ateismo e proiezione umana di Dio

Aperto da davintro, 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM

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Apeiron

davidintro,
avevo in mente a quanto pare un concetto un po' diverso di trascendenza. Per me infatti mentre l'immanente è ciò di cui abbiamo esperienza sensibile (faccio notare che per "esperienza sensibile" ci metto anche le particelle subatomiche perchè ritengo che i rivelatori che si usano negli esperimenti siano in un certo senso paragonabili a "nuovi organi di senso"), il trascendente è ciò che non può essere "contattato". Per esempio il mondo delle idee di Platone è "trascendente" perchè se mi va bene la mia anima lo raggiunge quando schiatto - ma adesso non posso in alcun modo "sperimentarlo". Un Assoluto come quello che sta uscendo dai nostri discorsi non è immanente e nemmeno trascendente secondo le mie "definizioni". Diciamo che "trascende" entrambi i concetti (d'altronde è "oltre ogni concettualizzazione"  :P ) - il tuo concetto di trascendenza è una buona "approssimazione".
In realtà il rapporto Assoluto-mondo è davvero impossibile da concettualizzare per quasi tutte le religioni e le filosofie - e questo devo dire che è molto interessante (ad esempio quando si dice che "L'Assoluto è onnipresente" è errato dire che "l'Assoluto si "trova" in questo tavolo" ma anche "l'Assoluto si trova in tutto lo spazio" perchè d'altronde "essere ovunque" è abbastanza simile all'"essere da nessuna parte"  ;D ).
La cosa interessante è che noi abbiamo una ovvia tendenza a creare concetti, ad estremizzarli fino a quando diventano quasi contraddittori. Come ben faceva notare Cusano con un bellissimo esempio di "coincidentia oppositorum" quando diceva che una circonferenza di raggio infinito non ha centro da nessuna parte (e quindi non è più una vera e propria circonferenza, visto che la circonferenza è definita come il luogo geometrico dei punti equidistante da un punto). Sono d'accordo nel dire che i concetti non sono innati ma mi pare abbastanza "innata" questa tendenza.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

davintro

rispondo a Phil

 

intanto volevo dire che apprezzo molto il considerare seppur a livello ipotetico come valida la mia sgangherata e ancora confusa (anche per me) posizione. Al di là dei normali dissensi che inevitabilmente sorgono in queste questioni, la volontà di capire provando a entrare in sistemi di pensieri anche differenti da quelli che riteniamo essere i più convincenti è sempre un ammirevole segno di apertura mentale

 

Direi che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. I concetti, tutti i concetti, non sono mai validi o invalidi, veri o falsi, la loro presenza è un dato di fatto che è assurdo negare, al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti. I concetti ascrivibili al discorso religioso sono necessariamente utilizzabili da tutti, atei e teisti, anche l'ateo per negare l'esistenza di Dio deve pur sempre partire da una certa definizione, da un'idea di Dio che ha in mente, e ritenere quell'idea di Dio valida in relazione al suo giudizio circa la non-esistenza di una realtà corrispondente a quell'idea. I concetti di qualcosa sono sempre il punto di partenza necessario per discutere e speculare sul loro riferimento alla realtà concreta ed esistenziale. Le categorie della trascendenza sono utilizzabili perché di fatto lo sono anche da chi nega loro un correlato reale, senza alcun bisogno di fede. il compito della ragione filosofica sarebbe appunto quello di provare a dedurre alcune implicazioni logiche a partire da questo dato, la presenza mentale di tali categorie. L'ipotesi che ritengo più ragionevole si fonda sul principio della proporzionalità tra soggetto e oggetto della conoscenza. Per conoscere qualcosa occorre possedere a livello soggettivo le potenzialità, delle categorie corrispondenti all'oggetto conosciuto, conoscere in fondo è sempre un "riconoscere" nel quale l'oggetto ha un senso in relazione al senso che intuiamo negli schemi soggettivi che corrisponde all'oggetto. Mi pare si possa dedurre che quanto più sarà alto il livello di corrispondenza tra categorie interpretative soggettive e dati oggettivi tanto più soggetto ed oggetto della conoscenza finiranno con il coincidere o comunque l'oggetto sarà dipendente nel suo modo d'essere dal soggetto. Non si può dire che nell'uomo la corrispondenza tra i suoi concetti sia piena e perfetta. Possiamo avere un'idea generica e formale del senso dell' "eternità" o della "perfezione" ma l'esperienza concreta e autentica di qualcosa di eterno o di perfetto, dato che poi di fatto la nostra spinta a perfezionarsi o ad aspirare ad una vita eterna provando angoscia al pensiero della morte sono sempre raffrontabili con la nostra esperienza mondana di cose caduche e imperfette. Se le categorie della trascendenza fossero non solo innate ma anche strutturalmente immanenti l'uomo credo che quest'ultimo potrebbe averne un sapere perfetto e pieno, in quanto lui stesso sarebbe il soggetto produttore di tali idee in modo autosufficiente. Queste idee invece pur presenti in noi restano nascoste da un velo di opacità che mi fa pensare che la ragione di tale presenza nell'uomo non sia l'uomo stesso (altrimenti ci sarebbe proporzione e corrispondenza piena tra soggetto pensante e idee pensate), ma conseguenza di un atto di ricezione da parte di una mente che può "produrre" da sé quei concetti essendo pienamente adeguata ad essi, cioè una mente divina, a sua volta eterna e perfetta come le idee di eternità e perfezione che comunica in noi 

