ateismo e proiezione umana di Dio

Aperto da davintro, 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM

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davintro

una delle interpretazioni principali della religione da parte dell'ateismo è quella di intenderla essenzialmente come "proiezione", proiezione di attributi realmente umani, in una realtà trascendente superiore all'uomo. Esempio classico di tale impostazione è Feuerbach. Gli attributi che il teismo attribuisce a Dio, sarebbero proprietà umane, che l'uomo infinitizza collocandoli in una realtà trascendente, come necessità per fronteggiare i propri limiti nei confronti della natura esteriore, cioè la sua finitezza. Cioè, l'uomo cogliendo l'impossibilità, nell'immanenza mondana, di superare i limiti naturali delle proprie potenzialità (direi, prima di tutto, l'angoscia di fronte all'idea del nulla dopo la morte), chiede a un'entità trascendente di sostenerlo nel tentativo di superamento di tali limiti, e perché tale sostentamento sia efficace tale trascendenza dovrà essere da un lato sovrannaturale, trascendente cioè i limiti naturali, ma dall'altro la sua azione di trascendimento dovrà realizzare i valori tipicamente umani: amore, sapienza, potenza... Tale prospettiva mi ha sempre lasciato perplesso. La ragione di fondo del mio non convincimento è la pretesa del concetto di "proiezione" di risolvere alla questione dell'origine del concetto di "trascendenza" nella mente umana. La proiezione è un meccanismo mentale che necessita di essere fondata da ciò che, nella prospettiva atea, presume di poter fondare, cioè la formazione dell'idea di trascendenza nella mente umana. infatti la proiezione, ogni percezione, presuppone un soggetto che PRIMA di proiettare abbia già in mente lo "sfondo" entro cui proiettare le cose, cosicché la percezione dello sfondo, cioè l'idea di Dio, non può essere la conseguenza della proiezione, ma all'inverso, ciò che renderebbe possibile la proiezione stessa, in quanto costituisce l'oggetto verso cui il movimento proiettivo mira. Per proiettare sulla trascendenza determinati attributi ho bisogno di un'intuizione a priori dell'idea di trascendente, come substrato da "riempire" con tali attributi, e pretendere che la "proiezione" spieghi la formazione di tale idea sarebbe cadere in un circolo argomentativo vizioso, dove ciò che vi è da spiegare, l'idea di Dio, è al contempo ciò che fonda la possibilità stessa di ciò che viene introdotta come causa esplicativa (la proiezione). Dunque la proiezione non rende ragione della formazione in noi dell'idea di trascendente, cioè di Dio, al massimo può renderla riguardo le determinate proprietà che una certa tradizione religiosa, come il teismo cristiano, attribuisce a Dio. Non ha tutti i torti Feuerbach quando sostiene che l'idea di Dio, intesa come vuoto substrato al di là degli attributi che la specificano e concretizzano, ha davvero poco senso. In questo modo riteneva di squalificare l'idea di un residuo, l'idea di Dio, al di là degli attributi prodotti dalla percezione umana, cosicché l'individuazione degli attributi (a questo punto, secondo lui, riconosciuti come "umani solo umani") bastava a risolvere il problema teologico.  Eppure proprio l'indissolubilità tra substrato e accidenti può essere lo spunto non per negare, ma per approfondire le implicazioni della critica al proiettivismo ateo. Questo approfondimento va posto a questo punto in direzione opposta alle intenzioni feurbachiane e in generale atee: non, se gli attributi sono umani, anche il substrato di fatto lo è, ma, se l'idea di trascendente non è spiegabile con una proiezione psichica, neanche gli attributi fondamentali possono esserlo.

Tutto ciò riapre l'interesse circa il discorso cartesiano, poi perfezionato da Rosmini, riguardo il fatto che proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria. A mio avviso, occorrerebbe capovolgere l'assunto ateo di risolvere il tema dell'origine del senso religioso al tentativo umanissimo di rispondere psicologicamente a dei bisogni umani. Non sono cioè le categorie teiste a originarsi da dei bisogni, ma sono i bisogni a essere determinati dalla presenza nella nostra mente di tali categorie, non storicamente o psicologicamente derivate, ma originarie e strutturali nell'uomo, al di là delle sue proiezioni arbitrarie. Non sarebbe ad esempio la paura della morte a indurre l'uomo a immaginare un'anima immortale o un Regno di Dio eterno, bensì la paura della morte è solo l'altra faccia della medaglia della speranza della vita eterna, paura impossibile da provare senza la presenza nella sua mente di tale idea, l'idea dell'eternità, presenza dunque non spiegabile a partire da questa paura, ma che la precede, o quantomeno non la segue come conseguenza. Resta dunque intatta la questione della ragion d'essere di tale originarietà della presenza del senso religioso e delle sue categorie nell'interiorità umana come questione indipendente dai livelli dell'esperienza umana immanente a cui si fermerebbero psicologia, antropologia, sociologia, colte nei loro oggetti e metodi di ricerca empiristi e positivisti, questione che mantiene un solido e autonomo carattere metafisico, e dunque filosofico

Sariputra

Per dare un contributo al tuo interessante spunto mi verrebbe da aggiungere un'altra possibilità che può aver dato la stura all'idea nell'uomo di una realtà trascendente il dato sensibile. Questa può aver origine da quel tipo di esperienze mistiche che definiamo come trascendentali in quanto si presentano alle persone che ne fanno esperienza come qualcosa di "totalmente altro" al pensiero, all'emozione e al sentimento quotidiano. E' possibile ipotizzare che questa sia stata una possibilità ampiamente alla portata di molti uomini e donne dei tempi antichi. Nella tradizione buddhista si parla dell'incapacità , per la maggior parte degli uomini moderni, di raggiungere persino il primo jhana di assorbimento, mentre era comune ai tempi del Buddha arrivare tranquillamente al quinto. Da questo tipo d'esperienze può esser sorta o intuita la possibilità di una realtà trascendente il dato empirico e, la differenza esperienziale così profonda con la normale percezione, può aver creato i presupposti per le categorie di assoluti che si sono attribuiti a questa realtà "trascendentale". Per es. , tentando di non banalizzare, la gioia profonda e di natura totalmente diversa dalla normale gioia esperibile nel quotidiano,  può esser intesa anche come gioia dell'Unione con qualcosa di indescrivible, di totalmente altro per l'appunto. Da qui l'idea , sviluppata dal pensiero, della Somma Gioia  che è Dio. L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali . In Genesi abbiamo proprio la visione simbolica di questa realtà., a mio parere:"Dio camminava nel giardino dell'uomo". Questa amicizia era la visione quotidiana del trascendente che poi , via via, l'uomo ha allontanato per volontà di dominio sul reale e sul bisogno della sfera fisica e sensitiva. Si è preferito abbandonare il paradiso e la visione per conoscere e assoggettare, cioè per sete di dominio del "giardino" che però, a quel punto, essendo troppo "fragile" per esser visto in maniera così "grossolana"...è sparito dall'orizzonte della visione umana!
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Phil

Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria.
Forse più che di "proiezione", in quei casi, è opportuno parlare di "sublimazione", "gradazione ontologica" (come facevano i medievali, se non erro) o semplicemente "astrazione", secondo differenti modalità: se sperimento la caducità, mi basta pensarne la negazione (non-caducità) per ottenere il concetto d'eternità; se osservo la parzialità posso astrarne il concetto di totalità come suo contrario; se individuo graduali imperfezioni (più o meno rilevanti), posso arrivare a supporre un'ideale assenza di imperfezioni...
A farla breve, se penso a tutto ciò che è passeggero, parziale, imperfetto, materiale, in una parola sola "immanente", posso poi sublimarlo, anche via negationis, in qualcosa di grado sommamente superiore... ed ecco il concetto di trascendente partendo dall'esperienza dell'immanente.

Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali
Concordo, anche se "esperienze trascendentali" è un po' un ossimoro (esperisco l'immanente, se esperissi il trascendente diverrebbe subito immanente al mio percepirlo/esperirlo ;) ), tuttavia dipende se parliamo di "trascendere" in senso (neuro)cognitivo o in senso mistico (oppure facciamo magari coincidere le due istanze).


Apeiron

#3
La comprensione degli uomini nei tempi antichi andava davvero lontano! Quanto? Al punto che alcuni di essi credevano che le cose non erano mai esistite - così lontano, verso quel termine, dove niente può essere aggiunto. Quelli al livello subito inferiore pensavano che le cose esistevano ma non avevano confini tra di loro. Quelli ad un livello subito inferiore a questi ultimi ritenevano che i confini c'erano ma non c'erano "giusto" e "sbagliato". Siccome giusto e sbagliato apparirono, la Via (il Tao) fu ferita... (Chuang Tzu, capitolo 2 - tradotto dall'inglese da https://terebess.hu/english/chuangtzu.html)


Oggi riteniamo che "esperienze mistiche" come quelle di sentirsi "uno con l'universo", esperienze ineffabili, oltre il linguaggio ecc siano cose o eccezionalmente rare oppure cose addirittura patologiche. Allo stesso modo noi guardiamo al presente come ad un netto progresso rispetto al passato, mentre 2000 o 3000 anni fa guardavano al passato con nostalgia, ad indicare che un qualche tipo di "disastro" ci ha fatti "cadere" in questo mondo. Per esempio si può confrontare il racconto dell'Eden con la citazione di Chuang-Tzu che ho riportato sopra: la caduta è avvenuta quando Adamo ed Eva hanno per voler diventare come Dio conoscere il "bene" e il "male" (nel taoismo questa distinzione significa la caduta dall'accordo con la Via). In sostanza sembra che tutte queste fonti siano concordi nel dirci che più va avanti il mondo più è peggio nel senso che più ci è difficile vivere in un certo modo. In particolare Chuang-tzu sembra dire la stessa cosa di Buddha quando dice "gli antichi dicevano che le cose o non esistevano o non avevano confini tra di loro" (vedi "anatta" nel buddismo, ossia l'assenza di un'identità "distinta"...) e guarda abbastanza malinconicamente la corruzione dei suoi tempi: ai suoi tempi - secondo lui - confuciani, mo-isti ecc cercavano in ogni modo di controllare l'uomo e la natura, di conoscerla ecc e proprio per questo scrisse (o lui o chi per lui) un'opera in cui proprio la logica usata dai suoi "rivali" per far vedere quanto essa sia pericolosa, quanto sia inutile cercare di conoscere, possedere tutto ecc. Eppure tutte queste tradizioni ci suggeriscono una cosa strabiliante in quanto il confronto del "mondo caduto" è fatto con una realtà che è "senza confini", "oltre il tempo", "senza morte", "oltre ogni comprensione" ecc. Ossia per dirla in poche parole ci suggeriscono che è come se in noi, nel nostro più profondo essere, fossimo per così dire a contatto con questa dimensione e che nella nostra ossessione a distingerci e a distinguere (e discriminare) quello che facciamo è allontanarci sempre più da tale dimensione anche se ironicamente con questa nostra ossessione miriamo proprio a raggiungere uno stato "senza morte"! In sostanza è come se veramente noi abbiamo una "reminiscenza" (anamnesi... Platone) o qualcosa di simile che ci fa mirare al trascendente. In sostanza questa "reminiscenza" noi finiamo per applicarla a "questo mondo" e cerchiamo l'infinito nel finito, il "senza morte" nel mortale, l'eterno nel tempo, l'indeterminato in ciò che è determinato, l'universale nel particolare. Ma questa impresa, secondo queste tradizioni, è dettata da una pretesa che ci auto-condanna perchè cerchiamo una cosa che non possiamo trovare. E così arrivano questi "maestri" dell'antichità che ci consigliano di "avere fede", "di abbandonare la ricerca e i desideri", "di abbandonare l'io", "di non restare aggrappati all'io, al mio e a tutti i concetti" perchè in questa nostra ossessiva ricerca siamo destinati a fallire... in realtà secondo questi saggi quello che dobbiamo fare è fermare tutto questo, ritornare ("il ritorno è il movimento del Tao" Tao Te Ching, capitolo 40) indietro. Nel buddismo nonostante la concezione ciclica del samsara ci viene consigliato di "ritornare indietro prima dell'idea dell'io" in quanto anche qui tutto il "dukkha" è iniziato quando si è iniziato a distinguersi e distinguere tra le cose (avidya). Quindi davidintro e Sariputra, quando vedo più o meno TUTTI questi antichi maestri dicono questo mi domando: e se hanno ragione? Probabilmente davvero i "maestri dei tempi remoti" "accedevano" più facilmente a questa realtà proprio perchè a quei tempi erano davvero meno "sconnessi" dalla "realtà" - ossia in altri termini erano meno ossessionati con le discriminazioni, con la volontà di controllare e così via. Perchè una volta si arrivava al quinto jhana con facilità e oggi non arriviamo manco al primo? Forse perchè invece di "tornare" e "rinunciare" oggi vogliamo "imporre"?

Quindi sì secondo me davidintro c'è davvero in noi una sorta di "reminiscenza" che ci fa confrontare in "automatico" la realtà finita, limitata, mortale, transitoria con l'eterno, l'illimitato ecc. Inoltre più si va avanti nel tempo più forse ci allontaniamo da questa reminiscenza e ne abbiamo un ricordo così vago che non sappiamo proprio nemmeno "squarciare il Velo di Maya" nemmeno per un attimo... Che tristezza  :(   


