmente definitiva), può essere secondo me approcciata con due inclinazioni differenti: quella che vede in tale chiusura la convergenza di dovere e volere, in una sorta di "deontologia" del pensare metafisico (il cerchio deve chiudersi perché voglio che l'etica il senso della vita siano "stabilizzati" metafisicamente) e quella che invece vede in questa chiusura una contingente proiezione "estetica" delle piccole chiusure immanenti che riscontriamo nella nostra esistenza... c'è il cerchio che si chiude, e chiudendosi si "esaurisce" (lasciando però sempre qualcosa "chiuso fuori" dal suo perimetro ;) ), e il cerchio apparente che non si chiude, ma si apre dipanandosi a spirale all'esterno, e sembra poter avanzare all'infinito (d'altronde, il tempo e lo spazio possono davvero essere pensati come chiusi?).
Da dove inizierebbe tale spirale? Ciò è esattamente l'aporia fondante del pensiero umano a cui mi riferivo... in fondo, dentro e fuori dalla metafora della spirale, siamo sempre e solo noi a porci il problema di trovare la "formula aurea" di quella spirale, conferendole una stabilità eterna; sebbene tale regolarità che renderebbe quasi superfluo il tempo (sebbene non il suo scorrere) può essere solo una supposizione, non una conclusione risolutiva.
E se il famigerato "nulla" non fosse un meta-luogo dove regna la negazione dell'essere, ma semplicemente un altro modo di intendere il passato e il futuro nella temporalità a spirale?


Strano che tu che riesci a capire la logica ritieni che l'esigenza di chiudere il cerchio sia un volere o un dovere, un fatto morale. per me è logica se un una cosa è ,non può anche non essere. Se esiste viene da qualcosa e se muore non può sparire. Il problema è che c'è una cultura che ragiona con gli occhi e deve vedere e toccare per dire che possa essere vera. Ho cercato di far capire che ,almeno personalmente, la proiezione di pancia di dio, di sentimenti, di ansie, che fanno parte dell'esistenza, non è logica. I sentimenti, le morali, sono nel messaggio religioso e spirituale, ma non ne sono l'essenza logica. Non intendo dire che siano secondari, ma non si ragiona con i sentimenti o si sentimentalizzano le ragioni. La mente non è asservita agli occhi o alle mani, semmai è il contrario. Se il giudizio lo lascio alla vista e al tatto e a ciò che percepisco perdo la misura fra i domini.
Chi meglio degli animali hanno  sensi migliori dei nostri: forse hanno capito meglio la natura, ma non hanno la mente.
E' strano che io credente e metafisico debba dire che cosmologicamente l'universo non è infinito e che lo spazio tempo nasce dalla interazioni delle forze: elettromagnetismo, gravità, forza nucleare debole e forza nucleare forte.

E' "monco" il pensiero che ritiene che nasciamo in uno spazio /tempo per poi svanire nel nulla.

Phil

Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
Se esiste viene da qualcosa e se muore non può sparire.
Questa continuità la intendo proprio come la linearità che non chiude il cerchio, ma che continua a dischiudersi "spiralmente": sappiamo che ciò che muore non sparisce e i sensi stessi ce lo dicono... se guardo una persona morta, essa è "spenta", non "sparita"; e se la fissassi per anni, la vederei mutare e decomporsi, e anche quando diventasse così volatile da essere spolverata via da una corrente d'aria, potrei supporre che si è solo frammentata, magari atomicamente, ma non è certo sparita dall'esistenza, semmai è andata solo aldilà delle possibilità dei miei organi percettivi (ma non nell'aldilà che presuppongono i riti funebri...).
Forse, nel lutto, lo "sparire" è solo un fraintendimento emotivo del "mutare"  ;)

Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
non si ragiona con i sentimenti o si sentimentalizzano le ragioni.
Si potrebbe anche fare,  sebbene, prendendo in prestito l'immagine che usavi in precedenza, non conviene fare calcoli con una monetina, così come non posso far decidere un "aut aut" ad una calcolatrice...

Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
E' strano che io credente e metafisico debba dire che cosmologicamente l'universo non è infinito e che lo spazio tempo nasce dalla interazioni delle forze: elettromagnetismo, gravità, forza nucleare debole e forza nucleare forte.
Eppure la logica si ribella (e anche l'idea di dio mal tollererebbe che ci fosse anche un altro infinito "concorrente"  ;D ): se l'universo è finito, cosa c'è fuori dall'universo? Dov'è "contenuta" la finitudine dell'universo finito? Il problema viene così solo spostato oltre...
Domanda: in fisica si discrimina adeguatamente fra il tempo o la misurazione spaziale del tempo? Lo chiedo davvero (e forse nemmeno per la prima volta, sarà l'età  ;D ): non sono pratico di questa scienza, eppure ho il sospetto, seppur da ignorante in materia, che talvolta si confonda il "prima e dopo" materiale (e non so se sia la parola più pertinente), con il "prima e dopo" concettuale (che è un ordine logico)... ad esempio, se ora Tizio è qui, poi viaggia nel tempo a ritroso fino al 1500 e poi torna, l'ordine materiale non coincide con quello concettuale: materialmente, la prima traccia cronologica di tizio è nel 1500, poi alla sua nascita, poi al momento della partenza e poi del suo ritorno; mentre, concettualmente, la prima traccia cronologica di Tizio è alla sua nascita, poiché se non fosse nato non sarebbe potuto esistere, poi parte per il viaggio nel tempo, poi vive un po' nel 1500, poi ritorna... non so se l'esempio aiuta a spiegare cosa intendo per "tempo concettuale" vs "misurazione materiale del tempo".


Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
E' "monco" il pensiero che ritiene che nasciamo in uno spazio /tempo per poi svanire nel nulla.
Forse più che "monco" sarebbe "magico" e anti-scientifico (termodinamicamente inesatto?). Il corpo non svanisce (muta la sua "identità"), tuttavia se postuliamo un'anima o una divinità, allora dobbiamo (ecco la deontologia metafisica  ;) ) affrontare il problema di "localizzarla" o spiegarne le vicissitudini nello spazio/tempo (ma senza poter usare le procedure gnoseologiche del dominio che si occupa dello spazio/tempo... e rieccoci all'aporia di fondo di cui sopra  :) ).

paul11

#81
Phil,
quando osserviamo un morto, vediamo un corpo fisico, privo di un principio vitale che nessuno è mai riuscito a spiegare nel dominio fisico naturale;il mistero della morte si origina fin  dalla nascita, perché siamo nati fisicamente per morire fisicamente. Siamo "progettati" per finire dentro uno spazio/tempo. e pensiamo che questo spazio/tempo sia una verità perché esiste?

