ateismo e proiezione umana di Dio

Aperto da davintro, 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM

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davintro

Scrive Paul11

"Non penso Davintro che l'idea di Dio sia innata nell'uomo e nemmeno le categorie.
Semmai è innata "la spinta" a relazionare. E' come se noi avessimo già gli operatori logici per confrontare ,per costruire conoscenza, abbiamo quelle formule "pure" universali. Ma forse è proprio questo che volevi dire, e spero di essermi spiegato."


Se l'idea di Dio e le categorie con cui comunemente si descrive fossero provenienti dall'esterno occorrerebbe individuare nel complesso degli oggetti mondani della nostra esperienza esteriore un ente che possiede tali categorie, ma ciò non è possibile, dato che l'idea di trascendenza per definizione, indica ciò che è al di là di ciò che riscontriamo come immanente nella nostra esperienza, e che l'esperienza esterna ci mette sempre in contatto con cose imperfette, finite, manipolabili, nulla di "eterno", "onnipotente", "onnisciente"... Si potrebbe sostenere che l'idea di Dio ci sia comunicata tramite l'apprensione dei contenuti del nostro ambiente culturale di riferimento, famiglia, scuola... Ma la domanda che mi sorgerebbe spontanea in questo caso sarebbe: " e le persone (la società, la cultura al di là delle singole individualità personali che li costituiscono sono solo astrazioni) da cui apprendiamo l'idea di trascendente a loro volta da dove l'avrebbero ricavate?". La realtà è che l'apprensione delle categorie fondamentali della religione è un dato essenziale e strutturale della mente umana, ed è proprio questo che ne permette la possibilità di trasmissione intersoggettiva, la comunicazione e comprensione di senso. A mio avviso il pregiudizio antiinnatista poggia sull'errore di definire come "innato" solo ciò della cui innatezza siamo pienamente coscienti. Dunque se la conoscenza di Dio avviene in un certo momento della nostra vita siamo erroneamente portati a pensare che prima di quel momento in noi non ci fosse nulla. Occorre invece iniziare a familiarizzare con il concetto di "latenza", con l'idea che gli stimoli esterni non siano cause creative "ex nihilo" dei vissuti, ma solo condizioni del loro sviluppo e del loro emergere alla piena consapevolezza, ma alla luce di un emergere interiore proveniente da un nucleo latente e profondo da sempre presente in noi, ma di cui non se ne aveva originaria consapevolezza. Dunque il discrimine fra "innato" e "non innato" va posto non tanto in riferimento alla linea evolutiva temporale delle nostre prese di coscienza del mondo, ma all'ambito al cui interno riconoscere l'esistenza di quegli enti adeguati al significato delle idee che cerchiamo di classificare come innate o meno. Le categorie riferite alla trascendenza religiosa, nel loro riferirsi intenzionale a significati intelligibili e spirituali non hanno alcun corrispettivo negli oggetti dell'esperienza esteriore, che possono solo essere fisici, in quanto li apprendiamo a partire dalla sensibilità corporea. Queste categorie vanno ricondotte al piano dell'interiorità, cioè la dimensione spirituale dell'uomo, che in quanto spirituale è adeguata a comprendere i loro significati, a loro volta intelligibili e spirituali

Phil

Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Dunque il concetto di caducità è originario, non il prodotto a-posteriori dell'astrazione
Questo "innatismo platonico" non so quanto sia conciliabile con le esperienze personali su cui possiamo riflettere... e anche dal punto di vista cognitivo, questi "concetti intelligibili" mi sembrano indotti, inferiti, costruiti piuttosto che già presenti nella nostra "mente" (@paul11: "mente" che, a scanso di equivoci,  non ritengo corrispondente al cervello, ma semplicemente come una delle sue funzioni, quella più ingombrante nella nostra vita  ;) ).

Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Diverso è il caso dell'idea di "caducità" non ricavabile per astrazione (come invece le particolari cose caduche), in quanto per astrazione si ricavano solo concetti di enti sensibili, mentre l'idea di caducità, pur riferibile a enti sensibili, ha un significato intelligibile.
La cui intelligibilità è tuttavia basata proprio sul suo riscontro sensibile; altrimenti non potremmo nemmeno parlarne... per concetti come la trascendenza, invece, si tratta di "arrivarci" tramite negazione/contrario di una caratteristica esperita, l'immanenza; infatti se non avessimo concettualizzato l'immanenza, non capiremmo quando qualcuno parla di trascendenza (quindi la priorità logica è nell'astrazione del sensibile rispetto alla sua negazione concettuale, che apre alla concettualità sovra-sensibile...).

Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
per quanto riguarda gli intelligibili, questi sono tra loro distinti in uno "stacco" qualitativo ben distinto dei loro significati. Un concetto intelligibile non è mai una generalizzazione di somiglianze, ciascuno di essi possiede un nucleo di significato ben definito che permane identico in ogni individuazione, senza che una individuazione "somigli" più o meno a un'altra.  Cioè, il concetto generale di "caducità" non è dato dal rilevamento di somiglianze tra le diverse forme di caducità, la caducità ha un proprio senso peculiare coglibile già in una propria singola determinazione individuale.
L'astrazione non richiede necessariamente una casistica di "conforto", si possono astrarre qualità, caratteristiche (o "accidenti" per dirla alla medievale) anche da un caso singolo... e il concetto che deriva da tale astrazione sarà intelligibile senza essere innato: se osservo qualcuno aprire una porta, anche solo una volta, posso astrarre il concetto di "apribilità"... che poi verrà corroborato, falsificato o meglio strutturato dalla eventuale casistica (imparerò che talvolta serve una chiave, che ci sono differenti tipi di aperture, che posso aprire anche le finestre ma è meglio non entrarci ;D , etc. ).

Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Nel momento in cui colgo la caducità di un ente finito come l'albero o la vita umana, io non sto solo percependo, ma già giudicando, ma il giudizio è una struttura costituita da concetti, dunque il concetto di caducità è già presente nella mia mente sin dall'inizio
I concetti sono dunque tutti già presenti dalla nascita senza possibilità di formali in itinere? Se penso all'apprendimento (e alle teorie connesse), mi viene in mente che possiamo formularne molti, e persino "personalizzati", in base alle nostre esperienze di vita (basti pensare al concetto di "bellezza").
In fondo, di fronte alla caducità dell'albero, osservo, interpreto ed astraggo, producendo un concetto... se avessi già il concetto, sarebbe un'"anamnesi platonica" più che una concettualizzazione (e si porrebbe il problema di tutti i casi in cui le concettualizzazioni si rivelano poi errate: "difetto di fabbrica"? ;D ).

Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 16:03:35 PM
Occorre invece iniziare a familiarizzare con il concetto di "latenza", con l'idea che gli stimoli esterni non siano cause creative "ex nihilo" dei vissuti, ma solo condizioni del loro sviluppo e del loro emergere alla piena consapevolezza, ma alla luce di un emergere interiore proveniente da un nucleo latente e profondo da sempre presente in noi, ma di cui non se ne aveva originaria consapevolezza
Il concetto (innato? ;) ) di latenza è tanto interessante quanto aporetico. Quando qualcosa balena nella mia coscienza/consapevolezza come faccio a sapere se è (neo)nato o giaceva in latenza? Semplicemente, non posso.
Se poi questo qualcosa è il "trascendentale divino" e chiediamo agli esperti di latenza/inconscio, ovvero agli psicologi, già sappiamo come hanno spiegato il fenomeno (vedi titolo del topic); se chiediamo agli scienziati vari, ci diranno che questo archivio nascosto di latenze innate non l'hanno ancora trovato (almeno credo, genetica permettendo...).

A questo punto, non ci resta che lanciare una moneta fra latenza e produzione-per-astrazione (oppure compiere il "salto della fede").