Stando così le cose, la via mistica, nel suo elitarismo, non è l'unica forma di relazione immanenza-trascendenza, ma si pone accanto alla via razionale, quella appunto impegnata ad argomentare sulla base della dialettica tra limiti della mente umana e presenza all'interno di essa di concetti riferibili a cose senza limiti, come ho maldestramente provato a sintetizzare sopra in due righe, e la razionalità del procedimento starebbe non in un atto di fede circa l'esistenza di qualcosa, ma dall'innegabile presenza  mentale di concetti, presenza che è presupposta anche da chi ne nega ipotetici correlati esistenziali. Del resto gli stessi mistici non erano privi di ragione e linguaggio, già solo il fatto che ne stiamo parlando deriva dal fatto che tanti di loro non si sono limitati a vivere una certa esperienza, ma le hanno trascritte e narrate in testi e memorie. Ciò consente un certo livello di comunicabilità anche per quanto riguarda noi e loro, che permette di distaccarci da un elitarismo estremo. Comunicabilità enormemente limitata e inadeguata, ovviamente, ma non a causa di uno speciale elitarismo che caratterizzerebbe la mistica, ma dovuta alla strutturale inadeguatezza del linguaggio sensibile, che resta, nella sua convenzionalità simbolica, sempre "un passo indietro" rispetto alle cose stesse, alla qualità dei modi in cui si manifestano concretamente nella nostra esperienza vissuta cosciente, siano tali "cose stesse" attinenti ad un livello di trascendenza "teologico-verticale"  oppure orizzontale

Phil

Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. I concetti, tutti i concetti, non sono mai validi o invalidi, veri o falsi, la loro presenza è un dato di fatto che è assurdo negare, al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti.
Hai ragione, mi sono espresso in modo decisamente impreciso: un concetto, in quanto tale, non può essere affrontato con le categorie che applichiamo all'esperienza... ciò a cui mi riferivo è tuttavia proprio quell' "al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti"(cit.).
Si tratta, secondo me, di valutare le conseguenze del restare al di qua di quella corrispondenza, per indagarne il fondamento: l'eternità è un concetto, come la caducità, ma potrebbe essere un concetto non applicabile a "realtà effettivamente esistenti", risultando un insieme vuoto (a differenza di quanto possiamo dire per la caducità).
Nel momento in cui decidiamo di servirci di un concetto, magari per orientarci nell'esistenza, mi pare cruciale stabilire il suo rapporto con l'esistenza stessa... per fare un esempio (banale, come mio solito), se "impugniamo" il concetto di perfezione quando andiamo alla ricerca di una partner, forse conviene sapere che, plausibilmente, la partner "perfetta" non è, come da definizione, quella "priva di difetti" (altrimenti siamo condannati a restare single a vita), ma quella che ha delle imperfezioni che, ai nostri occhi, non pregiudicano un rapporto "speciale".

La mia perplessità era sul presupposto implicito (se non ti ho frainteso) che ai concetti in questione (eternità, perfezione, etc.) debba corrispondere anche un'esistenza non concettuale; detto altrimenti, perché non potrebbero esserci concetti solo teoretici (come ad esempio il nulla)? Se ammettiamo che ci siano idee/concetti che denotano un insieme reale vuoto, cosa ci spinge a "salvare" la trascendenza (pur rispettando la sua storia e il suo influsso sull'umanità) dall'essere un concetto senza relazioni "ontologiche" con il reale?
Mi risponderai (azzardo un'ipotesi!) perché la trascendenza non è un insieme vuoto, poiché è la trascendenza divina che ci fornisce il concetto di trascendenza... ma, chiedo, possiamo indagare davvero la trascendenza se la congetturiamo come auto-giustificante?


Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Se le categorie della trascendenza fossero non solo innate ma anche strutturalmente immanenti l'uomo credo che quest'ultimo potrebbe averne un sapere perfetto e pieno, in quanto lui stesso sarebbe il soggetto produttore di tali idee in modo autosufficiente.
L'essere categoria immanente e l'essere oggetto di una conoscenza perfetta e piena, non mi convince molto come legame: pensiamo ai "misteri" della genetica e delle neuroscienze, oppure alle categorie estetiche o politiche, etc. sono "strutturalmente immanenti all'uomo", ma sostenere che l'uomo ne abbia per questo una conoscenza piena e perfetta, suona forse troppo ottimistico...


Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Queste idee invece pur presenti in noi restano nascoste da un velo di opacità che mi fa pensare che la ragione di tale presenza nell'uomo non sia l'uomo stesso (altrimenti ci sarebbe proporzione e corrispondenza piena tra soggetto pensante e idee pensate)
L'uomo dovrebbe dunque essere misura di ciò che pensa, ma lo è in base alla sua contingente immanenza, o in base alle sue capacità mentali, che valicano spesso i limiti delle sue possibilità "carnali" (come dimostra la fantasia, che è spesso ancella della ragione quando questa si incaglia in interpretazioni troppo ostiche...)?