Al tuo esempio io direi semplicemente che noi osserviamo il sole otto minuti dopo che il suo raggio di luce è partito, tant'è che vediamo il sole tramontare otto minuti dopo che è realmente ,fisicamente sparito dall'orizzonte.

Guardalo dal punto di vista fisico astronomico quanto la percettività sensoriale fallisce tanto più usciamo dal pianeta Terra.
Noi vediamo stelle che sono già morte, ma la sua luce che viaggia per l'universo ci arriva solo ora e noi vediamo un vivo che invece è morto.
Se qualcuno ad esempio si trovasse su pianeta a duemila anni luce dal pianeta terra, potrebbero  vedere con un potentissimo telescopio degli umani e la storia di duemila anni fa, se puntano bene verso la galilea vedrebbero un uomo chimato Gesù che predica alla folla. o se vuoi noi potremmo vedere persone che sono morte qui ed ora, invece ancora in vita in funzione della distanza dal nostro pianeta Più ci allontaneremmo dal nostro pianeta e più vedremmo un nastro temporale che si riavvolge, vedremmo persone e storie paesaggi scomparsi. Perchè le immagini dell'adesso qui ,viaggiano a circa 300 mila kilometri orari e arrivano con un ritardo in funzione dello spazio percorso.
E questo la dice lunga su cosa sia lo spazio/tempo, la relatività e la curva temporale in rapporto allo spazio.
Quando scrivo che le convenzioni sono " a misura d'uomo" intendo l'adattamento fisico alle pressioni temperature tempi di rotazione e rivoluzione del nostro pianeta terra. Ecco perché la fisica è a sua volta adattamento e il concetto invece non segue le regole fisiche. perchè se mi fido del mondo fisco naturale il mio linguaggio è tarato anche logicamente(perché la logica è asservita come strumento in funzione dell'osservato) per descrivere questo dominio.ma se seguo il concetto logico al di fuori del domino naturale ecco che emergono contraddizioni

green demetr

Ciao Sari

sì il discorso sulla Paura.  :-[  Avrei dovuto affrontarlo questa estate nel confronto con Hobbes.

Ma è veramente arduo ricavarlo, Hobbes è un cinico, e non sono nemmeno riuscito ad avvicinarmi a quella lettura.

Ma rimane il vero punto di svolta. E' il tema che mi accompagna fin da bambino.

A differenza degli altri (tutti i bambini pensano la morte in maniera assolutamente radicale, sono gli adulti che si spaventano, e anche questo è materiale clinico psicanalitico e quindi scientifico), non l'ho affatto dimenticato. Si è radicato troppo in profondità.

E la profondità gli appartiene.

Certo in qualsiasi momento facciamo "spallucce". Ne va del nostro vivere quotidiano.

Per quel che mi riguarda (e ovviamente vivendo in un cultura cattolica, ma leggendo solo testi induisti) Dio è proprio ciò che valica la morte.

Ma che sta già dentro la morte. Hai perfettamente ragione a intuirlo.

Qui non voglio fare filosofia, solo raccontare la mia esperienza.

L'esperienza limite dei miei 13 o 14 anni, quando arrivato al quarto livello di meditazione ho cominciato a percerpire gli effetti della tecnica (meditativa), ossia la completa sparizione del mio IO.
Diffido tantissimo di chi ne parla come se fosse qualcosa all'acqua di rose, qualcosa di raggiungibile.
E' l'esperienza più terrificante. Perchè si perde controllo di se stessi.
L'unica cosa che ricordo era il pensiero: "no! io voglio essere vivo."


Quando scrivi dei progetti quotidiani, della nosta routine, e della paura di perderli, mi hai evocato qualcosa della mia angoscia quotidiana.
Ma che come sempre ha evocato i fantasmi dell'inconscio.

E poi quella terribile parola: fantasma di controllo. Non è semplicemente il fatto della routine, c'è veramente qualcosa di oscuro nel depensamento del nostro essere così come siamo, così come la nostra cultura ci ha "informati".
C'è veramente qualcosa "dentro" l'angoscia.
Nel senso che è qualcosa del mito, cioè la sua radice, è rimasto.
E cosa altro non è se non il fantasma stesso. Nel senso proprio di spirito cattivo.

Mi ha sempre fatto ridere l'idea che i fantasmi esistono. Solo con la maturità ho capito quanto questi esistano nella vita reale delle persone. Nel senso che interrogati la paura radicale era proprio quella.

Nei miei vent'anni e gli studi sulla morte, mi è rimasto in mente sopratutto un libro che descriveva le necropoli.
(modo di dissipazione dell'angoscia, che poi tratterò qualche riga più sotto)

Le città dei fantasmi erano veramente delle metropoli al confronto con i villaggi dei vivi.
(a testimonianza della sproporzione tra produzione dell'angoscia di morte e produzione dei vivi)

E' impensabile che non vi sia un meccanismo dietro alla produzione umana.

E' troppo comune, questa visione.

Ma dietro i meccanismi. Vi sono i contenuti.

Dietro il controllo vi è veramente un angoscia che ha a che fare con DIO.

Non ho idea da dove ti venga questa intuzizione, ma è assolutamente visionaria, e ha prodotto una serie di eco a cascata in me.

Non te ne so neanche dire tutta la portata. Dovrei lavorarci sopra per farli emergere tutti.

vado a farlo adesso, piccolo elenco.

Il tradimento....

Il tradimento, mi porta in mente alla "trade" e in effetti in latino tradeo è commercio.

Ossia transitazione da uno stato all'altro.

Non è dunque evidente per tutto quanto scritto prima, che effettivamente noi abbiamo tradito l'angoscia in cui risiede Dio.(l'abbiamo scambiata per un pizzico di sicurezza in più ( vedi anche freud))

Ma Dio lo si percipisce tranquillamento già al terzo stadio. Quando si ha la netta sensazione di essere tutto uno con il cosmo, nel mio caso, nella mia tecnica, trattasi della fissazione con la potenza del suono.