Apeiron

#17
paul11, ok più o meno siamo d'accordo allora su questo tema anche se direi che anche se è vero che la paura causa in parte il controllo, è anche vero che è proprio la "brama" a generare l'ossessione del controllo (poi questa e la paura si alimentano tra di loro e ciò genera "mostri"  ;D ). Infatti se ad esempio sono uno fissato con il potere politico (ossia se ho una brama di potere smisurata) finirò per fare di tutto per controllare questo potere. Nel contempo il pensiero che il mio potere possa venire meno mi genera paura, la quale aumenta la fissazione col controllo, la quale aumenta la paura ecc. Il "rinunciante" ha capito a mio giudizio due cose: (1) che la brama è insaziabile (2) che il fatto che sia insaziabile è paradossalmente un segnale che "qualcosa di meglio ci sia" perchè questa insaziabilità finisce per rendere le "cose mondane" (ossia "condizionate") meno appetibili. La "fede"/"speranza"/"sicurezza" allora deriva dal riconoscere che in un certo senso importante siamo già a "contatto" con questa "dimensione" (trascendente o immanente che sia) e che quindi quello che devo fare è smettere di allontanarmi da essa. Questo è il pensiero del rinunciante e in esso c'è molta verità, oggi completamente ignorata e considerata la verità di chi "nega la vita", del "moralista", del "disprezzatore dell'esistenza" ecc - quando in un certo senso è esattamente l'opposto di tutto questo (non a caso questo tipo di vita è , diciamo, consigliato dagli scritti di moltissimi filosofi e religiosi di ogni tempo). Così il risultato è che oggi la spiritualità sta un po' sparendo dal globo. Ma a mio giudizio la mentalità del rinunciante è in un certo senso anch'essa incompleta, perchè in fin dei conti con essa nessun progresso culturale, tecnologico ecc è possibile. Quindi secondo me bisognerebbe - per chi non sceglie la vita del rinunciante - aspirare alla moderazione, ossia cercare sì di "mutare il mondo", "aumentare il sapere" ecc ma allo stesso tempo ricordarsi che "il ritorno è il movimento del Dao" e che "il saggio desidera di non desiderare" (come dice il "Tao Te Ching" , ma è un discorso che credo accettano moltissimi saggi...).

Sul discorso di Dio... personalmente da "filosofo" credo nell'esistenza di una forma di Assoluto (per noi inconoscibile) o Incondizionato che in qualche modo è la "base" dell'esistenza condizionata (anche se non avrei idea di quale sia il rapporto) - l'esistenza di tale Incondizionato la giustifico proprio dal punto di vista della nostra predisposizione a "produrre" concetti che cercano di "afferrare" l'Assoluto (ossia l'Inafferrabile). A differenza del Sari non ho ancora accettato la filosofia della "via di mezzo" del buddismo (o più precisamente di moltissime scuole buddiste - anche se ritengo che il Buddha semplicemente non parlava dell'Assoluto perchè tutti i nostri concetti in fin dei conti non lo afferrano - parlarne avrebbe dato l'illusione che poteva essere possibile "afferrarlo" con qualche nostro sforzo. Quindi se il "vero messaggio" del Buddha è che "non possiamo "afferrare" nulla di Assoluto" allora sono d'accordissimo.) perchè non vedo la differenza tra tale concezione e una sorta di nichilismo (non a caso, ben pochi buddisti si sono dedicati a discipline come la matematica, la scienza ecc - storicamente infatti nell'India - ma anche altrove - la matematica e la scienza è sempre stata vista come la "prova" di una trascendenza, di una "dimensione" superiore - se non proprio di un Dio personale). Dal punto di vista religioso sono "agnostico" sulla questione del Dio Personale visto che in fin dei conti una posizione su questa questione esce completamente dalla filosofia (la quale al massimo può indicare l'Assoluto...) e rientra nell'esperienza personale. Dell'Assoluto in filosofia si può parlare solo negativamente (ossia chiarendo l'alterità rispetto al non-assoluto) o se proprio si è costretti a parlarne positivamente si usano termini "poetici" o "allusivi" (per chiarire la "superiorità", visto che ci è impossibile "capirlo", possiamo al massimo "averne un'idea distorta"). Di certo non possiamo "stabilire" se è "Persona". La "teologia" invece studia l'Assoluto quando si è già assunto che (1) esiste e (2) è personale. Ma la teologia NON è più filosofia.

P.S. (off-topic) sul discorso del Buddha preciso che: concordo che nega l'esistenza di un IO separato, eterno, "sostanziale" ma questo non significa che non ci sia un Assoluto - come ritiene il Sari. Per me l'assenza completa di ogni Assoluto conduce al nichilismo, se per il Sari questo non è vero, buon per lui ;D. (ovviamente scherzo Sari :) )
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

paul11

ciao Davintro,
come ho cercato di spiegare ad Aperion , questo mondo" materialistico" culturalmente che pensa ingenuamente che la verità sia nel sensibile, nel mutevole e nell'immanente sta mostrando invece la sua immaterialità informativa in cui gli oggetti materiali in realtà sono ancora simboli "ontologici metafisici". 
In realtà ciò che relaziona un ateo o un credente è che comunque sono umani e un umano non può fingere a se stesso le problematiche esistenziali e dell'essere-Accade che le culture traspongono, il Dio trascendente  è passato nel'immanente, contraddittoriamente, dentro i simboli del possesso per aumentare la propria potenza personale attraverso la tecnica, illudendosi di gestire la tecnica per il proprio benessere e potenza.E' accaduto l'inverso, perchè in realtà l'uomo non ha posizionato se stesso sopra la cultura della tecnica, perchè sa da sempre la sua ambiguità e le sue problematiche esistenziali e ha fede nella tecnica come sua salvezza piuttosto manipolando il dominio della natura.

Ma infatti sono più che convinto che mai come in questo tempo l'uomo cerca le spiritualità, si stancherà pure di reiterare l'impulso ossessivo compulsivo a possedere, consumare ,buttare, possedere, consumare......E' disorientato..
Lo vedo nel malessere esistenziale, Davintro, il segnale che ogni individuo ha necessità di punti di riferimento per orientarsi almeno esistenzialmente e la modernità, la ricchezza, la "grande abbuffata" in realtà ha portato malattie nuove del "progresso
della tecnica" che sono appunto esistenziali. Il rapporto essere/esistenza è da sempre IL problema umano per antonomasia.

Penso che l'uomo abbia innate delle domande come il "perchè?" e le rivolga a tutto ciò che diviene "mentale" e abbiacon esse l'innatismo di facoltà calcolative e relazionali.E' la ragione che tende ad unire il molteplice all'unità e come razionalizzi l'unità in ente, essere, o Dio è religione, filosofia, teologia.Non penso sia quindi  innata l'idea o categorie di  Dio.
Puoi anche chiamarla "latenza" se vuoi, non cambia a mio parere il problema: è il mondo che mi parla di Dio, è il mondo che mi sollecita domande di senso, è l'esperienza che sviluppa le forme logiche e i linguaggi, ma è la mente relata la materiale organico del cervello che deve necessariamente avere predisposizioni innate ad un suo sviluppo e formazione.
Ribadisco ,sono più credente per filosofia che per religione .Non esiste una tassonomia vegetale, una animale, una classificazione delle rocce? La linea evolutiva e ordinativa delle chiavi tassonomiche sono relazioni sulle anatomie, fisiologie, riproduzioni, ecc.
Se queste sostanze del dominio naturale del sensibile sono a noi intellegibili tanto da poterle classificare  e ordinare, i diversi insiemi che compongono i domini, i domini stessi, costruiscono un albero della conoscenza che unisce le molteplicità all'unità originaria. Il mondo stesso come empirico mi spinge a relazionare come un bambino che gioca con i mattoncini del lego.
L'innatezza se vogliamo ridurla ad una unica facoltà è l'intellegibilità analogica che il nostro cervello ha del mondo, può rappresentarlo, può modellarlo.
Se esiste l'ateo o l'agnostico vuol dire che non necessariamente abbiamo un'idea di Dio innata, saremmo tutti credenti relazionandolo con 'intellegibilità, balzerebbe "fuori" dall'innatezza presentandosi come forma logica..Invece il botanico che classifica un vegetale all'interno delle chiavi tassonomiche si ferma,come Phil, teme il salto dicendo che è fede trascendente  però intanto contraddittoriamente trascende il sensibile di un fiore dentro una sua chiave che è astratta è mentale e non appartiene al dominio della natura.