"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#4
Una citazione piuttosto interessante di Jaspers sulla trascendenza che si trova su Wiki:"La trascendenza non è esistenza. L'esistenza infatti sussiste solo in quanto c'è comunicazione; la trascendenza invece è se stessa senza bisogno d'altro". Se parliamo di "esperienze di trascendenza" vediamo infatti che la loro più precipua caratteristica è l'incomunicabilità ( la citazione ovviamente non ha nulla a che fare con questo,la sto strumentalizzando ai fini del mio discorso... :) ). La possiamo ricordare con terminologie simboliche, con paragoni, ecc. ma tutto questo non ha nulla a che fare con l'esperienza in sé. C'è l'esperienza e poi c'è il tentativo del pensiero di inquadrarla nelle definizioni. "Dio" appare quindi, a mio avviso, come una definizione  di un'esperienza incomunicabile . Chi ha fatto esperienza di stati "mistici"  conosce perfettamente il limite invalicabile che pone il linguaggio. Chi tenta di superarlo spesso scade nel ridicolo, se non addirittura nell'infantile.  Si fa l'esperienza e poi... la si definisce come "mistica" perchè non si sa che parola usare. Tutto questo si presta ovviamente all'errata interpretazione.  Essendo uno stato incomunicabile è anche uno stato d'esperienza della morte (del pensiero). Nel momento in cui si sperimenta questo morire e pertanto vengono a cessare tutte le formazioni mentali che sostengono la differenziazione non è più possibile sostenere una distinzione di qualsivoglia tipo.  Se non c'è più chi sperimenta la trascendenza non ha nemmeno senso parlare di trascendenza o immanenza, essendo l'esperienza in sè al di là delle definizioni di trascendenza o immanenza, oppure di vita o morte, di essere o non-essere, io e Dio, ecc.. Spesso si parla di "essere visitati". Quindi non più "Io ho visto" ma, nel mio morire al pensiero, "sono stato visto". E' interessante ...ma è ovviamente sempre e solo una definizione a posteriori che assume un senso solo per chi ha già vissuto un certo tipo d'esperienza. . Simbolicamente è l'Adam che non vuole esser visto e si nasconde, che si "copre" con la conoscenza ( "Sono nudo"). Questo sembra indicare che, solo se mi denudo o ritrovo la mia originaria natura di totale nudità,  posso uscire dall'inferno della differenziazione ( della "cacciata"...che ho voluto per poter dominare), differenziazione che è il nostro abito mentale, la nostra foglia di fico.
Sulla strada del bosco
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Apeiron

Già Sariputra... il problema dell'incomunicabilità. Ma aggiungo che oltre al problema dell'incomunicabilità queste esperienze hanno una seconda caratteristica. La "sensazione" (invero non è più una sensazione, piuttosto assomiglia all'assenza di sensazione) che si ha è che si è avuto contatto con una "dimensione" più "elevata". Parlare solo di incomunicabilità rischia di sottovalutare l'importanza di questa "elevazione", così infatti il Totalmente Altro (qualsiasi "assoluto" esso sia) non solo è "altro" ma è anche elevato, perchè non c'è niente che possa essere paragonato ad esso neanche nella nostra immaginazione, la quale pur essendo un interessante modo di "trascendere" la realtà empirica è pur sempre costretta ad essere ancorata ad essa. Quindi la "nudità" di Adam, ossia lo stato "pre-Caduta", non possiamo nemmeno immaginarla perchè anche con l'immaginazione non vediamo altro che "vestiti". Quello che facciamo è con le parole indicare nel miglior modo possibile tale "stato", ma con le parole non riusciamo a far nulla: il Totalmente Altro e Superiore ci sfugge perchè è "Superiore" ad ogni "altro" che ci può capitare nell'esperienza "ordinaria" o che possiamo immaginare e allo stesso tempo è "Altro" rispetto ad ogni "superiore" che possiamo concepire. Per questo motivo quando leggiamo gli scritti di questi mistici ci sembrano assurdi: cosa vuol dire che "per gli uomini antichi le cose non esistevano o esistevano ma senza confini" (parafrasi della citazione di Chuang-tzu)? Nulla perchè d'altronde l'albero e la sedia sono due cose diverse (quindi esistono e sono ben confinate, ben distinte). Eppure quando sentiamo queste parole mettiamo in discussione il nostro distinguere, il nostro "principium individuationis" come un errore, un "peccato", che ci allontana da uno stato al contempo "superiore" ed "altro". Per esempio Buddha nel descrivere il Nirvana disse: "Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza." Non c'è né Sole nè Luna, né fissità né evoluzione, non vi è né giungere, né rimanere, né andare. In poche parole ogni concettualizzazione (ossia ogni "confine", ogni distinzione, ogni discriminazione) è una sorta di ostacolo, un "allontanamento" da questa "dimensione" - che siccome non è ni-ente, nessun ente, nessuna "cosa" è invero per la nostra ragione il "nulla". Ma quando ascoltiamo queste parole sappiamo che l'errore non è di questi visionari bensì è proprio della nostra limitata ragione.

Tuttavia tra di noi dobbiamo comunicarci anche questo tipo di esperienze e quindi dobbiamo "concettualizzare" ciò che non può essere concettualizzato, altrimenti saremmo completamente smarriti, saremmo senza speranza, saremmo completamente "caduti". Così ci tocca "tradurre" con il nostro linguaggio anche queste esperienze e spesso tutto ciò produce affermazioni senza senso che servono come "indicazioni"... Il positivismo sbaglia proprio quando afferma che è la nostra ragione a creare la "trascendenza" non rendendosi conto che la trascendenza per la ragione è proprio il niente visto che la nostra ragione è basata sull'esperienza ordinaria. Infatti è proprio dal collasso di ragione e linguaggio che possiamo "intuire" che c'è davvero l'Oltre...
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

paul11

#6
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
Non sono cioè le categorie teiste a originarsi da dei bisogni, ma sono i bisogni a essere determinati dalla presenza nella nostra mente di tali categorie, non storicamente o psicologicamente derivate, ma originarie e strutturali nell'uomo, al di là delle sue proiezioni arbitrarie.


Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PMQuì stà il punto.Non penso che l'uomo, un neonato, nasca con già delle categorie mentali ma nasce "predisposto a..."
Nasciamo già con un programma nel cervello  ,ma il neonato ha una tabula rasa in termini di esperienza.
Per quello che conosco di neuroscienza e cognitivismo, le percezioni sensoriali che vengono prelevate poi dai nervi sensoriali per deporli fisicamente nel cervello come neuroni e sinapsi sono forme fisiche di network di collegamento comunicativo di informazioni che costituiscono anche le memorie.Ma via via che il bebè cresce il suo cervello diventa "mentale", perchè comincia a correlare le esperienze e quindi significa che quella iniziale tabula rasa avendo ora più informazioni, quando si trova a correlare la stessa informazioni in tempi diversi comincia a scegliere ed è questo procedimento che è il mentale.Significa che le percezioni sensoriali trasmesse dai relativi nervi al cervello prima ancora di depositarsi nel cervello vengono mediate dal mentale. Il problematico del cognitivismo e soprattutto neuroscienze è proprio quel "mentale" perchè è il trascendente del cervello.Allora significa che il programma iniziale insito nella nascita dell'uomo prevede la formazione di un trascendentale mentale ed è quì che si formano tutti i concetti logici ordinativi ,le categorie che hanno appunto il compito di organizzare il mondo dell'esperienza e di poterne a sua volta interagire vivendo. Unisce la prassi e la teoria.

La teologia del Dio a cui l'uomo attribuisce i superlativi assoluti e relativi alle facoltà e comportamenti umani, la ritengo infantile e debole. Basta solo la teodicea per metterla in discussione.Vale a dire "perchè provo dolore e sofferenza se Dio è assoluto, santissimo, onniscente......cosa ho fatto di male per ricevere questo?" La risposta è "il mistero" nella dogmatica. ma allora sarebbe stato più utile dire ,per negazione ciò che non può essere Dio, vale a dire non può essere gli attributi umani.

L'errore umano è prendere la sua parte "buona", che quindi sa che è buona e proiettarla in un Dio, per nascondere quella "cattiva".


Tutto ciò che è mentale trascende in qualche modo l'esperienza, e il mondo anche attuale, seppur focalizzato culturalmente sul materiale e sulle prassi , è colmo di figure e concetti trascendenti il dominio fisico naturale in cui si muove l'uomo come esperienza mondana.