E' nel quarto nel momento della strada del nirvana direbbe Buddha (scusa non sto leggendo il 3d sul buddismo) che arrivano i fantasmi di controllo a impedire al fantasma di Angoscia di prenderci e portarci via. (come canta anche il divino Caposella, cantautore italiano).

Il punto è che è il passo successivo, affrontare questa paura ancestrale.

D'altronde Heidegger ha cominciato la sua filosofia proprio da lì.

La filosofia è però l'analisi dei prodotti mediati dall'uomo, rispetto al confronto con il fantasma ancestrale.

Non è l'indagine del fantasma, perchè non esiste indagine sul fantasma ma sua dissipazione.

l'indagine che vado sostenendo per chi vuole vivere e non morire, è gli effetti relativi a questo fantasma.

Perchè è evidente che DIo abita la Morte e da quella trascendendola ci fa arrivare "messaggi".

Il moto degli antichi Greci era infatti "la natura (Dio) ama nascondersi".

Per loro era ovvio.

Per noi non più.

La scienza è forse il più grande metodo di dissipazione del fantasma, l'umanità proprio a partire dai greci ci ha lavorato tantissimo.

Anche a mio parere è intollerabile far fronte all'angoscia.

Per intendere Dio, e cioè per intendere la sua mediazione tramite noi umani, ci siamo completamente dimenticati di lui.

Il tradimento è il vitello d'oro, credere che il mezzo per la dissipazione dell'angoscia (il vitello) sia d'oro (sia Dio) che invece era il motivo per cui volevamo dissipare l'angoscia.

Perchè noi vogliamo vedere Dio al di là della morte. (è questo che il bambino invariabilmente si chiede).

Il lavoro verso l'origine è quello che dovrebbe garantire il senso di dissipazione delle angosce verso il futuro.

Per chi sa leggere è il leit-motiv della Filosofia.

In questi tempi BUJO PESTO la dissipazione dell'angoscia è solo relativa alla potenza umana di poterlo fare.

Io temo che si cominci a pensare che lo stesso Dio non solo abiti l'angoscia, ma sia l'angoscia stessa, il che è evidentemente, per esperienza vissuta, FALSO.


Per quanto riguarda l'incubo cito solo Montale. (per me massimo poeta dietro solo a Rilke)

Ciao Sari

sì il discorso sulla Paura. Avrei dovuto affrontarlo questa estate nel confronto con Hobbes.

Ma è veramente arduo ricavarlo, Hobbes è un cinico, e non sono nemmeno riuscito ad avvicinarmi a quella lettura.

Ma rimane il vero punto di svolta. E' il tema che mi accompagna fin da bambino.

A differenza degli altri (tutti i bambini pensano la morte in maniera assolutamente radicale, sono gli adulti che si spaventano, e anche questo è materiale clinico psicanalitico e quindi scientifico), non l'ho affatto dimenticato. Si è radicato troppo in profondità.

E la profondità gli appartiene.

Certo in qualsiasi momento facciamo "spallucce". Ne va del nostro vivere quotidiano.

Per quel che mi riguarda (e ovviamente vivendo in un cultura cattolica, ma leggendo solo testi induisti) Dio è proprio ciò che valica la morte.

Ma che sta già dentro la morte. Hai perfettamente ragione a intuirlo.

Qui non voglio fare filosofia, solo raccontare la mia esperienza.

L'esperienza limite dei miei 13 o 14 anni, quando arrivato al quarto livello di meditazione ho cominciato a percerpire gli effetti della tecnica (meditativa), ossia la completa sparizione del mio IO.
Diffido tantissimo di chi ne parla come se fosse qualcosa all'acqua di rose, qualcosa di raggiungibile.
E' l'esperienza più terrificante. Perchè si perde controllo di se stessi.
L'unica cosa che ricordo era il pensiero: "no! io voglio essere vivo."


Quando scrivi dei progetti quotidiani, della nosta routine, e della paura di perderli, mi hai evocato qualcosa della mia angoscia quotidiana.
Ma che come sempre ha evocato i fantasmi dell'inconscio.

E poi quella terribile parola: fantasma di controllo. Non è semplicemente il fatto della routine, c'è veramente qualcosa di oscuro nel depensamento del nostro essere così come siamo, così come la nostra cultura ci ha "informati".
C'è veramente qualcosa "dentro" l'angoscia.
Nel senso che è qualcosa del mito, cioè la sua radice, è rimasto.
E cosa altro non è se non il fantasma stesso. Nel senso proprio di spirito cattivo.

Mi ha sempre fatto ridere l'idea che i fantasmi esistono. Solo con la maturità ho capito quanto questi esistano nella vita reale delle persone. Nel senso che interrogati la paura radicale era proprio quella.

Nei miei vent'anni e gli studi sulla morte, mi è rimasto in mente sopratutto un libro che descriveva le necropoli.
(modo di dissipazione dell'angoscia, che poi tratterò qualche riga più sotto)

Le città dei fantasmi erano veramente delle metropoli al confronto con i villaggi dei vivi.
(a testimonianza della sproporzione tra produzione dell'angoscia di morte e produzione dei vivi)

E' impensabile che non vi sia un meccanismo dietro alla produzione umana.

E' troppo comune, questa visione.

Ma dietro i meccanismi. Vi sono i contenuti.

Dietro il controllo vi è veramente un angoscia che ha a che fare con DIO.

Non ho idea da dove ti venga questa intuzizione, ma è assolutamente visionaria, e ha prodotto una serie di eco a cascata in me.

Non te ne so neanche dire tutta la portata. Dovrei lavorarci sopra per farli emergere tutti.

vado a farlo adesso, piccolo elenco.

Il tradimento....

Il tradimento, mi porta in mente alla "trade" e in effetti in latino tradeo è commercio.

Ossia transitazione da uno stato all'altro.

Non è dunque evidente per tutto quanto scritto prima, che effettivamente noi abbiamo tradito l'angoscia in cui risiede Dio.

Ma Dio lo si percipisce tranquillamento già al terzo stadio. Quando si ha la netta sensazione di essere tutto uno con il cosmo, nel mio caso, nella mia tecnica, trattasi della fissazione con la potenza del suono.

E' nel quarto nel momento della strada del nirvana direbbe Buddha (scusa non sto leggendo il 3d sul buddismo) che arrivano i fantasmi di controllo a impedire al fantasma di Angoscia di prenderci e portarci via. (come canta anche il divino Caposella, cantautore italiano).