ciao Aperion,
l'ossessione del controllo genera infatti compulsioni, perchè è impossibile controllare tutto, e infatti genera un malessere su se stessi. A livello mio personale logico seguirei piuttosto Buddha che un Trump,proprio oggi mi è capitato di osservare in tv (rai scuola) uno psichiatra che argomentava sui disturbi bipolari e infatti diceva che Roosevelt, Churchill, Stalin , vale a dire gli artefici dello storico patto di Yalta, erano tutti affetti da bipolarismo.
La spiritualità ,come ho scritto precedentemente, a mio parere sembra contrastare con la materialistica cultura attuale, in realtà a mio parere l'uomo cerca più che mai proprio oggi  di ricongiungersi ad essa.

Sono d'accordo, non riusciamo ad "afferrare " l'Assoluto ,tanto meno a descriverlo.
Quì mi sollecita alla mente Heidegger della "seconda fase " dopo "Essere e tempo" quella cosiddetta della kehre.
Dopo il tentativo di unire l'essere e l'esistenza, di dare senso all'esistenza con il dasein (l'esser-ci) si accorge che sfugge sempre l'essere che similmente potrebbe essere rapportato all'Assoluto e quindi si spinge all'essere non più come senso dell'esistenza, ma come verità originaria.:"Nell'inizio soggiorna ogni cosa,la grandezza del fare si misura valutando la sua capacità di seguire l'intima segreta legge dell'inizio e portarne a compimento il percorso.L'origine è l'essenza di ciò che qualcosa è per come lo è"

Daniele Bragagnolo

Sono tutti veramente molto interessanti questi spunti. Io personalmente mi domando sempre se effettivamente esistono delle verità. Sicuramente la tematica teista è asserita in un contesto antropologico, a seconda dei bisogni della cultura in cui si è inseriti. Di fatto il teismo nasce da dei bisogni che ha l'uomo di rispondere a certi bisogni, necessità e fatti esistenziale. La predisposizione non è altro, a mio avviso, che una risposta a queste mancanze dovute alla propria ignoranza, nel vero senso della parola. In questo senso sono convinto, come gia detto, che queste credenze siano delle proiezioni, o meglio situazioni in cui l'uomo si aliena pertanto si rifugia in certezze che vanno oltre alla propria esperienza, proprio perchè questa richiede delle risposte, creando scompensi a livello psicologico. L'uomo è creatura e cerca costantemente maschere, come dice Nietzsche, che ricoprono l'individuo di vane illusioni. Ma credo, che di fronte a tutti gli scenari di scetticismo riguardanti ciò che trascende la nostra esperienze, ci siano delle verità di fondo. Sono convinto che l'uomo si rifugia costantemente nell'alienazione idolatrando le necessità del contesto sociale e culturale. Ma la risposta, la verità di fondo a mio avvisto sta nell'amore, quel sentimento privo di ogni legame, sciolto dalle catene sociali e dalle implicazione della necessità. E' molto bello il titolo di un libro del poete H.W.Auden che cosi cita "La verità, vi prego, sull'amore". Io credo che questa sia la risposta, e se siamo qui a discutere di filosofia, è proprio perchè siamo mossi da esso( non a caso filosofia significa amore per la sapienza). A riguardo di ciò sono interessanti le letture di Erich Fromm o di Marcuse, ma anche dello stesso Feurbach, il quale era mosso da tanto amore che rifiutava l'idea che esso potesse divenire strumento per legarsi ad una legge teologica e teleologica,scusate il gioco di parole, perchè questo divenne e lo è ancora, un paradosso. Con questo non precludo la possibilità dell'esistenza di un Dio, anzi, ma il rischio secondo me è di idolatrare un dio, veicolato dalle nostre necessità.

Daniele Bragagnolo

Sono tutti veramente molto interessanti questi spunti. Io personalmente mi domando sempre se effettivamente esistono delle verità. Sicuramente la tematica teista è asserita in un contesto antropologico, a seconda dei bisogni della cultura in cui si è inseriti. Di fatto il teismo nasce da dei bisogni che ha l'uomo di rispondere a certi bisogni, necessità e fatti esistenziale. La predisposizione non è altro, a mio avviso, che una risposta a queste mancanze dovute alla propria ignoranza, nel vero senso della parola. In questo senso sono convinto, come gia detto, che queste credenze siano delle proiezioni, o meglio situazioni in cui l'uomo si aliena pertanto si rifugia in certezze che vanno oltre alla propria esperienza, proprio perchè questa richiede delle risposte, creando scompensi a livello psicologico. L'uomo è creatura e cerca costantemente maschere, come dice Nietzsche, che ricoprono l'individuo di vane illusioni. Ma credo, che di fronte a tutti gli scenari di scetticismo riguardanti ciò che trascende la nostra esperienze, ci siano delle verità di fondo. Sono convinto che l'uomo si rifugia costantemente nell'alienazione idolatrando le necessità del contesto sociale e culturale. Ma la risposta, la verità di fondo a mio avvisto sta nell'amore, quel sentimento privo di ogni legame, sciolto dalle catene sociali e dalle implicazione della necessità. E' molto bello il titolo di un libro del poete H.W.Auden che cosi cita "La verità, vi prego, sull'amore". Io credo che questa sia la risposta, e se siamo qui a discutere di filosofia, è proprio perchè siamo mossi da esso( non a caso filosofia significa amore per la sapienza). A riguardo di ciò sono interessanti le letture di Erich Fromm o di Marcuse, ma anche dello stesso Feurbach, il quale era mosso da tanto amore che rifiutava l'idea che esso potesse divenire strumento per legarsi ad una legge teologica e teleologica,scusate il gioco di parole, perchè questo divenne e lo è ancora, un paradosso. Con questo non precludo la possibilità dell'esistenza di un Dio, anzi, ma il rischio secondo me è di idolatrare un dio, veicolato dalle nostre necessità.