Credo che il discrimine sia fra l'"opacità" (la visione non chiara) e la mancata corrispondenza con la realtà (l'insieme vuoto di cui sopra): non riusciamo a esperire la "perfezione" perché è di un livello che ci eccede, oppure perché è solo un concetto-limite che, in quanto tale, delimita il pensiero ma non può essere esperito?
Rifiutando l'ipotesi (che personalmente appoggio) secondo cui tali concetti vengono creati cognitivamente per negazione (perfetto = non-imperfetto) o estremizzazione del "grado" ("perfetto" è maggiore di "meglio") di ciò che esperiamo come vissuto; riconoscendo (e qui sono d'accordo) che questi concetti non fanno necessariamente parte della struttura immanente dell'uomo, almeno fino a prova contraria (e, se anche ne facessero parte, non è scontato che potremmo conoscerli adeguatamente); supponendo inoltre che non siano concetti introiettati per assimilazione/acculturazione nei primi anni di vita (altra "vittima sacrificale" per restare nel tuo orizzonte), allora si può propendere a pensare che ci sia "qualcuno/qualcosa" che ce li abbia instillati, bisbigliandoli all'orecchio interiore della nostra anima.
Tali concetti sarebbero indicazione, o meglio, suggerimento di un'ulteriorità, non biecamente "orizzontale", che mal si presta a essere incanalata nel linguaggio umano; un'ulteriorità che potrebbe lecitamente consistere nel denominatore comune di tutte le esperienze mistiche. Tuttavia, come concludere repentinamente che si tratti di
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
una mente che può "produrre" da sé quei concetti essendo pienamente adeguata ad essi, cioè una mente divina, a sua volta eterna e perfetta come le idee di eternità e perfezione che comunica in noi
ovvero perché questo "qualcosa" dovrebbe essere simile ad una mente umana, ma solo in grado di pensare e "comunicare" categorie che la mente umana non coglie, se non per "grazia ricevuta"?
L'arbitrarietà di questo epilogo antropocentrico (quasi antropomorfico!) della ricerca, porterebbe effettivamente a pensare ad una sorta di "proiezione" (come da titolo del topic).

Questo esito trascendentale (a cui si approda dopo aver scartato processi cognitivi, strutture genetiche e dinamiche sociali) ha senso solo se si presuppone che l'uomo sia una stirpe "eletta" di cui questa trascendenza si cura, si fa carico (escludendo di essere un "giocattolo divino", oppure soltanto dei "conviventi inferiori", come era con dèi e uomini "fianco a fianco" nella mitologia greca...). Eppure, se questo è il presupposto, allora la ricerca ha già da subito una risposta inibitoria: la trascendenza, la perfezione, l'eternità, etc. esistono in quanto attributi divini e all'uomo non resta che sfiorarli concettualmente restandone abbagliato.
Rimane da chiarire se la trascendenza della divinità sia il tacito presupposto, il punto di partenza (esiste per certo una divinità, con determinati attributi, che si relaziona all'uomo anche donandogli tali categorie mentali), oppure sia il risultato, il punto di arrivo (solo una divinità può averci offerto quei concetti, quindi una divinità "deve" esistere). Il peso culturale del concetto di divinità, il modo stesso in cui utilizziamo e "carichiamo" tale concetto, credo svolga comunque un ruolo rilevante nel distinguere il presupposto dal risultato... se ci concediamo che la trascendenza non sia un mero concetto vuoto (solo mentale), se la "sostanzializziamo", allora essa giustifica l'esistenza di una divinità, che a sua volta spiega il concetto di trascendenza (come impronta del divino nell'animo umano). Il meccanismo circolare pare funzionare.
Le altre ipotesi (astrazione, negazione concettuale, introiezione culturale, etc.) sarebbero a questo punto dovute alla fallibilità interpretativa dell'intelletto umano, impossibilitato a ragionare con i concetti alla soglia della "trascendenza verticale", raggiungibile solo abbandonando le categorie del sensibile per fare spazio alla "sproporzione" dell'evento mistico.


P.s.
Spero di esser stato un adeguato "esegeta", per quanto critico, del tuo punto di vista.

P.p.s.
Mi scuso per l'overdose di domande e per la prolissità del post (dividerlo in due sarebbe stato solo un espediente grafico, non so quanto funzionale...).

Carlo Pierini

Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Direi che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. 
Tu stai parlando di quelli che Jung chiama "archetipi".
Scrivevo qualche tempo fa a un interlocutore:

<<...Una cosa è la similitudine tra gli individui, che rende possibile la comunicazione, e cosa ben diversa è la similitudine dei CONTENUTI delle idee. Infatti gli archetipi, se sono autentici (non distorti o mutilati) sono tutti rigorosamente complementari tra di loro e MAI contraddittori, proprio come tutte le verità che sono autenticamente tali. Mentre le "idee ordinarie" sono prevalentemente conflittuali, spesso anche quando appartengono ad un medesimo pensiero individuale (la coerenza è un bene tanto prezioso quanto raro).>>

Conosci Jung?

davintro

Citazione di: Carlo Pierini il 22 Agosto 2017, 17:46:03 PM
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PMDirei che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto.
Tu stai parlando di quelli che Jung chiama "archetipi". Scrivevo qualche tempo fa a un interlocutore: <<...Una cosa è la similitudine tra gli individui, che rende possibile la comunicazione, e cosa ben diversa è la similitudine dei CONTENUTI delle idee. Infatti gli archetipi, se sono autentici (non distorti o mutilati) sono tutti rigorosamente complementari tra di loro e MAI contraddittori, proprio come tutte le verità che sono autenticamente tali. Mentre le "idee ordinarie" sono prevalentemente conflittuali, spesso anche quando appartengono ad un medesimo pensiero individuale (la coerenza è un bene tanto prezioso quanto raro).>> Conosci Jung?