Il punto è che è il passo successivo, affrontare questa paura ancestrale.

D'altronde Heidegger ha cominciato la sua filosofia proprio da lì.

La filosofia è però l'analisi dei prodotti mediati dall'uomo, rispetto al confronto con il fantasma ancestrale.

Non è l'indagine del fantasma, perchè non esiste indagine sul fantasma ma sua dissipazione.

l'indagine che vado sostenendo per chi vuole vivere e non morire, è gli effetti relativi a questo fantasma.

Perchè è evidente che DIo abita la Morte e da quella trascendendola ci fa arrivare "messaggi".

Il moto degli antichi Greci era infatti "la natura (Dio) ama nascondersi".

Per loro era ovvio.

Per noi non più.

La scienza è forse il più grande metodo di dissipazione del fantasma, l'umanità proprio a partire dai greci ci ha lavorato tantissimo.

Anche a mio parere è intollerabile far fronte all'angoscia.

Per intendere Dio, e cioè per intendere la sua mediazione tramite noi umani, ci siamo completamente dimenticati di lui.

Il tradimento è il vitello d'oro, credere che il mezzo per la dissipazione dell'angoscia (il vitello) sia d'oro (sia Dio) che invece era il motivo per cui volevamo dissipare l'angoscia.

Perchè noi vogliamo vedere Dio al di là della morte. (è questo che il bambino invariabilmente si chiede).

Il lavoro verso l'origine è quello che dovrebbe garantire il senso di dissipazione delle angosce verso il futuro.

Per chi sa leggere è il leit-motiv della Filosofia.

In questi tempi BUJO PESTO la dissipazione dell'angoscia è solo relativa alla potenza umana di poterlo fare.

Io temo che si cominci a pensare che lo stesso Dio non solo abiti l'angoscia, ma sia l'angoscia stessa, il che è evidentemente, per esperienza vissuta, FALSO.


Per quanto riguarda l'incubo cito solo Montale.




Forse un mattino andando in un'aria di vetro

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
Alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


come a dire ovviamente l'incubo è reale.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

intanto mi fa piacere che il topic sia decollato, e vi ringrazio, anche se so che qua non ho "alleati" a sostegno delle mie tesi   

Rispondo a Sgiombo: 

"Per conoscere (limitatamente, parzialmente) un ente o un evento non è necessario disporre delle nozioni della totalità delle sue possibili determinazioni, ma di almeno qualcuna sì, altrimenti non se ne sa alcunché, non lo si conosce per nulla (per definizione)."

  

L'intelligibilità non la intendo tanto come sinonimo di "comprensibilità", bensì come carattere dei contenuti che apprendiamo attraverso la mente, e non dai sensi corporei. Tuttavia il nesso comprensibilità-intelligibilità è un dato fondamentale per rendersi conto che riducendo la relazione gnoseologica soggetto-oggetto allo stadio della pura esperienza sensibile nessuna conoscenza del mondo sarebbe possibile, perché sono le categorie ideali, cioè intelligibili che permettono alla mente di individuare, dal flusso dei dati sensibili, delle forme distinte che poi permettono la concettualizzazione degli oggetti e la conseguente possibilità di legare tali oggetti in nessi di causa-effetto, rendendo così il mondo comprensibile. E dunque dato che tale concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.



 
 

"Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico)." 



Io non so nuotare e di fatto non conosco la tecnica adeguata per saper nuotare, se la conoscessi, magari dopo averla imparata con delle lezioni, potrei applicarla e nuotare. Ciò che posso sapere del nuoto è qualcosa di generico, come il significato del concetto di "nuotare", ma questa conoscenza generica può solo limitarsi a farmi riconoscere cosa intende dirmi qualcuno se mi dice: "ieri mi son fatto una bella nuotata", cioè so che intende dire di aver attraversato un certo corso d'acqua. Lo stesso dicasi del ballo, in ogni caso ogni livello di conoscenza di una certa cosa coincide con un certo "rendersi simile" all'oggetto. Lo stesso critico d'arte, per quel che ne so, non si occupa delle tecniche di creazione artistica, non è tenuto a conoscerle nel dettaglio, quindi non ha bisogno di essere a sua volta un artista. Il suo lavoro consiste in un'ermeneutica del prodotto finito, un'analisi dei dettagli estetici dell'opera finita che li riconduce alle idee, le intenzioni, le influenze dell'artista, riuscendo così a coglierne il senso. Per far questo il sapere di cui ha bisogno è essenzialmente dato dalla ricostruzione del periodo storico in cui l'opera è stata compiuta, il contesto sociale, culturale, politico, la biografia dell'autore... mentre può sorvolare (fino a un certo punto) sui dettagli tecnici della fabbricazione dell'opera. Il critico d'arte non è un restauratore. Sinceramente ce li vedo poco Sgarbi (laureato in filosofia) o Bonito Oliva come esperti dei processi chimici di conservazione degli affreschi o delle pitture a tempera... Anche qua emerge che la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria, e ciò conferma il principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza: ogni pratica presuppone sempre un adeguarsi del soggetto alla natura dell'oggetto per manipolarlo sulla base dei propri fini, e l'adeguazione presuppone la conoscenza della realtà oggettiva, cosicché la conoscenza teorica di un soggetto nei confronti di un oggetto viaggia parallela rispetto al "farsi simile" del soggetto all'oggetto che conosce, per potervicisi adeguare e dunque agire su di esso pragmaticamente.