Apeiron

paul11, sul nesso tra benessere psicologico e ossessione del controllo si può discutere molto. Ritengo interessante questa cosa sul bipolarismo che hai citato, anche se a mio giudizio mi sarei aspettato che venisse a galla una sorta di disturbo paranoico in quei politici (se non erro Stalin era estreamemente paranoico per esempio, e in teoria se non erro lo era anche Hilter... non ho idea degli altri, ma non mi sorprenderebbe). Mi spiego meglio: chi è assuefatto da questa tendenza, come ben dici tu, vive una vita di costante paura delle altre persone, paura che d'altronde può essere anche "giustificata" da minacce, tradimenti ecc. Poi è anche vero che un "lavoro" di questo tipo espone a molta frustrazione e a un senso di onnipotenza (d'altronde essere il "capo" di uno stato, può far credere di essere la "persona più importante"...), sensazioni che si ritrovano nel bipolarismo (ma anche no).
La cosa interessante è i disturbi psicologici, specie d'ansia e d'umore, si ritrovano non solo nei politici ma anche in artisti, filosofi e personalità religiose. E anzi la religione può essere ricercata proprio per eliminare certi disturbi della psiche: d'altronde il malessere di cui parli è prima di tutto mentale ed è spesso l'incipit della spiritualità. In ogni caso posso essere d'accordo con te che oggi in un certo senso si cerca più la spiritualità di qualche secolo o millenio fa ma se si pone la questione in questi termini: la "massa" cerca sempre di meno, chi invece si stacca da essa cerca probabilmente ancora di più di quanto lo facevano i nostri antenati. Ma anche tra questi pochi molti finiscono per abbandonare la ricerca (e magari considerarla un errore) oppure per praticarla senza un minimo di serietà (vedi ad esempio https://www.riflessioni.it/logos/percorsi-ed-esperienze/l%27insoddisfazione/ sui "giovani bonzi buddisti con la cicca tra le labbra, occhiali da sole e selfie"). Pochi rimangono dei ricercatori e spesso questi ricercatori non seguono nessuna religione organizzata e questo ovviamente li espone all'isolamento, alla frustrazione, al senso di smarrimento ecc. Quindi oggi più che mai il disagio mentale può essere a volte in realtà un "buon segnale", quasi una sorta di sofferenza titanica dovuta sia all'andare contro-corrente sia ad una sincera e libera esplorazione della spiritualità stessa.
Semmai la cosa interessante è che mai come oggi l'investire su questa nostra predisposizione finisce per causare senso di smarrimento, crisi esitenziali e altre cose spiacevoli perchè da una parte la si affronta con un forte scetticismo e un forte senso del dubbio (cosa ovviamente che ha degli ovvi risvolti positivi perchè combatte la superstizione o cose simili...) e d'altro canto la maggior parte delle persone è completamente disinteressata a questo tipo di domande (perchè letteralmente pensano che questa trascendenza sia un errore della nostra natura umana). Semmai possiamo dire che sta continuando quel processo di distacco dalla spiritualità già evidenziato in altri post e oggi il fatto che chi cerca lo fa con un'intensità maggiore (talvolta patologica) è dovuto al fatto che ci sentiamo sempre più "sconnessi" e quindi "smarriti".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

paul11

ciao aperion,
sul rapporto mente/cervello sono vicino alle posizioni di J. Eccles ,postato altrove da Carlo Pierini.
Sostengo anche che vi sono malattie del cervello e malattie della mente e la psicosomatica è l'influsso di un disturbo mentale sull'organismo fisico.C'è un'interdipendenza "misteriosa", ma è la stessa interdipendenza che da sempre soprattutto gli orientali, vedasi la loro medicina, i loro esercizi yoga che non sono solo fisici, con le asanas, la loro meditazione.
Quì avviene che corpo/mente/spiritualità sono intimamente connessi, ed è diverso già dal nostro modo di vivere culturale.
L'occidentale ha preso ad esempio i training autogeni, i problem solving, lo stesso yoga e arti marziali, troppo spesso estraniandolo dalla sua originaria spiritualità, dalla intime connessione mente/corpo.Noi occidentali cerchiamo di primeggiare, mentre quella cultura cerca equilibri e armonie.

Ho come l'impressione che la cultura occidentale si sia persa nel logos si focalizzata troppo sulla parola, sul dominio, sulla potenza, perdendo quelle originarie forme di "sospensione della coscienza" perchè il problema dell'equilibrio e armonia non è il "forzare", ma spesso è il contrario "il lasciarsi andare". E' come se l'occidentale volesse possedere Dio, gli ebrei non lo nominano neppure invece e per l'orientale è qualcosa di interno a sè non esteriore.
L'occidente ha strutturato la religione seguendo un logos, ma si è autocondizionato almeno in parte, con le dogmatiche, con una costante idea di dover "provare" sempre qualcosa nell'idea di Dio.Così oggi un ateo occidentale chiede la "prova di Dio" come se fosse un fungo del bosco.
La dimostrazione è che la filosofia della mente che comprende neuroscienze e cognitivismo se non ha una prova"fisica" della coscienza, della mente, non ci crede, ma come fa allora quello stesso scienziato ad avere psiche, spiritualità, innatezza, linguaggio e riesce a trascendere il mondo emperico nell'astrazione di una tesi o ipotesi, come se le scienze non fossero fondate su enunciati, su postulati, assiomi, che sono il dominio astratto e concettuale del mentale? 
L'uomo occidentale ha permeato questa cultura materiale della prova fino a negare se stesso, non solo Dio.

Perchè non si può negare l'esigenza di una spiritualità nell'uomo, ma sono convinto che il "muro" è linguistico, nel senso che termini come religione e spiritualità sono visti o come costrizione, condizionamento. o come soggettivazione individualistica, o 
come favolette per bambini, qualcosa di poco "serio". Invece e quì sarei d'accordo con Davintro, non è tanto l'idea di Dio che è innata, ma il concetto logico che lega il mondo del sensibile, la moltitudine della natura, a quello di una primordiale unità originaria ,da cui è scaturito tutto, perchè tutti e ne sono convinto, abbiamo questo concetto che è un punto interrogativo indefinibile, un "qualcosa" che la mente mostra , ma che la parola non sa dire e definire e nessuna scienza può dimostrare fisicamente con beute e provette.. Ma negare questo è negare parte della nostra natura direi quella fondamentale ,quella che ci permetterebbe di non essere una "cosa" insignificante dentro il meccanismo perverso dell'economico-politico-sociale, ma di riavere quell'umanità con quel sentimento d'amore(come scrive anche Daniele Bragagnolo) che ci permette di riconoscerci, di viverci.

Apeiron

ciao paul11,
Molto interessante questa tua riflessione sul "Logos", la "parola" o meglio la "ragione". Il rapporto nostro con "Dio" o l'"Assoluto" d'altronde è proprio questo, noi vogliamo una comprensione concettuale a tutti i costi. Così siamo convinti di comprendere "Dio" - quasi che "Dio" non solo si è "fatto" uomo ma è l'uomo. Così come dice Bragagnolo il rischio è che "umanizzando" "Dio" finiamo per proiettare noi stessi in "Dio" in modo che risulti una sorta di versione "onnipotente" di noi stessi, con le nostre caratteristiche. Questa tendenza la vedo nell'uomo "ideale" propinato dalla modernità ossia l'uomo sempre sorridente, pieno di amici, di successo sia nel lavoro che nella famiglia ecc. Come sapientemente dici tu ciò avviene perchè dimentichiamo che la nostra "ragione", il nostro "logos", è limitata e non riusciamo ad accettare che ci sia qualcosa che non può davvero essere capito. Quindi visto che la nostra esperienza e i nostri ragionamenti ci dicono ad esempio che la si sta meglio quando si è in salute, quando non si è tristi ecc allora proiettiamo l'uomo ideale come la somma di tutte queste caratteristiche. E poi finisce che "lasciandosi andare" si entra completamente in questo meccanismo, dimenticandosi in toto che quel prototipo di uomo ideale è "costruito" sulla base di come è impostata la società in un certo periodo (per esempio allo stesso modo nall'antica Grecia l'eroe era il "guerriero perfetto" - e gli dei dell'antica grecia erano di quanto più "umano" ci potesse essere nel senso che estremizzavano sia i pregi dell'uomo che i difetti. Su questo punto due diversi teologi che conosco mi hanno fatto notare che molte "idee" a loro giudizio errate che ci facciamo sul cristianesimo [ad esempio sul Giudizio Universale] deriva proprio dal fatto che noi abbiamo una mentalità molto "greco-romana" e non "ebraica" [mentre ovviamente i primi cristiani erano molto più vicini a questa mentalità ebraica]).
Quindi sì "lasciandosi andare" alla nostra tendenza di ritenerci "superiori" ecc provoca guai, in primo luogo a noi stesso perchè finiamo di non renderci conto che stiamo creando un "idolo" ad hoc.
Ovviamente il mio "lasciarsi andare" non voleva dire questo ma hai fatto bene a dirmi che è un'espressione ambigua e che può portare al contrario di quanto voluto. Concordo bene o male col tuo ultimo paragrafo.