Dio è spiegabile come Essere incommensurabile, come origine.

Molte tradizioni argomentano di un uomo più antico più prossimo a Dio,direi quasi tutte,
Perchè le prassi vivevano nella prossimità divina, l'uomo non aveva ancora diviso il cielo e la terra attribuendo a loro ciò che avrebbe attribuito a Dio (il cielo così lontano) e all'uomo la sofferenza terrena.
Si arriva fino a Platone e quel periodo che fa da spartiacque nella storia dell'umanità , il sesto e quinto  secolo prima di Cristo, in cui vivevano Buddha, Socrate, Pitagora,LaoTzu, Confucio, e infine Platone. Perchè quel fiorire di personaggi così determinanti in così poco tempo?

Platone viene da una spiritualità orfica-pitagorica che credeva nel metempsicosi, nella reincarnazione e in cui la reminiscenza era il fondamento della forma intellettiva.........ma questo è un'altra storia.
Quella reminiscenza è paragonabile al programma insito nel cervello umano fin dalla nascita.

Apeiron

Concordo con te paul11 che si dovrebbe parlare di predisposizione più che di "reminiscenza". Ma appunto l'uomo di oggi è lontano dalla natura e con questo è sempre più "mondano" perchè ora la sua giornata è piena di burocrazia, tasse, tv, telefonini... e appunto in questa "mondanità" si è completamente staccato dalla "realtà naturale" nel senso che si è scisso dalla "base". E più si scinde più l'io si "gonfia" e aumenta d'importanza e più ci è difficile di contrastare questa tendenza. Ma proprio per questa difficoltà siamo costretti a gonfiarci sempre di più: facciamo progetti, siamo pieni di aspettative, guardiamo il riccone di turno e confrontiamo il suo "benessere" col nostro "malessere", ci interessiamo di politica e vogliamo capire tutti i vari intrighi, spesso studiamo per "accumulare conoscenza" invece di "istruirci". Perchè l'antico era più incline ad avere esperienze "mistiche": semplice aveva meno possibilità di "gonfiare" l'io, meno possibilità di creare discriminazioni e concettualizzazioni per il semplice fatto che la sua vita era a tutti gli effetti meno "complicata della nostra". Perciò non è che la natura dell'uomo sia cambiata: anche allora infatti l'uomo era ossessionato dal controllo e dalla tendenza a discriminare, distinguere ecc. Ma adesso è molto più facile per l'uomo cavalcare questa ossessione. E più "progrediamo" nella tecnologia più siamo al contempo "padroni" delle cose (perchè dopotutto le "possediamo" e le controlliamo) e "schiavi" di esse (visto che il possesso ci lega e più cose possediamo più siamo dipendenti dalle cose stesse) e così più limitiamo la nostra libertà. Questo è il paradosso del nostro progresso: ci sembra un progresso e un'affermazione del nostro vero "io" quando in realtà tutto questo è un colossale auto-inganno (così come è sbagliato ritenere che l'uomo di 3000 anni fa era più "saggio"... era più facile essere "saggi" perchè le cose che potevano "distrarre" erano meno).
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Phil

Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
le percezioni sensoriali trasmesse dai relativi nervi al cervello prima ancora di depositarsi nel cervello vengono mediate dal mentale. Il problematico del cognitivismo e soprattutto neuroscienze è proprio quel "mentale" perchè è il trascendente del cervello.
Gli impulsi che do sulla/dalla tastiera, prima di apparire come lettere sullo schermo, vengono mediate da Windows (nel mio caso); eppure Windows stesso non è forse localizzato e "caricato" nel computer? Anche se non tutti sappiamo dove, e magari pensiamo che Windows sia il computer che si interfaccia con l'esterno, il computer invece contiene Windows (e potrebbe contenere altri sistemi operativi  ;) ), proprio come contiene i programmi, il browser, etc. per i quali risulta più palese che siano "caricati" e contenuti.

Per la distinzione mente/cervello, in tutta la mia ignoranza in materia, suppongo sia lo stesso: si "salva" la mente dall'essere solo immanente al cervello (quanta malinconia e frustrazione esistenziale ne deriverebbero?!) dichiarandola trascendente rispetto al suo mero substrato biologico; tuttavia ci sono cervelli senza mente (quelli dei morti), ma menti senza cervello? Non saprei... quindi, se la condizione necessaria e sufficiente per avere una mente è avere un cervello vivo, non mi stupirebbe (opinione gratuita  :) ) se essa ne facesse semplicemente, immanentemente parte come "sistema operativo" attivato dalle esperienze (seppur "localizzato" e "programmato" secondo modalità che ancora, credo, non sono chiare ai famigerati "addetti ai lavori").

P.s.
Lascio fuori dal discorso anime e spiriti, che invece rendono più che legittimo ridurre il cervello a "carnale processore", alimentato dalla "corrente vitale" di un soffio trascendente.

Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
Allora significa che il programma iniziale insito nella nascita dell'uomo prevede la formazione di un trascendentale mentale ed è quì che si formano tutti i concetti logici ordinativi ,le categorie che hanno appunto il compito di organizzare il mondo dell'esperienza e di poterne a sua volta interagire vivendo.
La capacità di astrarre formalizzando è probabilmente innata nella mente umana e connaturata alla ragione "standard" dell'uomo, ma se riduciamo il trascendentale all'astrazione cognitiva (dubito tu intenda farlo, anche se le tue suddette affermazioni ben si presterebbero: se sostituiamo "astrazione" a "trascendentale", il discorso fila a meraviglia   ;) ) forse scivoliamo off topic...

Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
Molte tradizioni argomentano di un uomo più antico più prossimo a Dio,direi quasi tutte,
Perchè le prassi vivevano nella prossimità divina, l'uomo non aveva ancora diviso il cielo e la terra attribuendo a loro ciò che avrebbe attribuito a Dio (il cielo così lontano) e all'uomo la sofferenza terrena.
La prossimità è non a caso una categoria dell'immanenza; se prima si era più "vicini" a Dio e, ipotizziamo senza alcuno scherno, fosse possibile persino parlarci, sarebbe stato pur sempre un rapporto immanente del mortale con la divinità (ritenuta trascendente).
La trascendenza, in quanto tale, è un concetto-limite, fuori dalla nostra portata di vissuto, perché se anche entrassimo in relazione con qualcosa di trascendente, lo faremo nell'immanenza del nostro essere immanenti (pardon per il gioco di parole!) e non potremmo nemmeno capire con certezza di essere in contatto con qualcosa di trascendente (ribadisco: il sentire del mistico lo lascerei da parte, poiché, en passant, dire "ho incontrato il trascendente solo che non riesco a descriverlo..." porta alla domanda "come fai a sapere che era davvero trascendente? Perchè lo hai sentito tale? Sentito con i sensi o con il sentimento?" In entrambi i casi, l'appellativo di "trascendente" resta piuttosto opinabile... come già scrissi, anche l'orgasmo potrebbe essere un'esperienza trascendente, e magari per secoli è stata davvero ritenuta tale, ma oggi sappiamo che non c'è nulla di trascendente in neurotrasmettitori, pressione sanguigna, etc.).