 

 

 
 "Prova a convincere un neonato o anche solo un bambino di tre anni che sa parlare di rendersi conto che conosce i concetti di cui sopra ma semplicemente non ci sta facendo caso; ovviamente non: insegnandogli a posteriori quale ne sia il significato, ma solo dicendogli di fare bere attenzione a ciò che, sia pure un po' distrattamente, di già conosce, ha già in mente (sia pure in uno stato di "ombra provvisoria", ma non per questo interiormente assenti); dicendogli. "pensaci bene!", come quando si cerca di fargli ricordare qualcosa che conosce ma al momento non riesce a rammentare, per esempio dove ha appoggiato il cappello che attualmente non si trova.
Al concetto di "infinito" (e a tutti gli altri), dopo che lo si è acquisito a posteriori, non si fa caso se, per esempio, si sta guidando in un traffico intenso e convulso che richiede grande attenzione e concentrazione nella conduzione del proprio veicolo; ma basta fermarsi e fare attenzione a ciò che si sa (avendolo imparato a posteriori), ai propri ricordi in proposito, per richiamarlo prontamente alla mente cosciente; se invece non lo si è previamente imparato a posteriori, allora non c' è attenzionamento, "spremitura delle meningi", per quanto poderosa, che tenga: non lo si ricorda. Se prima qualcuno non ce lo ha insegnato o non vi siamo arrivati autonomamente per astrazioni dalla e ragionamenti sulla nostra precedente esperienza (a posteriori!) non c' è alcun  modo di rendersi conto di conoscerlo.
La cosiddetta "maieutica socratica" che sarebbe in azione nei dialoghi di Platone in realtà non consiste affatto nel prestare attenzione a cose di già conosciute ma momentaneamente trascurate perché "non ci si fa caso", magari in quanto si sta pensando ad altro; è invece una forma di "insegnamento didatticamente non passivo" (cioè non di nozioni trasmesse verbalmente in quanto "già confezionate"), di "guida didatticamente attiva" all' elaborazione "in prima persona" a posteriori di nozioni e concetti attraverso il ragionamento su concetti astratti a partire da sensazioni particolari concrete (un far "ripercorrere" al discente il "cammino" dell' elaborazione dei concetti più astratti e "lontani" dall' esperienza quotidiana, anziché presentarglieli così come sono stati già in precedenza elaborati -sempre a posteriori- da altri prima di lui).

Ogni volta che "ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente", allora contemporaneamente al "sovvenire" di tale idea, al rammentarla, all' esserne attualmente coscienti, inevitabilmente siamo coscienti anche del fatto che già la sapevamo, che già altre volte l' avevamo pensata: la "riconosciamo", non la "conosciamo"!
Non così quando leggendo un libro di filosofia o banalmente un vocabolario veniamo a conoscenza (per la prima volta: la conosciamo; e non: la riconosciamo) di un' idea (fosse pure quella di "infinito", di "Dio", di "nulla", ecc.); oppure quando qualcuno "con (pretesa) socratica maieutica" ci fa ripercorre il "cammino mentale", che a partire dai dati particolari concreti della nostra esperienza conduce all' elaborazione (a posteriori!) di essa: in questi casi ci rendiamo ben conto della novità di tale conoscenza, del fatto che essa è stata acquisita "ex novo" e (direttamente in prima persona o indirettamente per trasmissione linguistica da parte di altri) a partire da "stimoli esterni" (e da astrazioni, ragionamenti) a posteriori."


 

 
Il discorso delle rimemorazioni voleva essere un'esemplificazione della non coincidenza fra il raggio degli oggetti sottoposti alla nostra attenzione "attuale", il "rendersi conto" pienamente riflesso, e la totalità dei contenuti interiori della nostra mente, dell'idea per cui non sempre il "rendersi conto" produce dal nulla i suoi contenuti nel momento a-posteriori in cui si pone in atto. Non mi sfugge la differenza tra un procedimento a ritroso che consentirebbe di recuperare all'attenzione delle nozioni già presenti in noi ma comunque derivate da un'esperienza esterna ed un far riemergere contenuti davvero innati. Ma il punto è che per legittimare una posizione innatista (o "apriorista" come sarebbe preferibile dire dato che "innato" rimanda troppo all'idea di nascita, quindi ad un piano biologico di genetica, ereditarietà, riconducibile ad un'impostazione naturalista, certamente interessante e importante, ma che rischia di portarci troppo fuori dal piano strettamente filosofico-trascendentale), non c'è alcun bisogno di negare la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto: perché sia legittimata basta che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia riconosciuta come insufficiente alla formazione di certi concetti. Non ho mai negato la necessità dello stimolo esterno, e non mi illudo di poter portare un bambino di 3 anni a fargli pensare a un'idea di infinito o di noumeno semplicemente spingendolo a prestare più attenzione. Ciò sarebbe impossibile, in assenza del raggiungimento della fase di uno sviluppo scandito da eventi esterni che formano le facoltà cognitive astrattive, come l'insegnamento scolastico, ma il punto è che lo "sviluppo" non va visto come creazione dal nullo, ma progressiva attualizzazione di strutture latenti, comunque già presenti in noi. Quando dico che l'esperienza esterna è un' "occasione" per il rinvenimento di nozioni latenti in profondità mica la voglio squalificare o denigrare... ne ammetto la necessità, ma anche l'insufficienza, perché se l'apprendimento esterno fosse sufficiente allora, qua mi ricollego all'osservazione di Paul 11, allora dovremmo porci il problema sul perché un animale non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona. L'unica soluzione è ammettere nella persona un'interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che li risveglia in noi ma senza crearli. La pura passività dall'esterno, l'idea della "tabula rasa" sarebbe ammissibile solo presupponendo che a parità di stimolo qualunque soggetto risponda necessariamente allo stesso modo, così non è. Lo stesso concetto di "guida didatticamente attiva" credo testimoni tutto ciò: L'attività è la condizione in cui un soggetto attivo interviene su un oggetto portando qualcosa di sé su di esso, svolge un'attività in un certo modo performativa, foss'anche a livello psichico nel far riafforare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti latenti. Una tabula rasa nella sua vuotezza non potrebbe essere in alcun modo soggetto attivo, anche se non autosufficiente, pura indeterminatezza.

 

 

 

 

Per Phil

la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda. Non è irrazionale, ma è certamente a-razionale. Diversa è la questione delle idee latenti innatamente. Tale idea di latenza trae una sua razionalità dall'essere una possibile soluzione ad una ben sensata questione gnoseologica: l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno. Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento

Phil

Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda.
L'esempio era volutamente giocoso e surreale, eppure, a ben vedere, non è che fra l'idea del pappagallo e l'idea di anima ci sia troppa differenza, sia per indimostrabilità che per "utilità teoretica"... ;)

Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
Si; tuttavia direi meglio se ad un interno verificabile...

Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Secondo me, la capacità di astrarre sta proprio in questa produzione di concetti intelligibili ispirati (ma eccedenti per grado) al sensibile; così come, ad esempio, la negazione (operazione logica) del finito (sensibile) produce il concetto di in-finito (non-sensibile); e tirerei anche il ballo la comunicazione simbolica dei nostri simili, l'impatto culturale e la narrazione ricevuta (la stessa che ci consente di parlare di "idee innate"  ;) ).
Se si crede in questi fattori (cognitivi, logici e culturali), l'innatismo delle idee non è più necessario; se poi queste spiegazioni non vengono ritenute adeguatamente falsificanti l'innatismo, allora certo che resta una posizione più che plausibile  :)

sgiombo

Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM

L'intelligibilità non la intendo tanto come sinonimo di "comprensibilità", bensì come carattere dei contenuti che apprendiamo attraverso la mente, e non dai sensi corporei. Tuttavia il nesso comprensibilità-intelligibilità è un dato fondamentale per rendersi conto che riducendo la relazione gnoseologica soggetto-oggetto allo stadio della pura esperienza sensibile nessuna conoscenza del mondo sarebbe possibile, perché sono le categorie ideali, cioè intelligibili che permettono alla mente di individuare, dal flusso dei dati sensibili, delle forme distinte che poi permettono la concettualizzazione degli oggetti e la conseguente possibilità di legare tali oggetti in nessi di causa-effetto, rendendo così il mondo comprensibile. E dunque dato che tale concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.
CitazioneMa non ho mai sostenuto che la conoscenza sia riducibile alla sola esperienza sensibile.
 
Ho invece sempre negato (ma qui non ripeto le argomentazioni già in precedenza esposte) che ogni concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.
 
Per me ogni concettualizzazione presuppone invece (di reale, realmente in atto e non meramente potenziale) solo la capacità di concettualizzare, l' "intelligenza" necessaria a farlo.






"Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico)."



Io non so nuotare e di fatto non conosco la tecnica adeguata per saper nuotare, se la conoscessi, magari dopo averla imparata con delle lezioni, potrei applicarla e nuotare. Ciò che posso sapere del nuoto è qualcosa di generico, come il significato del concetto di "nuotare", ma questa conoscenza generica può solo limitarsi a farmi riconoscere cosa intende dirmi qualcuno se mi dice: "ieri mi son fatto una bella nuotata", cioè so che intende dire di aver attraversato un certo corso d'acqua. Lo stesso dicasi del ballo, in ogni caso ogni livello di conoscenza di una certa cosa coincide con un certo "rendersi simile" all'oggetto. Lo stesso critico d'arte, per quel che ne so, non si occupa delle tecniche di creazione artistica, non è tenuto a conoscerle nel dettaglio, quindi non ha bisogno di essere a sua volta un artista. Il suo lavoro consiste in un'ermeneutica del prodotto finito, un'analisi dei dettagli estetici dell'opera finita che li riconduce alle idee, le intenzioni, le influenze dell'artista, riuscendo così a coglierne il senso. Per far questo il sapere di cui ha bisogno è essenzialmente dato dalla ricostruzione del periodo storico in cui l'opera è stata compiuta, il contesto sociale, culturale, politico, la biografia dell'autore... mentre può sorvolare (fino a un certo punto) sui dettagli tecnici della fabbricazione dell'opera. Il critico d'arte non è un restauratore. Sinceramente ce li vedo poco Sgarbi (laureato in filosofia) o Bonito Oliva come esperti dei processi chimici di conservazione degli affreschi o delle pitture a tempera...

CitazioneErgo, Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto".


Anche qua emerge che la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria, e ciò conferma il principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza: ogni pratica presuppone sempre un adeguarsi del soggetto alla natura dell'oggetto per manipolarlo sulla base dei propri fini, e l'adeguazione presuppone la conoscenza della realtà oggettiva, cosicché la conoscenza teorica di un soggetto nei confronti di un oggetto viaggia parallela rispetto al "farsi simile" del soggetto all'oggetto che conosce, per potervicisi adeguare e dunque agire su di esso pragmaticamente.

CitazioneNon mi sembra che la conclusione "principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza" consegua dalla premessa "la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria".






Il discorso delle rimemorazioni voleva essere un'esemplificazione della non coincidenza fra il raggio degli oggetti sottoposti alla nostra attenzione "attuale", il "rendersi conto" pienamente riflesso, e la totalità dei contenuti interiori della nostra mente, dell'idea per cui non sempre il "rendersi conto" produce dal nulla i suoi contenuti nel momento a-posteriori in cui si pone in atto. Non mi sfugge la differenza tra un procedimento a ritroso che consentirebbe di recuperare all'attenzione delle nozioni già presenti in noi ma comunque derivate da un'esperienza esterna ed un far riemergere contenuti davvero innati. Ma il punto è che per legittimare una posizione innatista (o "apriorista" come sarebbe preferibile dire dato che "innato" rimanda troppo all'idea di nascita, quindi ad un piano biologico di genetica, ereditarietà, riconducibile ad un'impostazione naturalista, certamente interessante e importante, ma che rischia di portarci troppo fuori dal piano strettamente filosofico-trascendentale), non c'è alcun bisogno di negare la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto: perché sia legittimata basta che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia riconosciuta come insufficiente alla formazione di certi concetti. Non ho mai negato la necessità dello stimolo esterno, e non mi illudo di poter portare un bambino di 3 anni a fargli pensare a un'idea di infinito o di noumeno semplicemente spingendolo a prestare più attenzione. Ciò sarebbe impossibile, in assenza del raggiungimento della fase di uno sviluppo scandito da eventi esterni che formano le facoltà cognitive astrattive, come l'insegnamento scolastico, ma il punto è che lo "sviluppo" non va visto come creazione dal nullo, ma progressiva attualizzazione di strutture latenti, comunque già presenti in noi. Quando dico che l'esperienza esterna è un' "occasione" per il rinvenimento di nozioni latenti in profondità mica la voglio squalificare o denigrare... ne ammetto la necessità, ma anche l'insufficienza, perché se l'apprendimento esterno fosse sufficiente allora, qua mi ricollego all'osservazione di Paul 11, allora dovremmo porci il problema sul perché un animale non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona. L'unica soluzione è ammettere nella persona un'interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che li risveglia in noi ma senza crearli. La pura passività dall'esterno, l'idea della "tabula rasa" sarebbe ammissibile solo presupponendo che a parità di stimolo qualunque soggetto risponda necessariamente allo stesso modo, così non è. Lo stesso concetto di "guida didatticamente attiva" credo testimoni tutto ciò: L'attività è la condizione in cui un soggetto attivo interviene su un oggetto portando qualcosa di sé su di esso, svolge un'attività in un certo modo performativa, foss'anche a livello psichico nel far riafforare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti latenti. Una tabula rasa nella sua vuotezza non potrebbe essere in alcun modo soggetto attivo, anche se non autosufficiente, pura indeterminatezza.
CitazioneMa per sostenere una tesi "aprioristica" della conoscenza non basta che si ammetta la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto; perché sia legittimata occorre anche che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia dimostrata come insufficiente alla formazione di certi concetti.
Ma a me sembra di aver dimostrato che é sufficiente; oltre ovviamente alla capacità di ragionare sull' esperienza esterna (a posteriori) stessa (che metaforicamente é costituita dal materiale di cui é fatta e dalle caratteristiche fisiche che sono proprie della "tabula rasa" degli empiristi).
 