Sul discorso "mente-corpo" non ho ancora sviluppato una "teoria" stabile. Al momento ritengo che mente e corpo sono due aspetti della stessa realtà (quindi bisognerebbe considerare - per capire questo problema - sia il corpo e la mente presi singolarmente sia il "corpo-mente", la loro unione) ma non ho raggiunto una posizione vera e proprio. Concordo poi il discorso che fai sullo yoga ecc. Sono stato ad una seduta di training autogeno e l'hanno "venduta" come "tecnica di rilassamento". Non che sia sbagliato ma è estremamente riduttivo. Questo tipo di tecniche aiutano davvero a comprendere sé stessi ossia hanno davvero un ruolo "conoscitvio" oltre che di "aiuto psicologico". Idem per i "disturbi mentali" e anche qua devo dire che l'oriente ci supera di molto perchè per noi sembra inconcepibile che la mente influenzi il corpo (e viceversa) mentre per loro niente affatto: basti pensare quanto per esempio si da importanza alla posizione del corpo nella meditazione  ;D per esempio l'atto del digiuno per noi sembra un "moralismo contro la vita", ma in oriente addirittura ti dicono che ha effetti positivi sul corpo (e non solo sulla mente) ::) - perfino il taoismo che è la più "affermatrice" del mondo tra le "vie di liberazione" consiglia varie tecniche di digiuno sostenendo che esso porti al benessere mentale e fisico (oltre che la longevità). Per natura cerchiamo il "meglio", ossia cercare il "meglio" è per noi il "modo naturale di vivere".Appreso questo concetto, quando quei saggi orientali dicono che la vita di "rinuncia" è "migliore" è chiaro che affermino che è "la via naturale" e che dicano che chi vive nella pienezze anche se segue gli istinti apparentemente naturali venga bollato come "folle" o "ignorante della propria natura" o "come persona che non segue la Via della Natura ma la Via degli uomini". La nostra mentalità ora è così distante da questi principi che ci sembra totalmente assurdo che un uomo viva con poco e niente e che sostenga che il suo stile di vita è "naturale". Finiamo per glorificarlo, per metterlo in un piedistallo e lui direbbe: "ma scusatemi, cosa mi mettete sul piedistallo che sto vivendo nel modo più "normale" possibile?". Così come è "naturale" per loro entrare nel samadhi, nelle jhanas e "folle" o "innaturale" non farlo  :)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Phil

Citazione di: paul11 il 09 Agosto 2017, 00:19:52 AM
il botanico che classifica un vegetale all'interno delle chiavi tassonomiche si ferma,come Phil, teme il salto dicendo che è fede trascendente  però intanto contraddittoriamente trascende il sensibile di un fiore dentro una sua chiave che è astratta è mentale e non appartiene al dominio della natura
Se distinguiamo bene il "trascendentale" dall'"astratto", non colgo la contraddizione: creare delle strutture astratte per identificare e comprendere parte della realtà esperita non mi pare in contrasto logico con il dubitare di astrazioni che trascendono autonomamente la realtà come vissuto.
Se, tramite astrazione, identifico arbitrariamente "la margherita" come una certo fiore con determinate caratteristiche, basandomi sull'esperienza che ne ho avuto (io o altri), perché dovrei di conseguenza ammettere che esista anche una trascendenza necessaria, che non è una semplice astrazione dell'esperienza, ma ha "vita" propria, scardina tutte le categorie dell'immanenza ed è persino la spiegazione di tutto ciò che sembrerebbe essere ignoto ed inspiegato (ma forse non inspiegabile)?
Sono due astrazioni ben differenti, e limitarsi alla prima non credo contraddica il rifiutare la seconda... sarebbe contraddittorio solo se si negasse la capacità cognitiva di astrarre, ma, ribadisco, secondo me è un meccanismo innato nella ragione umana.

D'altronde quando astraggo, sono consapevole che il risultato è solo un'astrazione, magari personale; se invece si parla di trascendenza divina, solitamente, non si parla di un mero costrutto mentale (o addirittura proiezione ;) ), ma di qualcosa di ben più rilevante per la storia dell'esistenza del cosmo e, soprattutto, di non-solo-mentale e non-solo-personale (dunque si confonde il risultato di un'astrazione, ovvero di un processo mentale, con qualcosa che si suppone invece esistente indipendentemente dall'uomo, su un altro piano, quello della trascendenza divina).

La differenza fra il "passo dell'astrazione" e il "salto della fede" è tutta qui, fra l'essere-prodotto-umano (identità tassonomica della "margherita") e l'essere-motore-immobile (divinità trascendente).