Per ripetere un esempio banale, la trascendenza è come il triangolo: non mi relaziono mai al triangolo trascendente, alla triangolarità, ma solo a triangoli immanenti... la triangolarità è un'astrazione mentale costruita dall'esperienza. Parimenti, se avessi modo di contemplare la divinità faccia a faccia, la sua trascendenza sarebbe comunque immanentizzata dal mio sguardo, dalla mia retina, dalle mie sinapsi, etc.

Con ciò non affermo che la trascendenza non sia da considerare o non esista, anzi, proprio in quanto ha la funzione di concetto-limite, c'è; ma c'è anche ben poco da dirne (forse non sapremo mai interpretare il genitivo del titolo del topic, ovvero se lui è la nostra proiezione o noi siamo la sua ;D ).

anthonyi

Ci sono ricerche neurologiche che hanno evidenziato la predisposizione istintiva dei neonati a riconoscere agenti occulti. E' una cosa comprensibile, il riconoscimento serve per difendersi dai nemici e il nemico si nasconde alla tua vista. Si tratta di un'argomento che può aiutare a spiegare il concetto di divinità nella mente umana (Il Dio è infatti un agente invisibile) molto più delle tesi del superamento del limite sui cui limiti concordo con davintro.
Solo che non basta, se si vuole avere una valida spiegazione fisiologica del concetto di Dio è necessario dimostrare l'utilità  di questo. Utilità non in termini di piacere prodotto (Perché in realtà il dolore, che ci avverte delle situazioni pericolose, è più utile del piacere) ma di vantaggio sul fitness.
Notiamo che il concetto di Dio è un concetto astratto, carente di riferimenti fisici, per tale ragione il suo mantenimento in mente è energeticamente costoso. L'uomo infatti cerca strumenti oggettivi che oggettivizzino tale concetto, a questo servono gli idoli, le immagini di Dio, che favoriscono certamente il fitness. L'Idolo (Ma anche la Chiesa) poi permette di spiegare la continuità dell'idea di Dio, ma non può spiegarne l'inizio.
Una situazione particolare l'abbiamo nel caso in cui un essere vivente, quindi un referente fisico, dopo la sua morte diventa Dio, come nel caso del Dio Quirino (Non ricordo se venga da Romolo o da Giulio Cesare). In realtà anche in questo caso il problema è l'idea di dividità che deve essere aggiunta e che non si sa da dove provenga, intuitivamente va associata a un'idea di "vita oltre la vita", ma quale origine può avere quest'idea e in che modo può incrementare il fitness?
Intuitivamente la convinzione di continuare a vivere dopo la morte riduce la paura di morire e questo può portare a prendere maggiori rischi aumentando il rischio di morire, quindi riduce il fitness.
Volevo poi riportare la situazione particolare del Dio ebreo. In molteplici situazioni nella Bibbia è riportato questo contrasto tra il popolo che cerca di farsi degli idoli e questo Dio che impone di non avere alcuna immagine fisica (Cioè il contrasto tra un comportamento umano perfettamente spiegabile, e qualcos'altro che non ha spiegazioni)
Considerando che  quel Dio è alla base del 70 % delle forme religiose moderne, il mistero di questo contrasto è ancora più forte.

davintro

per Sariputra

in premessa mi scuso per la mia totale ignoranza di buddismo e spiritualità orientali. Provo come sempre a dire due cose in base alla logica

Penso che il punto sarebbe quello di chiarire meglio l'idea di questi "esercizi" (non so se il termine scelto è adeguato) mistico-trascendentali che permettono di raggiungere un'esperienza "totalmente altra" rispetto ai vissuti del vivere ordinario. Se le persone che hanno volontariamente approcciato questi percorsi erano coscienti (ovviamente in senso generico) del fine a cui tali esperienze erano finalizzate allora mi pare che la formazione dell'idea di trascendente non sia stata solo il risultato finale del percorso, ma qualcosa in un certo senso di già presente in partenza nella mente di questi iniziati. Altrimenti come avrebbero potuto prefiggersi uno scopo, se l'idea dello scopo, cioè il raggiungimento di un vivere "totalmente altro" non fosse già a-priori presente nella loro mente e nelle loro inclinazioni?. E se anche ipotizzassimo un'acquisizione del tutto "ex novo" di tale idea di trascendente al termine di queste esperienze, resterebbero ancora dei problemi. Il senso religioso è un dato comune a tutte le culture, a qualunque latitudine geografica si siano sviluppate, mentre la matrice buddista della tesi di esperienze mistiche-trascendentali, dovrebbe vincolare la possibilità di attingere il sommo livello di contemplazione maggiormente nel contesto geografico di diffusione del buddismo, mentre invece l'avvertimento dell' idea di Dio appare un dato piuttosto trasversale, al di là della molteplicità dei luoghi e delle epoche. Si potrebbe dire che i buddisti possono "pro domo loro" pensare di aver individuato un livello esperienziale più elevato degli altri, dove il vero trascendente si rivelerebbe, mentre altrove ci si fermerebbe a livelli inferiori. Tuttavia nel mio discorso ponevo il tema dell'origine della presenza dell'idea di Dio (o trascendente) nella mente umana intesa nella sua estrema generalità, al di là delle particolari determinazioni con cui le tradizioni spirituali storiche ritengono di poterlo descrivere e definire, per le quali ciascuna di esse ritiene di considerare più adeguata delle altre. E se ipotizzassimo che un nucleo di uomini abbia potuto apprendere a-posteriori e per via mistica l'idea di trascendenza per poi progressivamente comunicarla attraverso le epoche a tutto il resto dell'umanità, ciò ancora non escluderebbe l'originarietà e apriorità della presenza di trascendenza nell'uomo, a meno di considerare la mente come completa tabula rasa su cui si può riversare qualunque contenuto esteriore. Ma se è possibile insegnare a un uomo a leggere e scrivere, ma non lo si può con una pianta o un animale, è perché la mente umana è predisposta, e la conoscenza non è mai puro assorbimento passivo di nozioni, ma interazione tra un oggetto e una coscienza soggettiva che possiede in sé le strutture adeguate a cogliere il senso delle informazioni che riceve. Per poter comunicare, anche se in modo indiretto e imperfetto, l'esperienza del trascendente occorre che la mente che riceve la comunicazione possieda già in sé le categorie corrispondenti ai caratteri del vissuto che si vuole comunicare, cosicché si operi un raffronto fra il contenuto della comunicazione e le categorie interpretative in relazione a cui quel contenuto acquisisce un senso e un certo grado di comprensione di esso. Conoscere è sempre questa interazione, confronto soggetto-oggetto, il cui il primo termine della relazione non può mai essere del tutto passivo nell'urto con il secondo. E così si può salvare un livello trascendentale e aprioristico di senso religioso nella mente umana, che le permette di aprirsi alla ricezione delle rivelazioni, anche se non direttamente sperimentate. Poi magari nel pensare questo sono condizionato dal mio essere "occidentale" che mi porta ad ammettere al di là della via esperienziale-mistica verso la trascendenza, anche una via dialettico-concettuale, per cui anche in assenza di esperienza diretta del divino, è possibile un avvicinamento alla luce della spinta astrattiva dovuta al nostro sistema di concetti, struttura comune a tutte le menti