Non ho mai sostenuto che lo "sviluppo" delle conoscenze umane sia una creazione dal nullo; ma ho sempre affermato che esso é progressiva attualizzazione di potenziali capacità intellettive (e non affatto di conoscenze aprioristicamente) già presenti in noi (non di strutture latenti intese come nozioni a priori, ma come mere potenzialità, capacità sviluppabili di ragionare).
 
 
Un animale (non umano) non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona umana per il semplice fatto che é molto meno intelligente, ha capacità di astrarre, confrontare, collegare, ecc. i dati di esperienza (a posteriori) di gran lunga minori.
In questo consiste nella persona un' interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che non li risveglia in noi, né li crea, ma invece consente alle nostre capacità "interiori" intellettive di, per così dire crearli, o meglio ricavarli, elaborarli a posteriori, a partire dall' esperienza.
 
 
Per continuare con la metafora della tabula rasa, ricaviamo (attivamente ragionando sull' esperienza, e non certo "passivamente"!) diverse credenze e conoscenze gli uni dagli altri sia (secondo me soprattutto) perché le esperienze di due persone umane non sono mai perfettamente identiche (ovvero sono sempre in qualche misura diverse), sia perché "il materiale" di cui é fatta la tabula rasa di ciascuna persona umana e "le sue caratteristiche fisiche" sono in qualche (secondo me assai limitata!) misura diverse da quelle dalle tabulae rasae di tutte le altre persone umane (soprattutto per diversi fatti intervenuti durante lo sviluppo fisiologico, e poi anche intellettuale, mentale di ciascuno non per cause genetiche, se non in casi decisamente patologici).
Attività che mi pare di aver dimostrato comunque non consista affatto nel far riaffiorare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti (di conoscenza, alcuna nozione, alcun effettivo, reale sapere) latenti.
 
 
A parte il fatto che una metafora non é mai una descrizione "perfetta", per filo e per segno di ciò cui allude (non sarebbe più una metafora ma invece una esposizione letterale), ribadisco che il materiale di cui é fatta la tavola, le sua caratteristiche fisiche condizionano "attivamente" le possibilità che l' esperienza (a posteriori) vi scriva certe credenze e certe conoscenze e non certe altre.









Per Phil

la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda. Non è irrazionale, ma è certamente a-razionale. Diversa è la questione delle idee latenti innatamente. Tale idea di latenza trae una sua razionalità dall'essere una possibile soluzione ad una ben sensata questione gnoseologica: l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.

CitazioneE qui basterà trovarci l' intelligenza umana.

Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento

CitazioneEd é falsificata (oltre che quanto già da me in precedenza argomentato) dal fatto che all'interno di noi le nostre capacità intellettive colmano egregiamente l' insufficienza dell' esperienza a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili.

davintro

Citazione di: Phil il 06 Ottobre 2017, 20:43:04 PM
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMla differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda.
L'esempio era volutamente giocoso e surreale, eppure, a ben vedere, non è che fra l'idea del pappagallo e l'idea di anima ci sia troppa differenza, sia per indimostrabilità che per "utilità teoretica"... ;)
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMl'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
Si; tuttavia direi meglio se ad un interno verificabile...
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMMesse così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Secondo me, la capacità di astrarre sta proprio in questa produzione di concetti intelligibili ispirati (ma eccedenti per grado) al sensibile; così come, ad esempio, la negazione (operazione logica) del finito (sensibile) produce il concetto di in-finito (non-sensibile); e tirerei anche il ballo la comunicazione simbolica dei nostri simili, l'impatto culturale e la narrazione ricevuta (la stessa che ci consente di parlare di "idee innate" ;) ). Se si crede in questi fattori (cognitivi, logici e culturali), l'innatismo delle idee non è più necessario; se poi queste spiegazioni non vengono ritenute adeguatamente falsificanti l'innatismo, allora certo che resta una posizione più che plausibile :)


Tutto dipende da cosa si intende per "anima": se la si concepisce come sostanza spirituale del tutto separata e slegata dalla materia, allora si avrebbe ragione nel pensare che ammetterne l'esistenza, pur non essendo illogico, sarebbe del tutto demotivato dal punto di vista argomentativo. Ciò in quanto l'assoluta separazione anima-corpo condurrebbe la prima alla totale esclusione della prima, dal complesso dei legami causa-effetto che costituiscono la realtà considerata sul piano della razionalità. Se argomentare razionalmente la presenza di un ente vuol dire porlo come principio causale per rispondere a dei "perché", allora l'isolamento dell'anima dai rapporti causali con il resto degli enti ne determinerebbe l'irrilevanza esplicativa delle varie questioni teoretiche sulla realtà, in parole povere la non-razionalità, la non-necessità di legittimare razionalmente la sua esistenza. Lo stesso Cartesio provò maldestramente a correggere il suo radicale dualismo sostanzialista res cogitans-res extensa cercando nella ghiandola pienale una sorta di medium tra le due sostanze. Suppongo, una mia modesta interpretazione, si fosse reso conto che la totale separazione avrebbe reso impossibile qualunque spiegazione razionale dei fenomeni psicofisici costituenti l'unità della persona, in quanto anima e corpo, in assenza di qualunque punto di contatto, sarebbero slegati da ogni interconnessione causale. Accanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia, costituendola come corpo vivente, "animato" appunto. In questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante... L'impressione personale è che per chi sostiene pregiudizialmente una visione materialista e scientista della realtà (non mi riferisco a Phil o a nessun altro in particolare, ma ad un generale "sentire comune") faccia molto comodo ritagliarsi un "nemico" su misura, facile da sconfiggere, uno spiritualismo della prima concezione, uno spirito del tutto scisso dal complesso della realtà fenomeno d'esperienza, da ogni nesso di causalità, che avrebbe la stessa legittimità razionale del pappagallo invisibile, la cui presenza potrebbe essere testimoniata solo per atto di fede, o che potrebbe manifestarsi non come principio sistematicamente presente, ma come saltuario fenomeno  emergente in sedute spiritiche, evocato da santoni, medium, ciarlatani. Uno spiritualismo, che è solo la parodia di se stesso, perché lo spiritualismo autentico, frutto di una solida tradizione metafisica speculativa razionale, potrebbe creare ben più grattacapi ai materialisti.