Sariputra

#25
Quando ci poniamo di fronte all'idea di trascendenza o di immanenza dovremo credo lasciar andare ogni concetto su di essa che ci siamo fatti o ci hanno insegnato. Dovremo proprio dimenticare persino il significato di questi due termini. In primis perchè non ci servono e poi perché rischiano sempre di essere fuorvianti. Dobbiamo per prima cosa essere "vergini" spiritualmente. Non siamo "occidentali" o "orientali"...siamo semplicemente noi, con tutta la nostra forza interiore e la nostra debolezza psicologica. PercHè c'è una grande forza interiore in noi. C'è, è sempre là, presente ma noi ci soffermiano spesso solo sulle nostre debolezze e non vediamo che queste non sono insuperabili, non ci impediscono di camminare, se lo vogliamo. La "trascendenza" ( uso questo termine per favorire la comprensione ma in realtà non lo condivido...) è una ricchezza, non un impoverimento come ritenuto dalla mentalità corrente. Una persona che cerca di seguire un sentiero spirituale non è un frustrato che pone limitazioni al godimento della vita, ma anzi ..ne ha in sovrappiù! Il fallimento che vediamo in molte persone che hanno seguito un particolare sentiero spirituale non dimostra l'inefficacia del sentiero ma la mancanza di autentico vigore spirituale del viandante.  L'uomo che continua a confrontare la propria vita con quella degli altri e soffrirne per la sensazione di non essere all'altezza; l'uomo che non ha stima di se stesso e della propria capacità di amare veramente; l'uomo che dubita in continuazione di ogni cosa e anche delle proprie  ricchezze interiori, non è adatto ad un sentiero spirituale. Bisogna lasciar andar tutta questa massa di incertezze, lasciarle sullo sfondo della nostra vita. Smetterla di confrontarci e di ritenerci "spirituali" o " materialisti". Essere autenticamente nudi e poveri, come un Siddharta che si nutre del letame dei vitelli di bufalo per sopravvivere. Non possiamo farlo? Non possiamo denudarci da tutta la catasta senza fine di idee che ci siamo fatti sulla "spiritualità"? Su Dio, Allah, Nirvana o qualunqua altra cosa? Non possiamo metterci soli e nudi di fronte a "Dio"? Non possiamo farlo perchè siamo esseri culturali e socievolmente sociali? AH... ma siamo anche altro. Lo siamo, e quando siamo stanchi di tutto, alla sera nel nostro letto, non c'è qualcosa che frugna nel nostro profondo e che ci fa dire:" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare"?
Ecco perché la "rinuncia" è essenzialmente un dono che facciamo, a noi stessi e agli altri che ci circondano. La rinuncia diventa l'atto di fare spazio nel nostro cuore e lasciar spazio agli altri. Si parla spesso di rinuncia al "sè" ma poco di una altrettanto importante, ossia al "Mio". Il mio sapere. la mia cultura, la mia posizione, le mie infelicità, il mio benessere materiale...abbiamo un'infinità di "mio" che guidano la nostra vita. Ci aspettiamo che il "trascendente" sia una cosa meravigliosa, un'esperienza ineffabile, totalmente "altra" ad ogni altra esperienza e non ci accorgiamo che è sempre il solito gioco del "mio" in azione. Come pensiamo di accorgerci della presenza di "Dio" o dello stato del "Nirvana" se non ci accorgiamo nemmeno dell'infelicità e del dolore di quelli che diciamo di amare? Solo se incontriamo lo sguardo dell'altro e guardiamo nel colore del suo animo possiamo capire se ha un senso la parola "trascendenza".
Scusate il predicozzo... :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#26
Citazione di: Sariputra il 09 Agosto 2017, 16:07:59 PMQuando ci poniamo di fronte all'idea di trascendenza o di immanenza dovremo credo lasciar andare ogni concetto su di essa che ci siamo fatti o ci hanno insegnato. Dovremo proprio dimenticare persino il significato di questi due termini. In primis perchè non ci servono e poi perché rischiano sempre di essere fuorvianti. Dobbiamo per prima cosa essere "vergini" spiritualmente. Non siamo "occidentali" o "orientali"...siamo semplicemente noi, con tutta la nostra forza interiore e la nostra debolezza psicologica. PercHè c'è una grande forza interiore in noi. C'è, è sempre là, presente ma noi ci soffermiano spesso solo sulle nostre debolezze e non vediamo che queste non sono insuperabili, non ci impediscono di camminare, se lo vogliamo. La "trascendenza" ( uso questo termine per favorire la comprensione ma in realtà non lo condivido...) è una ricchezza, non un impoverimento come ritenuto dalla mentalità corrente. Una persona che cerca di seguire un sentiero spirituale non è un frustrato che pone limitazioni al godimento della vita, ma anzi ..ne ha in sovrappiù! Il fallimento che vediamo in molte persone che hanno seguito un particolare sentiero spirituale non dimostra l'inefficacia del sentiero ma la mancanza di autentico vigore spirituale del viandante. L'uomo che continua a confrontare la propria vita con quella degli altri e soffrirne per la sensazione di non essere all'altezza; l'uomo che non ha stima di se stesso e della propria capacità di amare veramente; l'uomo che dubita in continuazione di ogni cosa e anche delle proprie ricchezze interiori, non è adatto ad un sentiero spirituale. Bisogna lasciar andar tutta questa massa di incertezze, lasciarle sullo sfondo della nostra vita. Smetterla di confrontarci e di ritenerci "spirituali" o " materialisti". Essere autenticamente nudi e poveri, come un Siddharta che si nutre del letame dei vitelli di bufalo per sopravvivere. Non possiamo farlo? Non possiamo denudarci da tutta la catasta senza fine di idee che ci siamo fatti sulla "spiritualità"? Su Dio, Allah, Nirvana o qualunqua altra cosa? Non possiamo metterci soli e nudi di fronte a "Dio"? Non possiamo farlo perchè siamo esseri culturali e socievolmente sociali? AH... ma siamo anche altro. Lo siamo, e quando siamo stanchi di tutto, alla sera nel nostro letto, non c'è qualcosa che frugna nel nostro profondo e che ci fa dire:" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare"? Ecco perché la "rinuncia" è essenzialmente un dono che facciamo, a noi stessi e agli altri che ci circondano. La rinuncia diventa l'atto di fare spazio nel nostro cuore e lasciar spazio agli altri. Si parla spesso di rinuncia al "sè" ma poco di una altrettanto importante, ossia al "Mio". Il mio sapere. la mia cultura, la mia posizione, le mie infelicità, il mio benessere materiale...abbiamo un'infinità di "mio" che guidano la nostra vita. Ci aspettiamo che il "trascendente" sia una cosa meravigliosa, un'esperienza ineffabile, totalmente "altra" ad ogni altra esperienza e non ci accorgiamo che è sempre il solito gioco del "mio" in azione. Come pensiamo di accorgerci della presenza di "Dio" o dello stato del "Nirvana" se non ci accorgiamo nemmeno dell'infelicità e del dolore di quelli che diciamo di amare? Solo se incontriamo lo sguardo dell'altro e guardiamo nel colore del suo animo possiamo capire se ha un senso la parola "trascendenza". Scusate il predicozzo... :)

Macché predicozzo, direi che non ho mai letto nulla di più vero di quello che dici (sinceramente non ho mai trovato una persona con cui sono d'accordo più di te Sari  :)  ). Ecco più che una "rinuncia" al sé a mio giudizio è molto più interessante il pensiero della rinuncia al "Mio", come dici tu (ovviamente la mia posizione sull'Assoluto può essere pericolosa perchè diventerebbe un "mio" assoluto con cui vanagloriarmi). Infatti quando io parlavo di "rinunciare"e portavo l'esempio di San Francesco e Buddha volevo far cadere l'attenzione proprio su questo aspetto della "rinuncia". Rinunciare a pensare le cose (cultura compresa, teorie sulla realtà comprese) e gli esseri come "miei" libera sia me che l'altro. In particolar modo l'altro perchè se amo un altro senza considerarlo "mio" vuol dire amarlo per quello che è lui, non per le mie aspettative o i miei interessi. Questo secondo me significa "rinuncia" (è una bella cosa!). E da qui si capisce anche perchè alcuni dicono che è uno stato "naturale": semplicemente perchè contiene una verità: ossia che nessuna cosa o essere è di mio possesso.  In fin dei conti tutta questa rinuncia è facile eppure mi pare che pochi lo mettono in pratica. Tra quelli che se ne accorgono ci sono alcuni che finiscono per parlare secondo astrazioni, di parlare di "Nirvana" o di "Assoluto" cadendo nell'errore di creare di nuovo una scappatoia a quel sempre presente senso di Mio.

" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare" Questa citazione racchiude una profonda verità: ci metteremo veramente a cercare, a costruire astrazioni, a cercare avventure ecc se fossimo davvero capaci di amare e se ci sentissimo davvero amati? Forse sì ma con una "foga" e un'ansia molto minore perchè non sentiremo che in noi "manca" qualcosa (o che siamo "sconnessi" dalla "realtà"). Quanto è vero quello che dici Sari: il tuo "predicozzo" esprime una semplice verità. La mancanza di spiritualità è certamente legato proprio a questo senso di "sconnessione", di "smarrimento" e di "mancanza". Quando questa "mancanza" è presente e non se ne è consapevoli il MIO diventa enorme, totalizzante ecc. Chi ne è consapevole invece cerca in tutti i modi di "riconnettersi" ma in questo tentativo a volte si comporta peggio con gli altri e con sé stesso di chi non è consapevole. Ma d'altronde è proprio questo che muove la filosofia, l'arte ecc. Questo senso di "sconnessione"... Purtroppo alcuni di questi sanno solo dare astrazioni, pensieri ecc. Sconnessi come sono finiscono per staccarsi da tutti e da tutto, compresa la loro stessa filosofia di vita (e talvolta finiscono di essere anche ipocriti). Se uno può dare solo astrazioni e nient'altro che astrazioni come....?

Come si può smettere di parlare della Via se non trovando la Via? E una volta che la Via si è perduta come è possibile ritornare?  Come è possibile smettere di "allontanarsi" dalla Via se non si riesce a trovare una risposta che davvero spegne questo "fuoco"?
P.S. Sono d'accordo con te che il termine "trascendenza" è improprio, perchè dopotutto parliamo di qualcosa di cui si può "avere esperienza" in un certo senso. Il trascendente per definizione è "fuori" (idem per l'immanenenza perchè l'immanente è qualcosa che si può "afferrare"). Sarebbe più corretto un termine che da solo richiude sia la trascendenza che l'immanenza ma non riesco a trovarlo.