Per Phil

Credo che fondamentale sia non cadere nella confusione tra l'idea di "caducità" e l'esperienza di particolari cose caduche. Noi non abbiamo un'esperienza "ordinaria" della caducità. La caducità è l'idea generale che si riferisce a tutte le cose caduche, mentre noi abbiamo solitamente esperienza non di tale idea generale ma di singole cose caduche, non considerate in quanto tali. Un conto è avere un'esperienza di singole cose caduche, alberi, case, esseri umani, un conto pensare all'idea di caducità. L'esperienza esterna ci dà l'idea delle prime, formiamo il concetto di alberi, case ecc.  per astrazione sulla base dei singoli atti esperienziali dei singoli alberi e case. Diverso è il caso dell'idea di "caducità" non ricavabile per astrazione (come invece le particolari cose caduche), in quanto per astrazione si ricavano solo concetti di enti sensibili, mentre l'idea di caducità, pur riferibile a enti sensibili, ha un significato intelligibile. Infatti l'astrazione consiste nel passaggio da percezioni sensibili a concetti generali alla luce del progressivo rilevamento di somiglianze tra un molteplicità di singoli dati sensibili, fino ad individuare una forma comune riferita a tutti gli enti possedenti quel tipo di somiglianze. Ciò non può invece avvenire nel caso di concetti aventi significato intelligibile come "caducità". Il coglimento del significato unitario di questi concetti non può essere la conseguenza di un'approssimazione tra le somiglianze sensibili, perché, mentre nel caso delle immagini sensibili è possibile scorgere delle somiglianze nelle forme, nei colori, al punto di poter generalizzare formando concetti comprendenti una molteplicità avente in comune tali somiglianze, per quanto riguarda gli intelligibili, questi sono tra loro distinti in uno "stacco" qualitativo ben distinto dei loro significati. Un concetto intelligibile non è mai una generalizzazione di somiglianze, ciascuno di essi possiede un nucleo di significato ben definito che permane identico in ogni individuazione, senza che una individuazione "somigli" più o meno a un'altra.  Cioè, il concetto generale di "caducità" non è dato dal rilevamento di somiglianze tra le diverse forme di caducità, la caducità ha un proprio senso peculiare coglibile già in una propria singola determinazione individuale. L'astrazione è il passaggio da una molteplicità di percezioni alla generalità di un concetto. Nel momento in cui colgo la caducità di un ente finito come l'albero o la vita umana, io non sto solo percependo, ma già giudicando, ma il giudizio è una struttura costituita da concetti, dunque il concetto di caducità è già presente nella mia mente sin dall'inizio, avvertibile sin da una singolo atto esperienziale, senza bisogno di una molteplicità percettiva da cui astrarre. Dunque il concetto di caducità è originario, non il prodotto a-posteriori dell'astrazione, e non ha senso porlo come antecedente del concetto di eternità, o viceversa. Pensare un concetto implica anche pensare il suo opposto, dunque eternità-caducità sono una coppia semanticamente interdipendente che fa parte della struttura essenziale e originaria della mente umana

Apeiron

davintro,
non mi ritengo nemmeno io un esperto di "buddismo", però ritengo che anche il buddismo sia compatibile con questa tua teoria della predisposizione (provo a rispondere al posto del Sari  :) ). D'altronde nel Canone Pali (senza scomodare le sutra più recenti) si parla del Nirvana (letteralmente "estinzione") come Incondizionato (o libero dalle condizioni), Senza Fine, Senza Morte,la Pace Suprema, Libertà, Rifugio, l'Oltre, l'Altra Riva, la Cessazione, (ciò che è) Senza Afflizioni ecc. Per esempio nella citazione che ho riportato prima il Nirvana viene definito come quella "dimensione" in cui non ci sono determinate cose - in particolare dove non ci sono "cose condizionate". L'utilizzo di questi termini suggerisce che ai tempi del Buddha chi ascoltava capiva, quindi secondo me concetti come "infinito", "eternità" sono centrali anche in questa tradizione: non a caso Buddha critica proprio la tendenza ad aggrapparsi alle cose mondane e al sé come se questi fossero eterni, non soggetti alla morte ecc e continua a far notare l'impermanenza e l'inevitabile declino delle cose in modo da creare nell'ascoltatore o nel lettore un senso di "shock" che dovrebbe fargli terminare la brama. Ma allo stesso tempo Buddha (o chi per lui) ancora più dei taoisti e dei vedantini continua a far notare che questa "dimensione" è completamente "altro" oltre che completamente "superiore" e quindi per evitare che ci si aggrappi ad un'idea errata di "Nirvana" rifiuta qualsiasi definizione precisa dello stesso perchè ogni concetto che abbiamo nella mente ci viene dall'esperienza del samsara e quindi necessariamente è inadeguato per esprimere il Nirvana.

In ogni caso direi che la predisposizione di cui parli è importantissima anche per i buddisti, almeno "negativamente", ossia nell'affermare che l'esistenza mondana non ha determinate caratteristiche...
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

paul11

rispondo in generale a tutti gli intervenuti.

Non è chiaro un aspetto fondamentale molto probabilmente.
L'uomo "antico" viveva e faceva spiritualità, non separava ancora il concreto e l'astratto, non aveva separato culturalmente i domini.
La natura per lui era spirito che potevano interagire e lui stesso interagiva:era un tutt'uno.
Orfeo, Abaris, erano persone in carne ed ossa, erano culture sciamaniche che venivano dal Nord come accade agli Ari indiani dei Veda. Guardiamo allora prima le collocazioni storiche geografiche.
Orfeo viene dalla Tracia nei pressi del Mar Nero , come il culto di Dioniso, così Abaris, erano sciamani straordinari che interagivano con la natura.
I Magi sono del popolo dei Medi e porteranno lo zoroastrismo  si uniranno ai persiani e inizialmente si pongono sotto il Mar Caspio.Vengono tutti dall'interno delle grandi steppe e altipiani del Nord , da quì nasce l'indo europeo, il gruppo linguistico finnico fino alle porte dell'oriente e la razza caucasica bianca.Piramidi sono anche nella penisola balcanica e lo scritto più antico
ritrovato archeologicamente è della Romania o Bulgaria.
Tutti si chiamavano iperborei, ma li chiamavano così gli storici antichi,
Orfeo va in Egitto e quì conosce il culto di Osiride e Iside che si ritrova nelle raffigurazioni e scritte dentro le stanze sepolcrali dei faraoni nelle piramide con perfette sincronie con i punti geografici, tunnell, ecc.

Inizialmente non c'è un concetto astratto di Dio e tanto meno attributi e appellativi  perchè il "come" noi "sentiamo" le relazioni fra i domini e noi stessi muta i segni, i simboli e il linguaggio.Quegli antichi conoscevano la geometria e la matematica.
Quando nel culto greco Zagreus fu divorato dai Titani e Zeus che era un dio ne salva il cuore che divora per generare insemnado Persefone, Dioniso e orfeo stesso e ancora Dioniso verranno divorati, c'è allegoria come nella Bibbia, c'è allegoria come nel Libro di Ani, dei morti, delle piramidi, in Egitto, c'è il Mahabharata indiano,come l'epopea di Gilgamesh(sumerico-accadico) Il trio Dioniso, Osiride, Tammuz(sumerico).
E' la narrazione a rivelare il messaggio con i suoi simboli e significati; il passaggio alla filosofia è quando si darà peso alla singola parola, al particolare, perdendo la narrazione e cambia definitivamente il linguaggio.
La singola parola denota il singolo particolare con la descrizione ,proprietà caratteristica annessa ed è quì che inizia l'Uno e il molteplice di Platone.I filosofi greci, procedono ad uno rimescolamento culturale, ma sono ancora all'interno della cultura antica, riclassificano come inventariano i domini in una classificazione che oggi diremmo "logica".