per la verità non pensavo agli archetipi junghiani, volevo solo sottolineare come "verità" e "illusione" siano categorie che hanno un senso solo se riferite a giudizi, mentre l'intuizione di idee è un dato fenomenologico antepredicativo, non un giudizio. L'intuizione dell'idea di eternità, trascendenza ecc. non è un giudizio, un atto tetico, posizionale nei confronti della realtà oggettiva, nei cui confronti si può essere d'accordo o in disaccordo, ma un vissuto soggettivo che fintanto che resta nell'immanenza della coscienza è una presenza al di fuori della dubitabilità. Infatti anche l'ateo, come il credente, non può negare di avere nella sua mente un'idea di Dio, di eternità, perfezione... altrimenti a cosa riferirebbe il suo giudizio di non-esistenza? Ciò che cambia non è il riconoscimento della presenza dell'idea, ma solo il giudizio di corrispondenza tra idea ed esistenza fattuale, ed in certi casi, la causalità che determina la presenza, appunto l'idea della "proiezione" è un modello esplicativo solitamente comune nel campo ateo.

Jung è tra gli autori che maggiormente mi piacerebbe approfondire in futuro. Attualmente mi sto concentrando sulla sua teoria dei Tipi psicologici e dell'individuazione delle funzioni cognitive, che prende le mosse dalla fondamentale distinzione tra introversione ed estroversione, teoria che poi ha ispirato la classificazione delle personalità dell'MBTI, molto diffusa negli Usa (specie nell'ambito dell'orientamento professionale), ma che comincia ad attecchire un po' anche da noi

Carlo Pierini

#35
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):

<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>

Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".

davintro

Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AME' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo. Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra): <> Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".

credo che nelle ultime due righe tu abbia ben sintetizzato il senso della tesi che volevo sostenere

paul11

Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AM
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):

<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>

Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
Ecco, quì mi è più chiaro l'archetipo, ma non i dubbi su cosa e come ontologicamente strutturi l'archetipo Jung.
E' un oggetto ontologico preesistente di cui consciamente non lo conosciamo, ma che interviene nel processo conoscitivo e quindi lo potremmo percepire come effetto epistemologico, ma non come apriori.

Non mi è chiaro cosa e come avviene il procedimento secondo Jung della costruzione di uun modello rappresentativo simbolico in funzione di un archetipo originario plasmato dalla psiche. cosa intende quì per psiche? Come si relaziona con altri oggetti come mente, coscienza, e altri oggetti spirituali come anima e spirito? Come a sua volta si relazionerebbe il sistema conoscitivo formale razionale con il sistema psichico/mentale? Anche un malato di mente ha una "sua" rappresentazione, cosa significa allora "normalità" se non convenzione accettata?   Insomma da una parte colgo delle sintonie, dall'altra delle perplessità.
Mi sembra, ma non sono sicuro, che i concetti di Jung siano simili ad una "fenomenologia mentale" psichica, nel senso che è inscindibile il processo conoscitivo fra soggetto e oggetto,non essendoci una netta separazione.
Tento di spiegarmi, quando conosco un oggetto in realtà è preesitente la conoscenza(perchè c'è in questo caso un archetipo junghiano), semmai il procedimento conoscitivo conferma l'archetipo e quindi quell'oggetto è ora compreso nel mio mentale/psichico come simbolo conoscitivo acquisito.

Carlo Pierini

Citazione di: paul11 il 23 Agosto 2017, 23:42:15 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AM
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):

<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>

Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
Ecco, quì mi è più chiaro l'archetipo, ma non i dubbi su cosa e come ontologicamente strutturi l'archetipo Jung.
E' un oggetto ontologico preesistente di cui consciamente non lo conosciamo, ma che interviene nel processo conoscitivo e quindi lo potremmo percepire come effetto epistemologico, ma non come apriori.
Gli archetipi sono degli a-priori presenti nel Sé. Dopodiché, esistono tre possibilità:

1 - C'è chi - per varie ragioni tutte da approfondire a parte - entra in contatto SANO più o meno profondo/diretto con la dimensione archetipica (intuizione, ispirazione artistica, esperienza estatica, sogno "mitopoietico", ecc.) - e allora i CONTENUTI delle sue idee saranno influenzati/orientati da essa;

2 - c'è chi - per altre varie ragioni tutte da approfondire a parte - entra in contatto PATOLOGICO con la dimensione archetipica (percezione distorta degli archetipi) - e allora avremo dei mistici fanatici e fondamentalisti, cioè degli squilibrati mentali posseduti da archetipi mutilati;

3 - c'è chi - per altre varie ragioni tutte da approfondire a parte - non entra in contatto con la dimensione archetipica (o, se ci entra, la liquida come fantasia irreale e quindi ne resta impermeabile) - e allora avremo la gente cosiddetta "normale" o "razionale" che non esprimerà alcunché di archetipico ma anzi, che respingerà tutto ciò che odora di "simbolico", proprio come te, come me quando ero giovane, e come la maggior parte della gente "...che ha cose ben più serie e ragionevoli a cui pensare...!!"

sgiombo

Citazione  
A Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici)
 
Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti,  decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale
 
Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana.
Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione.
Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori.
Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali.
Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.