Edit: con questo non voglio dire che tutti questi discorsi sono inutili o modi per "dimenticarsi" della realtà mascherati (e non penso che ciò era il messaggio del Sari, se non ho capito male). Ma volevo "mettere in guarda" (prima di tutto me stesso) che questa ricerca dell'"Assoluto" può finire o per creare un isolamento orribile (ossia preferire questa ricerca sulla capacità di amare) o ipocrisia (ossia non rendersi neanche conto di non amare chi si dice di amare, perchè si è troppo "immersi" nella ricerca). Purtroppo ahimé non è così facile (come diceva il Tao Te Ching: "le mie parole sono semplici, ma nessuno le intende e nessuno le mette in pratica") come "sembra". Piuttosto è meglio usare l'Assoluto per "costringersi" ad amare o per riconoscere la propria incapacità (che non è altro che un sano esercizio di umiltà). Come le altre cose anche le "posizioni" sull'Assoluto possono avere effetti opposti sulle persone.  Ecco: non intendevo dire che queste discussioni sono di per sé un "male" (anzi a volte è forse proprio l'unico modo per trovare il bene - o sforzarsi seriamente di trovarlo).
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

davintro

Rispondo a Phil

 

l'intelligibilità dei concetti non è basata sul riscontro sensibile, ma sul loro significato non riconducibile a entità materiali, anche se sono riconducibili a proprietà appartenenti a cose materiali. L'esperienza sensibile non è l'origine della formazione nella mia mente di questi concetti, ma offre "solo" un contesto particolare entro cui formulare un giudizio costituito da quel concetto, il cui significato ho però già presente al di là dell'esperienza sensibile, oppure può offrire l'occasione e lo stimolo per focalizzare l'attenzione e la riflessione sul senso di quel concetto, ma va ricordato che la complessità della struttura mentale-coscienziale non coincide con ciò che è attualmente oggetto di attenzione, ciò in virtù dell'inadeguatezza di ogni sguardo riflessivo-introspettivo. Ciò che l'esperienza esterna può creare dal nulla può solo essere una sintesi, una combinazione di proprietà appartenenti a una molteplicità di enti, mentre se una proprietà viene esperita all'interno di una singola esperienza individuale, allora la sua apprensione non può essere la conseguenza di una sintesi, ma una scoperta che presuppone la presenza di una categoria mentale atta a recepirla. Quindi l'astrazione intesa come processo mentale di formazione di concetti presuppone sempre un movimento di unificazione, di sintesi dal particolare, mentre l'atto in cui si coglie una categoria da un singolo fenomeno dovrebbe piuttosto essere definito come "intuizione intellettuale", non costruzione di un nuovo concetto, ma emersione di una proprietà dal significato intelligibile facente parte di una realtà sensibile, da cui però non fa derivare il suo significato. Questa intuizione non forma concetti, ma lascia emergere qualcosa che già c'è, dunque non va confusa con l'astrazione. L'esempio del concetto dell'apertura della porta effettivamente è un po' ambiguo, perché se da un lato condivide con i concetti intelligibili come "caducità" un ben definito significato che possiamo cogliere già in una singola esperienza come può essere quella di una porta che si apre, dall'altro si riferisce pur sempre a un significato sensibile, osservabile dall'esterno, non intelligibile, quindi il fatto che l'apprensione di un tale concetto necessiti di un'esperienza esterna non indica in generale la non-innatezza dei nostri concetti in generale.

Non ho affatto mai sostenuto che tutti i nostri concetti siano innati, quello che volevo mettere in evidenza (che poi stava di base alla mia modestissima critica all'idea di religione come proiezione umana dell'ateismo) è la corrispondenza fra il significato dei nostri concetti al modo d'essere delle cose a cui quei concetti corrispondono. Dunque i concetti di enti sensibili sono originati dall'esperienza sensibile delle cose a cui quei concetti si riferiscono (del resto se non pensassi così dovrei solo ipotizzare metempsicosi o reincarnazioni, dove l'anima ha innate le idee di cose sensibili perché già esperite in vite precedenti, ma non sono platonico fino a sto punto), mentre i concetti intelligibili sono presenze originariamente presenti nella coscienza, che come complesso intelligibile non spazializzabile è sede adeguata della ricezione di tali idee. Poi potremmo anche ipotizzare una "terza classe" di concetti, quelli riferibili a vissuti psicologici come "gioia", "tristezza", "bellezza", che essendo riferiti a vissuti presuppongono per la loro formazione che il soggetto provi storicamente tali esperienze, e in ciò in parte incide anche l'esperienza del mondo esterno. Effettivamente anche la bellezza, come l'apertura della porta, è un esempio ambiguo, in quanto non la classificherei come "innata", dato che coincidendo con la sensazione di piacere di fronte all'apprensione di cose belle, la sua formazione in noi dovrebbe presupporre l'esperienza di queste cose belle. D'altra parte però la bellezza ha a che fare con qualcosa di innato in quanto riteniamo bello ciò che di sensibile cogliamo come riflesso simbolico dell'idea di bene in ciascuno di noi, cosicché un certo colore o una certa forma la troviamo bella perché in qualche modo scorgiamo in essa il simbolo di qualcosa di piacevole perché congruente con i nostri valori personali (capisco comunque che questo punto meriterebbe un approfondimento in una discussione a parte). Quindi la bellezza è un concetto di confine: presuppone l'esperienza esterna per formarsi in noi, ma al tempo stesso rimanda alla presenza di idee interiori, come i nostri valori morali personali che incidono in un certo senso nei nostri giudizi estetici.

Hai ragione sul fatto che affermare la presenza di una "latenza", inteso come livello di coscienza potenziale, ma ancora non attuale, possa apparire effettivamente un controsenso, in quanto si affermerebbe l'esistenza di qualcosa che dovrebbe essere al di fuori della coscienza attuale, cioè del concretamente pensabile. La latenza sarebbe assurdamente da un lato coscienza solo potenziale, e dall'altro presenza attuale della nostra riflessione su di essa. Ma non penso che la conseguenza di tutto ciò sia la caduta in un fideismo totalmente arbitrario che riguarderebbe l'esistenza di questa latenza: accanto alla via esperienziale-diretta si può arrivare al riconoscimento di un livello cosciente latente in cui si faccia esperienza di idee intelligibili attraversano un via indiretta-deduttiva: se gli oggetti fisici del mondo esterno sono inadeguati a formare in noi l'esperienza dei concetti intelligibili, e al contempo tali concetti come "caducità" o "eternità" non sono mai stati oggetti di riflessione e attenzione cosciente, allora l'unica soluzione è scindere il concetto di "coscienza" tout court da quello di attenzione attuale e far comprendere nella coscienza tout court uno strato profondo in cui i concetti non ricavabili dall'esterno "giacciono" come disponibili ad essere in futuro oggetti di un movimento attuale dell'Io verso tale interiorità profonda, movimento che può essere deciso alla luce della sua libertà