Aperion, il termine "controllo" è molto importante nell'uomo, quando perde qualcosa di sè intimo, cerca il controllo esteriore come un ossessione e questo è una caratteristica che divide il moderno dall'antico. nell'antichità le narrazioni avevano il controllo delle significazioni ,è come dire che ogni cosa stava al suo posto e l osi accettava. Gli umani, sempre nella tradizione greca nascevano dalla polvere dei Titani per cui avevano quella parte di "male" che lo pone come essere ambiguo e inquieto.
Quanado la singola parola e il singolo oggetto diventano importanti ,perchè denotando con un termine un oggetto , lo conosco, me ne approprio conoscendolo e comprendendolo: lo possiedo. Ma lo privo dal contesto, lo tolgo dalla narrazione estrapolandolo per conoscerlo.La geometria era sacra prima di essere oggetto del dominio astratto.
Quindi c'è una dissacrazione perchè scorporo i termini dalle narrazioni, una tiara fuori dal contesto di un luogo di culto, perde la sua sacralità.
Il moderno non ha il controllo di nulla, perchè la tecnica,che deriva dalla scorporazione dei particolari e perdendosi nei particolari, non costruisce nemmeno la forma concettuale dei molteplici che tendono all'unità, all'origine, oggi è stracolmo di immagini, di particolari, di informazioni che gli passano davanti, passivamente come sfondo di un'esistenza che diventa anch'essa particolare fra le moltitudini e quella tecnica stessa è quindi padrona della sua esistenza..

Se il problema del credente, ma direi del filosofo, sarebbe unire il concreto degli oggetti reali ,trascenderli nel astratto concettuale, oggi chi si è perso nell'ateismo o agnosticismo, non sa nemmeno più il significato di trascendere che collega necessariamente a Dio.
Ma quando Kant dichiara il soggetto " io sono" e dichiara anche l'"appercezione trascendentale" non fa altro che coniugare l'oggetto della percezione sensoriale, il sensibile, con la ragione concettuale che lo astrae e quindi lo trascende nel dominio dei concetti in forma logica.
Phil , quando compi un'analisi linguistica è una SOLA astrazione se cerchi la correttezza della verità o falsità nel linguaggio formale, fuori dal contesto reale; ma quando lo colleghi al dato reale quando la parola vuol significare un oggetto, una proprietà e vuoi CONOSCERE, quindi portare (trascendere) l'oggetto sensibile nel concetto logico, fai una doppia analisi .
Se la parola diventa segno e la matematica ha una formula segnica e simbolica linguisticamente propria , dò un concetto conoscitivo universale, ma che ancora non è attinente alla realtà .La  "pura"formula segnica è astrazione se la collego alla realtà e al posto dei segni ci inserisco parole, significazioni trascendo il concreto nell'astratto, trascendo da un dominio ad un altro.

Noi non siamo Phil un sistema operativo, siamo un codex, un DNA che a sua volta organicamente predispone un cervello con certe proprietà e facoltà, una scheda madre con tanto di ROM,CPU,  un BIOS.Il sistema operativo esperienziale nasce dall'incontro fra la predisposizione innata  e l'educazione culturale che collega innatezza e cultura.

La mente non corrisponde al cervello semmai ne è condizionata come esistenza e quindi la mente sussiste fin quando vive organicamente un cervello.

Il problema del non credente, dell'ateo, dell'agnostico, è che da significazioni al mondo in forme logico linguistiche e non sa dare significazioni di senso a se stesso. Siamo polvere e torneremo polvere e tutto finisce lì?Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla?
Personalmente lo trovo contraddittorio.
Se la difficoltà del credente in Dio, o del filosofo sta nell' unire la molteplicità all'unità originaria in forma logica e con un senso
non solo logico ,ma esistenziale, quella dell'ateo è conoscere, vivere, vedere domini e ordini e fidarsi( perchè ci vuole fede anche quì nell'affermare e nel negare)SOLO  di ciò che fisicamente è nel dominio naturale che appare e scompare e riappare per di nuovo sparire ciclicamente.

Non penso Davintro che l'idea di Dio sia innata nell'uomo e nemmeno le categorie.
Semmai è innata "la spinta"a relazionare.E' come se noi avessimo già gli operatori logici per confrontare ,per costruire conoscenza, abbiamo quelle formule "pure" universali.Ma forse è proprio questo che volevi dire, e spero di essermi spiegato.

Apeiron

paul11, dissento sulla questione del controllo (o forse ti fraintendo, quindi provo a spiegarmi meglio). L'uomo costruisce città, progredisce nella scienza, "migliora" la civiltà ecc per un unico fine, ossia per migliorare la condizione dell'umanità stessa, ossia per controllare per quanto possibile la Natura. Se non ci fosse bisogno di ripararci dalle intemperie e dagli animali feroci non ci sarebbero le case, se non ci fosse il bisogno di ripararci dal freddo, dal caldo ecc probabilmente a nessuno sarrebbe venuto in mente di vestirsi, e così via. Facciamo tutto questo perchè desideriamo di controllare la natura, per vivere meglio e così via. Il problema è che questo desiderio di controllo si basa sull'assunzione errata che davvero stiamo controllando le cose. Ma il problema è che le cose, l'esistenza "terrena" è instabile e incontrollabile: la sofferenza, la paura ecc nascono dal fatto che il nostro desiderio di controllo non è soddisfatto dalla realtà. Desidereremo per noi e per i nostri discendenti una vita senza problemi, una vita da "età dell'oro" ma poi guardiamo ai fatti e tutto questo non c'è - quindi spesso finiamo di lottare tra di noi per minime cose, perchè i nostri desideri non vengono soddisfatti. Tutto questo è perchè vogliamo il controllo. Poi vedi la storia di Buddha, di San Francesco e simili che pur vivendo nell'agiatezza (o nel lusso come nel caso del Principe Siddharta) alla fine scelgono la povertà volontaria perchè si rendono conto che l'agiatezza diventa un vincolo e mina la libertà dell'uomo. Così vedi questi uomini che "rinunciano" e cominciano un "cammino spirituale". Un San Francesco si affida completamente a Dio (ossia cerca di smettere di avere pretese di controllo e si abbandona alla "Volontà di Dio") mentre il Buddha rinuncia anche lui a tutte le pretese di controllo e di aggrapparsi ad un sé. In entrambi i casi ci è mostrato che secondo questi maestri è proprio questa nostra volontà di "controllo" che ci "allontana" dalla spiritualità "più vera". Entrambi è come se ci dicessero: troverai quella Pace che cerchi proprio se rinunci tu a volertela creare per te stesso. All'opposto vedi poveri che cercano sempre più ricchezza e ricchi che cercano di diventare sempre più ricchi, ognuno desidera il controllo perchè d'altronde c'è veramente poca gente che è come Buddha o San Francesco. Oserei dire che la maggior parte degli uomini nemmeno si rende conto che le sue brame sono "infinite" o anche se ne è consapevole finisce per continuare a seguire queste brame. Suggerirei una "via di mezzo", ossia seguire le brame (altrimenti la situazione al mondo non migliorerà mai e non potremo mai progredire nella comprensione anche di questi discorsi) ma allo stesso tempo limitarle, contemplando appunto questo discorso della "rinuncia".