Certamente l'interno va verificato, ma perché sia davvero "interno" il modo di verificazione non può essere lo stesso dall'esterno, perché altrimenti i risultati non potrebbero divergere rispetto a quelli dell'esperienza esterna, e il metodo d'indagine non potrebbe essere adeguato a cogliere un ambito del reale, l'interiorità, confondendola con l'esteriorità, proprio quella realtà che si era rivelata insufficiente per rispondere a quelle domande, che poi appunto ci hanno portato a rivolgere l'attenzione all'interno. La presenza di nozioni originarie alla nostra mente è ricavabile, a mio avviso,  all'interno di una gnoseologia in cui il meccanismo conoscitivo viene considerato astraendo dalle circostanze storiche-fattuali in cui si attua, per considerarlo nella sua essenza, cioè dotato di strutture aprioristiche che reggono la possibilità del processo, e che in quanto aprioristiche sono anche originarie. Escludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo



sgiombo

Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM



l negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo

Ma non negarli in quanto non ricavabili dalla verificazione interna.

Phil

Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
Accanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia
La "causa formale" dell'uomo, attualizzando la terminologia aristotelica, credo sia la genetica (che è infatti sostanziale: Dna, geni, etc.), anche se il buon Aristotele non poteva certo saperlo  ;D

Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
In questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante...
L'anima come spiegazione della vita è un classico intramontabile e... infalsificabile  ;)

Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
Escludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
L'anima (proprio come il "pappagallo funebre") non può essere razionalmente esclusa o negata, essendo indimostrabile, per cui concordo appieno sul fatto che l'antiinnatismo pecca di una "protezionistica" chiusura logica che confonde maliziosamente l'inverificabile con il falso.

davintro

Citazione di: Phil il 13 Ottobre 2017, 16:39:54 PM
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMAccanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia
La "causa formale" dell'uomo, attualizzando la terminologia aristotelica, credo sia la genetica (che è infatti sostanziale: Dna, geni, etc.), anche se il buon Aristotele non poteva certo saperlo ;D
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMIn questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante...
L'anima come spiegazione della vita è un classico intramontabile e... infalsificabile ;)
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMEscludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
L'anima (proprio come il "pappagallo funebre") non può essere razionalmente esclusa o negata, essendo indimostrabile, per cui concordo appieno sul fatto che l'antiinnatismo pecca di una "protezionistica" chiusura logica che confonde maliziosamente l'inverificabile con il falso.

contrapporre gli oggetti di studio della genetica all'anima avrebbe senso solo restando all'interno dell'errore della visione che separa in modo assoluto il piano della materia dal piano dello spirito. La visione per la quale se troviamo nel piano della materia un ente che ci appare poter svolgere una certa azione inizialmente attribuita a una realtà spirituale, allora ci si sente legittimati a sostituire questa con quello relegandola al piano di un'ammuffita superstizione del passato. Questa è la tipica visione del progressivismo positivista che vede la scienza (nel senso fisicalista ed empirico) come un continuo progresso che man mano che progredisce si mangia sempre più ambiti della metafisica, privata di un proprio peculiare ambito di oggetti. In realtà, il dna non sostituisce l'anima, piuttosto lo si potrebbe vedere come una conferma, un corrispettivo nell'ordine materiale dell'azione causativa della forma vivente, l'anima sul piano spirituale-metafisico. Il punto è che la materia pura non esiste come sostanza, in nessun ente, neanche quelli inanimati. La materia esiste solo come "materia formata", materia che si specifica e si determinata come configurata dalla forma. Non può esistere alcuna sostanza puramente materiale, la materia esiste sempre come dotata di una certa unità e modo d'essere, delimitata dall'azione formante di un ente immateriale, nella materia vivente l'anima. E anche il dna esiste ed agisce non come materia indeterminata, mera res extensa, ma come materia formata, o meglio come componente di un organismo organizzato in un'unità circoscritta da una forma, che costituisce l'essenza specificante della sostanza di cui la materia fa parte. Se vediamo il dna agire come principio interno che conduce l'ente ad acquisire nello sviluppo organico una certa forma, ciò non vuol dire che la forma è prodotto arbitrario del dna inteso nella sua accezione materiale, ma che tale forma è presente ed agente "ab origine", che configura l materia rendendola il più possibile adeguata a esprimere il senso e il modo d'essere indicata nella forma. Qualunque entità materiale possa individuare la genetica sarà sempre materia formata, accompagnata da un'essenza immateriale che la configura come materia vivente. Fin dall'istante in cui sono stato concepito, nel nucleo originario materiale era già impressa quella spinta interiore teleologicamente orientata a svilupparsi (certamente necessitando anche di fattori esterni) come essere umano, e non come cane, gatto, o albero, l'anima umana, razionale, seppur latente e ancora non in "funzione" era già in atto come spinta verso la realizzazione dell'essenza insita nella forma, autopoiesi. Il dna, come qualunque altro concetto considerato dalla biologia o dalla genetica appartiene a un organismo materiale da sempre conformato (con-formato...) all'azione causativo della forma vivente che la costituisce come materia dotata di un senso, di un'unità, proprietà e facoltà che la specificano come un certo tipo di ente materiale anziché un altro. La complementarità tra dna ed anima rispecchia quella tra fisica e metafisica, due diverse prospettive riferite però alla stessa realtà, nel caso di cui stiamo discutendo ora l'essere vivente, più genericamente del mondo che si dà come insieme di fenomeni alla nostra esperienza.

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