davintro

rispondo ad Apeiron

l'esperibilità del trascendente non lo immanentizza negandolo in quanto tale e rendendo la nozione di "trascendenza" assurda. Ciò sarebbe cadere nell'errore dell'idealismo moderno che intende l'esperienza come atto fondativo della realtà dell'oggetto esperito da parte del soggetto esperiente. In realtà, l'esperienza andrebbe vista non come atto causativo-esistenziale dei suoi oggetti, ma come una "luce" coscienziale attraverso cui rispecchiamo in noi stessi il darsi dei fenomeni del mondo, del nostro complesso di relazioni tra il nostro Io soggettivo e il mondo oggettivo. Questa luce permette di cogliere come gli atti con cui facciamo esperienza del mondo sono sempre articolati all'interno di una polarità duale, attività-passività. L'immanenza comprende gli oggetti dell'esperienza nella misura in cui tali oggetti dipendono nel loro modo d'essere da noi,  cioè dal nostro essere attivi, la trascendenza ne considera il loro carattere di autonomia, per la quale noi possiamo solo restare passivi nell'apprensione dei fenomeni. Ma questa passività è un carattere interno alla relazione esperienziale, quindi non ha senso pensare che l'esperibilità di qualcosa ne contraddica l'autonomia, cioè la trascendenza. Trascendenza per me vuol dire "ulteriorità", ed anche la percezione, atto esperienziale prevalentemente (anche se non integralmente) passivo (dato che non è la nostra  libera volontà a decidere quali contenuti entrano nella mia percezione e quali no), mi offre il fenomeno di enti di cui non sono il creatore, ma con un modo d'essere indipendente dal mio arbitrio soggettivo. Quindi qui l'esperibilità non contraddice la trascendenza ma la rivela. La trascendenza come ulteriorità non è esclusivamente di tipo verticale-religioso, ma anche per questo tipo possiamo considerare una dinamica analoga a quella della trascendenza orizzontale che la percezione rivela. La mistica, nella sua autenticità, cioè nel suo porsi come autentico coglimento di Dio, non è la creazione arbitraria della fantasia del mistico, ma apertura dell'anima ad un rivelarsi che l'Io umano non può decidere autonomamente di produrre dentro si sé, ed anche la via razionale-speculativa delle prove dell'esistenza di Dio non sono finalizzate ad affermare che l'esistenza di Dio è prodotto della ragione umana che assorbe tutto nella sua immanenza totalizzante, bensì in questa via la ragione si limita a riconoscere uno stato di cose oggettivo non deciso da essa, cioè che l'esistenza di Dio è un'ipotesi adatta a dei rispondere a dei problemi insiti nella conoscenza della realtà. Sia la via mistica che la speculativa sono contrassegnati da un certo livello di passività, che. al di là del giudizio di validità che si può formulare su di esse, mostra come la pretesa di vedere nell'arbitrio creativo dell'Io umano la causa dell'esistenza delle realtà a cui le vie tendono sia una pretesa infondata

Phil

Lasciando fra parentesi le paradigmatiche divergenze di vedute sull'innatismo e sul fatto che l'"intuizione intellettuale" sia "reminiscenza" piuttosto che invece "poiesi" cognitiva (in fondo, come accennavo, non possiamo saperlo ;) ), vorrei provare ad entrare nella tua prospettiva (con discrezione, spero), per capire meglio l'interessante questione di come
Citazione di: davintro il 09 Agosto 2017, 19:46:49 PM
accanto alla via esperienziale-diretta si può arrivare al riconoscimento di un livello cosciente latente in cui si faccia esperienza di idee intelligibili attraversano un via indiretta-deduttiva: se gli oggetti fisici del mondo esterno sono inadeguati a formare in noi l'esperienza dei concetti intelligibili, e al contempo tali concetti come "caducità" o "eternità" non sono mai stati oggetti di riflessione e attenzione cosciente, allora l'unica soluzione è scindere il concetto di "coscienza" tout court da quello di attenzione attuale e far comprendere nella coscienza tout court uno strato profondo in cui i concetti non ricavabili dall'esterno "giacciono" come disponibili ad essere in futuro oggetti di un movimento attuale dell'Io verso tale interiorità profonda
Lo stato profondo della coscienza in cui tali concetti giacciono, in attesa di essere "incontrati", è un'eredità primordiale o si è evoluta con l'uomo? Detto semplicisticamente, come fanno a starsene lì, chi ce li ha messi ;D ?
Se non può averli "inaugurati" un uomo per astrazione, poichè sono innati, allora hanno una radice genetica, oppure sono l'impronta del divino che ci accompagna sommessamente durante l'evoluzione?

Inoltre, tali concetti sono da ritenere necessariamente sempre sensati e funzionali? Intendo, è possibile che qualcuno di questi concetti sia inutilizzabile o addirittura ingannevole (come scherzo di un "genio maligno" cartesiano)? Il concetto di "eternità", ad esempio, richiede fede ma potrebbe essere, per quel che comprendiamo, anche fallace... più pragmaticamente, anche il concetto di "bene" richiede fede e dovrebbe essere (se ho ben capito il tuo approccio) innato, ma le sue differenti declinazioni in tanti "beni" differenziati, spingono a chiedersi come mai ci siano dei concetti innati differenti... dunque (dovendo escludere, per provare a restare nella tua prospettiva, che le categorie di "bene" e "male" siano prodotte dall'astrazione di esperienze vissute o dall'apprendimento emulativo nella società educante d'appartenenza): combinazione genetica (che spiegherebbe le differenze e le imperfezioni) oppure differenti "anime" (alle cui differenze qualitative è sottesa una certa "predestinazione")?

Tuttavia, forse anche "anima" è un concetto innato, che rimanda al concetto innato di "divinità" e... concetto innato dopo concetto innato, rischiamo di avere "carta bianca" per giustificare persino ogni superstizione o mitologia, ogni "verticalità" (ogni congettura che sfugge a verifica), fino a poter alimentare un'ontologia in cui tutto esiste nella "circolare" trascendenza della latenza, come traccia già segnata nella stanza più recondita della nostra (in)coscienza.

Citazione di: davintro il 10 Agosto 2017, 17:07:52 PM
La trascendenza come ulteriorità non è esclusivamente di tipo verticale-religioso, ma anche per questo tipo possiamo considerare una dinamica analoga a quella della trascendenza orizzontale che la percezione rivela. La mistica, nella sua autenticità, cioè nel suo porsi come autentico coglimento di Dio, non è la creazione arbitraria della fantasia del mistico, ma apertura dell'anima ad un rivelarsi che l'Io umano non può decidere autonomamente di produrre dentro si sé, [...] in questa via la ragione si limita a riconoscere uno stato di cose oggettivo non deciso da essa
Concordo sulla trascendenza da poter intendere come "ulteriorità gnoseologica", come oggetto-in-sè, noumeno o altro tipo di fondamento dell'esperienza vissuta... tuttavia, l'analogia (secondo me un po' "scivolosa"), che innalza tale ulteriorità al di sopra dei vissuti terreni, stringe il campo umano in modo elitario, confinando l'esperienza autentica del mistico a pochi soggetti, con il resto degli umani a doversi "accontentare" della fede "cieca", ovvero senza esperienza mistica diretta (e nell'esperienza mistica della trascendenza si riaffaccia il tema off topic della predestinazione  ;) ).
Esperienze mistiche spesso definite "incomunicabili", nel loro essere puro attingimento alla trascendenza della divinità, attingimento che sarebbe (correggimi pure se sbaglio) un riattivare la memoria latente di cui siamo "portatori sani", in un processo che, per quanto esplicativo, risulta difficilmente falsificabile (e quindi con un discreto margine di inattendibilità intersoggettiva).

Citazione di: davintro il 10 Agosto 2017, 17:07:52 PM
l'esistenza di Dio è un'ipotesi adatta a dei rispondere a dei problemi insiti nella conoscenza della realtà.
Concordo anche su questo, e tale funzione (sociale, esistenziale e talvolta persino) epistemologica, ricalca il ruolo di concetto-limite che ascrivevo alla trascendenza:
Citazione di: Phil il 07 Agosto 2017, 19:06:53 PM
Con ciò non affermo che la trascendenza non sia da considerare o non esista, anzi, proprio in quanto ha la funzione di concetto-limite, c'è; ma c'è anche ben poco da dirne (forse non sapremo mai interpretare il genitivo del titolo del topic, ovvero se lui è la nostra proiezione o noi siamo la sua ;D ).

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