E qui torniamo al discorso iniziale: il fatto che ci sia questa predisposizione è allo stesso tempo un "disastro" e un "dono". Un disastro perchè essendo noi umani in grado di pensare sempre al "meglio", "al di più", all'infinito ecc possiamo finire per far di tutto per "conquistare" questo infinito con disastri vari annessi a questo modo di vivere. E un "dono" perchè è proprio questa predisposizione che ci apre alla "trascendenza" e che ci suggerisce quanto in realtà sia sbagliata questa "ossessione di controllo". Siccome il "trascendente", la "realtà suprema", l'"incondizionato" sono fuori dalla nostra portata avviene una sorta di rovesciamento dialettico: ossia se impariamo ad "affidarci", "a smettere di controllare" ecc forse ci liberiamo da questa ossessione e troviamo la "pace". D'altronde se questa "predispozione" ha un qualche senso e non è un semplice "scherzo della natura" forse si riferisce a "qualche" "cosa" di "reale", la quale non può essere "raggiunta" con i nostri sforzi (ma semmai con i nostri sforzi svolti a finire di sforzarci, scusate il gioco di parole  ;D ). Ergo...

Un idea a questo proposito interessante potrebbe essere quella kantiana, secondo la quale la nostra mente per sua natura produce idee "incondizionate" (vorrei far notare la somiglianza con la distinzione tra condizionato e incondizionato nel buddismo), tipo quella di "Dio", "Infinito" ecc, le quali non si riferiscono al mondo dei fenomeni. Il problema dell'"ateo materialista moderno" è proprio questo: chiudendosi alla trascendenza tradisce quella sua stessa predisposizione e soprattutto essa risulta una sorta di scherzo beffardo della natura.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

paul11

Ciao Aperion
stai proiettando le paure dell'uomo post moderno in quello antico che certamente aveva paure, ecc, ma sapeva che facevano parte della vita e le sapeva accettare, oggi non sappiamo accettare un bel nulla perchè abbiamo perso senso e verità.
Non vorrei essere frainteso, perchè su questo spesso lo sono stato.Non sto dicendo che l'antico era perfetto che viveva in un mondo perfetto, diversamente non si capirebbe la spinta culturale a mutarlo.
Tutte le forme e sostanze, compresa paura, timore, vita, morte , erano dentro le grandi narrazioni che davano un senso
( a prescindere dal giudizio che ognuno potrebbe dare che fossero giuste, sbagliate o da cambiare, ecc.), oggi non c'è nemmno un senso, c'è totale mancanza di cosa si fa, del perchè si fa, e dove si va è l astessa tecnica, i rapporti umani dentro le organizzazioni che le tecniche hanno costruito che ci "forzano" ad andare avanti a strattoni.Se la depressione è la malattia del secolo dopo quelle articolari delle ossa ecc, un motivo  ci sarà per cui gli psichiatri hanno un manuale sulle demenze che è arrivata alla quinta edizione e che viene riaggiornata.

In termini assoluti il controllo l'uomo non lo ha mai avuto dai suoi albori ad oggi. il controllo come giustamente intendi, nasce dalla paura e la scienza moderna oltre che per epistemologia in sè, è l surrogazione della predizione, perchè noi oggi vorremmo prevedere i cataclismi naturali. Fin quando il sacro era intimamente collegato alla natura e sapeva dispensare il comportamento giusto  o sbagliato c'era una forma organizzativa etica e morale che la comprendeva.
Perchè se il controllo vine dalla paura e vine esercitata sul mondo materiale, costruisce dei vincoli esterni che non lo liberano internamente, ma che lo assoggettano. E' come un drogato che deve continuamente "farsi".
Gli esercizi, spirituali, la meditazione fino alla mistica, quanto meno insegnano che l'uomo è plasmabile internamente.
Se libero la paura o mi educo a conviverci accetto il mondo e perdo l'attaccamento esterno che m condiziona, perchè ho rescisso la catena della relazione ossessiva e compulsiva.Quindi sono perfettamente d'accordo con te.
E' vero, forse almeno ogni tanto abituarsi alla rinuncia di qualcosa potrebbe aprirci delle porte. o almeno capire che si può essere felici con poco e che mentalmente possiamo autogovernarci. Ma infatti il digiuno, i riti di purificazione servivano come servirebbero ovviamente "modernizzati".Invece fin quando c'era poco cibo e molta povertà il digiuno era una condizione obbligata, c'è abbondanza allora spreco e rifiuti.Ci manca sempre un equilibrio e viene dall'interiorità.
Il senso del limite  è stato perso con questi deliri di onnipotenza che circolano per il pianeta e sostengo che sia un problema culturale ,se si vuole indirettamente anche spirituale nel senso che si deve agire prima dentro di sè.
Se il sacro viene dissacrato e  il dominio naturale violentato dalla tecnica, l'uomo, questo essere senziente post moderno, sa in quale posto stare nelle regole dei domini  o crede che la tecnica lo salverà dopo che la fabbrica ha superato  i cicli agricoli, i suoi stessi cicli circadiani, alienandolo nell'identità, nella coscienza.
Daccapo, quell'antico "ordine" non è detto che in assoluto fosse giusto o sbagliato ,ma c'erano riferimenti che erano segnali ,segni, simboli come il rosso o il verde di un semaforo stradale.
Oggi siamo più "liberi" si dice, e non si capisce nè da cosa e neppure per cosa.
Noi siamo sommersi da entità metafisiche che ontologicamente non sono più quelle antiche ,ma sono nell'informazione post-moderna e che non sono più controllabili e sono: visione aumentata, virtuale, finanza ingegnerizzata, criptovaluta, moneta elettronica, social network, ecc.. Noi non vediamo più a misura di controllo con gli occhi  cosa accade attorno a noi ,ma ne siamo letteralmente bombardati,e fin lì c'era chi ingenuamente  pensava di poter controllare e credere che ciò che vedeva fosse la verità incontrovertibile dettata e inculcata dalle scienze moderne di secoli fa.
Gli oggetti "metafisici" moderni la nuova ontologia della tecnica ha preso il posto dell'antica sacralità, lo ha surrogata, perchè l'uomo ha scelto culturalmente questa strada.
A mio parere sarebbe un errore dividerci in chi ha più ragione o torto, perchè ci siamo tutti "dentro"
Si tratta di analizzare e vedere se e dove ci sono stati errori culturali e come uscirne, ascoltando "tutte le campane"

Personalmente non credo a Dio per via religiosa( l'avrei forse già perso), ma per via filosofica, osservando e riflettendo di me, del prossimo, del mondo.
C' è uno straordinario ordine universale  se si vuole anche caotico, ma con regole.Credo persino poco al dio buono o cattivo, tanto meno al vegliardo con barba, come al Gesù con occhi azzurri, ecc. le lascio alle fantasie psicologiche queste "imago".
Non so cosa sia, ma da qualche parte è venuto tutto questo e se c'è un origine, tutto questo, da verme al virus a noi, deve avere un senso.

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