 

sgiombo

Citazione di: Phil il 09 Agosto 2017, 16:03:21 PM


D'altronde quando astraggo, sono consapevole che il risultato è solo un'astrazione, magari personale; se invece si parla di trascendenza divina, solitamente, non si parla di un mero costrutto mentale (o addirittura proiezione ;) ), ma di qualcosa di ben più rilevante per la storia dell'esistenza del cosmo e, soprattutto, di non-solo-mentale e non-solo-personale (dunque si confonde il risultato di un'astrazione, ovvero di un processo mentale, con qualcosa che si suppone invece esistente indipendentemente dall'uomo, su un altro piano, quello della trascendenza divina).

La differenza fra il "passo dell'astrazione" e il "salto della fede" è tutta qui, fra l'essere-prodotto-umano (identità tassonomica della "margherita") e l'essere-motore-immobile (divinità trascendente).
CitazioneConcordo.

E' tutto da dimostrare che i concetti (realmente pensati) di "trascendenza" e di "Dio", oltre ad avere una connotazione-intensione (teorica; reale in quanto mentale, unicamente nell' ambito del pensiero), presentano anche una denotazione-estensione reale.

 
Siamo sempre fermi a paralogismo di Sant' Anselmo d' Aosta!
 
Per la fondamentale differenza fra essere pensato ed essere reale può benissimo darsi senza alcun problema un pensante reale limitato pensi (e non: crei, causi, condizioni ad essere reali, ma invece solo ad essere pensati, sia pure realmente) concetti illimitati, "perfetti", eterni, trascendenti, ecc.

davintro

#41
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2017, 16:42:15 PMA Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici)  Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale  Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana. Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione. Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori. Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali. Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.  

l'astrazione generalizzante non ha il potere di creare nuovi concetti attraverso una qualitativa trasformazione di concetti preesistenti, ma semplicemente forma concetti universalizzando, o generalizzando da una molteplicità di fenomeni individuali, cioè osservati in un certo particolare spazio-tempo. Ma il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse. Tutte le possibilità ideali di  significato a cui si può associare un concetto o una definizione, nella misura in cui si distinguono tra loro qualitativamente, sono apprese dalla mente umana come dati originari, non derivazioni secondarie da altri. Nessuna quantità di oggetti finiti può produrre in noi l'idea qualitativa di infinito, tra l'altro, come detto nella discussione di prima con Phil, il concetto stesso di "finitezza" non è ricavabile dall'esperienza di oggetti finiti, in quanto la finitezza è una proprietà appartenente a oggetti fisici, come alberi o case, ma il suo significato è intelligibile, quindi l'esperienza esterna può tranquillamente offrirmi il contenuto di concetti sensibili come alberi e case, senza darmi il concetto di finitezza, che resterebbe una proprietà di questi enti senza che la mente se ne accorga e formi ad hoc il concetto di "finitezza", se non fosse che la finitezza essendo intelligibile di per sé rientra nel novero delle idee innate nella mente. Per rendermi conto che qualunque (chiedo scusa per l'orribile gioco di parole) conta di oggetti finiti può essere prolungata in linea teorica senza fine io devo già possedere l'idea di "infinito" apriori, per poi applicarla nella situazione empirica nel rilevare come "senza fine" (cioè infinito) può essere il conteggio. In assenza di tale idea di infinito già in partenza dentro di me, io continuerei a contare all'infinito continuando a pensare che prima o poi il conteggio finirà, perché non avrei concezione di qualcosa che possa essere "senza fine". Una cosa infinita è certamente quantitativamente più grande di una cosa finita, ma non si distingue solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: l'infinito è il massimo grado dell'estensione di qualcosa, ciò che esclude altro da se stesso, mentre il finito è sempre limitato da altro da sé. Questo scarto qualitativo non può essere colmato da nessuna quantità, quindi nessuna serie, sempre limitata, di esperienza di cose finite può arrivare a modificare qualitativamente il concetto di finito, l'aumento quantitativo dell'esperienza dei finiti può condurre all'idea di estensioni numeriche sempre più ampie, ma sempre finite, mai al punto di raggiungere l'idea limite, quella che esclude un'ulteriorità sopra di sé, cioè l'infinito. Dunque l'apprensione dell'idea di infinito è primitiva e originaria, non ricavata da concetti qualitativamente distinti da esso. L'errore di vedere l'infinito come idea derivata a-posteriori consiste nella confusione tra "coscienza" e "attenzione". L'esperienza esterna può essere lo stimolo, l'occasione che porta la mente a rivolgere l'attenzione su dei contenuti mentali prima ignorati, ma questo non vuol dire che tali contenuti non fossero già in noi presenti prima senza che ne avessimo piena consapevolezza. Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli. Quindi il fatto che un certo concetto divenga oggetto di attenzione in un certo contesto empirico non vuol dire che la sua presenza alla mente inizi in quel momento e non fosse già latente in noi originariamente.

Con tutto ciò non voglio ovviamente sostenere che tutto ciò di cui abbiamo un'idea sia davvero reale, perché dall'esperienza di cose reali dovrebbero derivare i corrispettivi concetti,, il che sarebbe ridicolo. Occorre distinguere. "infinito", "eternità, "perfezione" non possono essere messi sullo stesso piano dell'ippogrifo. Io posso avere un'idea dell'ippogrifo anche se non ho fatto esperienza di ippogrifi reali tramite l'immaginazione, che agisce sinteticamente. La rappresentazione dell'ippogrifo si riferisce a un essere sensibile, fisico, un insieme di parti, che la fantasia assembla fra loro, mettendo insieme l'idea di un corpo di cavallo con l'idea di ali. Un altro esempio può essere l'idea di fantasma, io ho il concetto di "fantasma" anche non credendo alla loro esistenza, perché, suppongo, la mia fantasia associa sinteticamente l'idea di "persona morta" con delle manifestazioni che il senso comune associa a persone ancora in vita. Concetti come quelli di infinito e di perfezione, proprio perché il senso a cui si riferiscono è immateriale, sono nozioni "semplici", prive di parti, originarie, dunque per comprendere la ragione del loro essere presenti alla nostra mente non basta chiamare in causa l'immaginazione sintetica, che è invece sufficiente a giustificare la formazioni di idee di enti immaginari, ma comunque materiali come l'ippogrifo o l'unicorno

sgiombo

Citazione di: davintro il 13 Settembre 2017, 16:19:33 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2017, 16:42:15 PMA Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici)  Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale  Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana. Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione. Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori. Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali. Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.  

l'astrazione generalizzante non ha il potere di creare nuovi concetti attraverso una qualitativa trasformazione di concetti preesistenti, ma semplicemente forma concetti universalizzando, o generalizzando da una molteplicità di fenomeni individuali, cioè osservati in un certo particolare spazio-tempo. Ma il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse. Tutte le possibilità ideali di  significato a cui si può associare un concetto o una definizione, nella misura in cui si distinguono tra loro qualitativamente, sono apprese dalla mente umana come dati originari, non derivazioni secondarie da altri. Nessuna quantità di oggetti finiti può produrre in noi l'idea qualitativa di infinito, tra l'altro, come detto nella discussione di prima con Phil, il concetto stesso di "finitezza" non è ricavabile dall'esperienza di oggetti finiti, in quanto la finitezza è una proprietà appartenente a oggetti fisici, come alberi o case, ma il suo significato è intelligibile, quindi l'esperienza esterna può tranquillamente offrirmi il contenuto di concetti sensibili come alberi e case, senza darmi il concetto di finitezza, che resterebbe una proprietà di questi enti senza che la mente se ne accorga e formi ad hoc il concetto di "finitezza", se non fosse che la finitezza essendo intelligibile di per sé rientra nel novero delle idee innate nella mente. Per rendermi conto che qualunque (chiedo scusa per l'orribile gioco di parole) conta di oggetti finiti può essere prolungata in linea teorica senza fine io devo già possedere l'idea di "infinito" apriori, per poi applicarla nella situazione empirica nel rilevare come "senza fine" (cioè infinito) può essere il conteggio. In assenza di tale idea di infinito già in partenza dentro di me, io continuerei a contare all'infinito continuando a pensare che prima o poi il conteggio finirà, perché non avrei concezione di qualcosa che possa essere "senza fine". Una cosa infinita è certamente quantitativamente più grande di una cosa finita, ma non si distingue solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: l'infinito è il massimo grado dell'estensione di qualcosa, ciò che esclude altro da se stesso, mentre il finito è sempre limitato da altro da sé. Questo scarto qualitativo non può essere colmato da nessuna quantità, quindi nessuna serie, sempre limitata, di esperienza di cose finite può arrivare a modificare qualitativamente il concetto di finito, l'aumento quantitativo dell'esperienza dei finiti può condurre all'idea di estensioni numeriche sempre più ampie, ma sempre finite, mai al punto di raggiungere l'idea limite, quella che esclude un'ulteriorità sopra di sé, cioè l'infinito. Dunque l'apprensione dell'idea di infinito è primitiva e originaria, non ricavata da concetti qualitativamente distinti da esso. L'errore di vedere l'infinito come idea derivata a-posteriori consiste nella confusione tra "coscienza" e "attenzione". L'esperienza esterna può essere lo stimolo, l'occasione che porta la mente a rivolgere l'attenzione su dei contenuti mentali prima ignorati, ma questo non vuol dire che tali contenuti non fossero già in noi presenti prima senza che ne avessimo piena consapevolezza. Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli. Quindi il fatto che un certo concetto divenga oggetto di attenzione in un certo contesto empirico non vuol dire che la sua presenza alla mente inizi in quel momento e non fosse già latente in noi originariamente.

Con tutto ciò non voglio ovviamente sostenere che tutto ciò di cui abbiamo un'idea sia davvero reale, perché dall'esperienza di cose reali dovrebbero derivare i corrispettivi concetti,, il che sarebbe ridicolo. Occorre distinguere. "infinito", "eternità, "perfezione" non possono essere messi sullo stesso piano dell'ippogrifo. Io posso avere un'idea dell'ippogrifo anche se non ho fatto esperienza di ippogrifi reali tramite l'immaginazione, che agisce sinteticamente. La rappresentazione dell'ippogrifo si riferisce a un essere sensibile, fisico, un insieme di parti, che la fantasia assembla fra loro, mettendo insieme l'idea di un corpo di cavallo con l'idea di ali. Un altro esempio può essere l'idea di fantasma, io ho il concetto di "fantasma" anche non credendo alla loro esistenza, perché, suppongo, la mia fantasia associa sinteticamente l'idea di "persona morta" con delle manifestazioni che il senso comune associa a persone ancora in vita. Concetti come quelli di infinito e di perfezione, proprio perché il senso a cui si riferiscono è immateriale, sono nozioni "semplici", prive di parti, originarie, dunque per comprendere la ragione del loro essere presenti alla nostra mente non basta chiamare in causa l'immaginazione sintetica, che è invece sufficiente a giustificare la formazioni di idee di enti immaginari, ma comunque materiali come l'ippogrifo o l'unicorno
CitazioneConcordo perfettamente con l' empirismo per cui "il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse".
Ma fra questi dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse vi è anche la diversità, ovvero il rapporto di alterità o di negazione reciprocamente intercorrente fra determinati enti-eventi o aspetti di enti-eventi.
E questo basta e avanza per formulare il concetto astratto di "negazione" e per applicarlo a quelli di "finito" onde ottenere del tutto naturalisticamente e umanamente quello di "infinito", o a quello di "immanente" per ottenere parimenti del tutto naturalisticamente e umanamente quello di "trascendente" (d' altra parte se fosse vero il tuo ragionamento nemmeno nessuna quantità di oggetti realmente esistenti potrebbe produrre in noi l'idea del "nulla").
Il concetto di "finito" o "finitezza" è semplicemente il concetto di "commensurabile" o di "commensurabilità" per il quale esiste un rapporto espresso da un numero fra quantità fisiche omogenee (come lunghezza, peso, ecc.) di naturalissimi oggetti reali. Così del tutto naturalisticamente e umanamente la mente umana confeziona i concetti dei numeri (innanzitutto dei numeri naturali); poi si accorge che ad ogni numero naturale se ne può aggiungere sempre un ' altro, senza fine, e così del tutto naturalisticamente ed umanamente si ottiene il concetto di "infinito" per la quantità di tutti i numeri possibili teoricamente, potenzialmente considerabili, senza alcun bisogno di un' aprioristico possesso innato del concetto di "infinito".
 
 
D' altra parte, se invece avessimo un' aprioristico concetto innato di "infinito" non si capisce perché non tutti giungano a rendersene conto: bambini morti in troppo tenera età, fanciulli cresciuti, fino ad età avanzata, "nella foresta" con animali e senza imparare il linguaggio (da altri umani che lo conoscessero), ignoranti che vivendo, anche in società umane ma in condizioni di eccessiva miseria e degrado, di fatto non vengono mai a conoscere (pensare) il concetto di "infinito" e affini.
Mentre invece lo si conosce oggi di fatto solo perché qualche adulto ce lo insegna, e anticamente lo si è scoperto (o inventato) perché del tutto naturalisticamente ed umanamente qualcuno l' ha ricavato dalla propria esperienza.
 
 
Comprendo benissimo la distinzione dell' esperienza sensibile immediata e la attenzione, considerazione o pensiero dell' esperienza sensibile immediata (ho sempre fortemente criticato la teoria del preteso "mito del dato" di Quine, Sellars, Mc Dowell e altri).
Ma di congenito vi è solo al potenzialità o capacità di focalizzare l' attenzione e di pensare, mentre l' attenzione su sensazioni e concetti è acquisita con l' esperienza: la "tabula" è "rasa", anche se i tipi di scritti che vi si possono imprimere con l' esperienza non sono indiscriminati ma dipendono dal materiale di cui è fatta, dalla sua forma, ecc. (le potenzialità di scrittura di una lavagna, di un vetro liscio, di uno straccio morbido, di un muro ruvido, di una lastra di ghiaccio, ecc. sono diverse fra loro, ma ciò non significa che le cose scritte con gesso siano "congenite alla lavagna" o che quelle dipinte con pittura ad acqua su un muro siano innate nel muro).
"Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli" mi sembra solo un gioco di parole e una petizione di principio: presuppone quel che dovrebbe dimostrare (l' innatezza dei concetti).
Lo stesso dicasi per le considerazioni su concetti che si riferiscono a vagheggiati enti immateriali (del tutto naturalisticamente e umanamente ricavabili dall' applicazione del concetto di "negazione" a quello di "materiale").

davintro

"finitezza", "diversità" sono concetti intelligibili, anche se sono proprietà di enti fisici, che conosciamo tramite l'esperienza sensibile. Conoscere, e dunque concettualizzare un ente, non  implica la conoscenza di tutte le sue proprietà, motivo per cui io posso conoscere un albero, formare per astrazione il concetto di albero, senza necessariamente conoscere e concettualizzare le sue proprietà, la sua finitezza. Cioè un conto è conoscere cose finite, un'altra l'idea di finitezza. Gli strumenti della percezione sensibile, i campi sensitivi del corpo entrano in funzione quando vengono in contatto con degli oggetti fisici, dei contenuti sensibili che poi ("poi" non da intendersi nel senso di un prima-dopo cronologico), l'intelletto pone come contenuto di un concetto generale, mentre le idee riferite a contenuti intelligibili non avendo un corrispettivo fisico non possono essere appresi dai sensi del corpo, ma sono da sempre presenti nella componente spirituale, o immateriale, dell'intelletto, la cui immaterialità è adeguata all'immaterialità del senso di tali concetti. La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto, un soggetto materiale non può adeguarsi a qualcosa di qualitativamente distinto come un'oggettualità immateriale. Per questi motivi trovo inappropriato mettere  la formazione sintetica dei concetti riferibili a realtà fisiche (anche se non esistenti), come l'ippogrifo sullo stesso piano della formazione dei concetti intelligibili come l'infinito. L'ippogrifo, qualora esistesse, sarebbe una realtà materiale, cioè occupante uno spazio, divisibile in parti, quindi ha senso che la formazione di tale idea nella nostra mente sia il frutto della sintesi immaginativa, che unisce un corpo di cavallo con delle ali ( tutte immagini apprese nell'esperienza sensibile). Invece l'idea di infinito non può essere la somma di "finito" e "negazione" come se queste fossero delle ripartizioni spaziali, come nel caso delle parti che uniscono l'ippogrifo. L'infinito ha un senso immateriale, non ha spazialità, e quindi non ha parti che possano formarlo e delimitarlo, e la sua immaterialità lo rende una nozione semplice, primitiva, originaria, un'unità qualitativa sempre presente alla nostra mente. In breve, considero innati i concetti aventi un significato intelligibile come "infinito", "libertà", "giustizia", e come derivati dall'esperienza sensibile quei concetti riferibili a realtà materiali, che in quanto tali entrano in contatto con i sensi corporei, "albero", "tavolo" ecc. E il fatto che non tutti arrivino a rendersene conto della presenza in noi di concetti a-priori è un'obiezione che avrebbe una logica proprio non tenendo conto della distinzione tra "coscienza" e "rendersi conto", cioè tra coscienza e attenzione che ho provato a spiegare prima. La psiche è una realtà complessa e stratificata, di cui non possiamo in ogni momento avere una coscienza piena, la nostra attenzione si dirige un momento su un contenuto psichico, ora su un altro, lasciando sempre dei contenuti in ombra provvisoria, ma non per questo interiormente assenti. Quante volte ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente? Eppure non ha senso pensare che tale contenuto mentale sia creato ex novo dallo stimolo esterno. Quest'ultimo è solo l'occasione in cui l'Io è stato stimolato a rivolgere l'attenzione su idee che però riconosciamo come già presenti nella nostra coscienza. Questo mostra la non coincidenza fra coscienza e "rendersi conto", in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa? Mostra cioè come il fatto che il "rendersi conto" di qualcosa accada in un certo momento della nostra esperienza non vuol dire che la sua presenza nella nostra mente si realizza in quel momento, ma che è già in atto in noi stessi precedentemente. Questa non è una petizione di principio che presuppone quel che dovrebbe spiegare, ma un dato fenomenologico che può normalmente manifestarsi nel corso dell'esperienza ordinaria, riconoscibile al di là delle varie opinioni che si possono avere sull'origine dei concetti, nelle varie rievocazioni di qualcosa che non ci appare provenire dall'esterno, anche quando si verifica un concomitante stimolo sensibile, ma da una profondità dei livelli psichici

Mario Barbella

Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
Per dare un contributo al tuo interessante spunto mi verrebbe da aggiungere un'altra possibilità che può aver dato la stura all'idea nell'uomo di una realtà trascendente il dato sensibile. Questa può aver origine da quel tipo di esperienze mistiche che definiamo come trascendentali in quanto si presentano alle persone che ne fanno esperienza come qualcosa di "totalmente altro" al pensiero, all'emozione e al sentimento quotidiano. E' possibile ipotizzare che questa sia stata una possibilità ampiamente alla portata di molti uomini e donne dei tempi antichi. Nella tradizione buddhista si parla dell'incapacità , per la maggior parte degli uomini moderni, di raggiungere persino il primo jhana di assorbimento, mentre era comune ai tempi del Buddha arrivare tranquillamente al quinto. Da questo tipo d'esperienze può esser sorta o intuita la possibilità di una realtà trascendente il dato empirico e, la differenza esperienziale così profonda con la normale percezione, può aver creato i presupposti per le categorie di assoluti che si sono attribuiti a questa realtà "trascendentale". Per es. , tentando di non banalizzare, la gioia profonda e di natura totalmente diversa dalla normale gioia esperibile nel quotidiano,  può esser intesa anche come gioia dell'Unione con qualcosa di indescrivible, di totalmente altro per l'appunto. Da qui l'idea , sviluppata dal pensiero, della Somma Gioia  che è Dio. L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali . In Genesi abbiamo proprio la visione simbolica di questa realtà., a mio parere:"Dio camminava nel giardino dell'uomo". Questa amicizia era la visione quotidiana del trascendente che poi , via via, l'uomo ha allontanato per volontà di dominio sul reale e sul bisogno della sfera fisica e sensitiva. Si è preferito abbandonare il paradiso e la visione per conoscere e assoggettare, cioè per sete di dominio del "giardino" che però, a quel punto, essendo troppo "fragile" per esser visto in maniera così "grossolana"...è sparito dall'orizzonte della visione umana!

Ritengo, questa tua ragionata idea, una ottima base di partenza per una serie di riflessioni sulla sempre stimolante posizione della coscienza umana nei confronti del fenomeno "FEDE" .  Ciò almeno per me.
Grazie
Un augurio di buona salute non si nega neppure a... Salvini ! :)
A tavola potrebbe pure mancare il cibo ma... mai il vino ! Si, perché una tavola senza vino è come un cimitero senza morti  ;)  (nota pro cultura (ed anche cucina) mediterranea)

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