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Anima, Spirito, Mente

Aperto da viator, 25 Dicembre 2017, 19:14:22 PM

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sgiombo

#30
Ritengo che esistano definizioni di scienza e di filosofia largamente condivise dagli addetti ai lavori e non solo; dunque ragionevolmente soddisfacenti (anche se non vedo limiti a priori al perfezionamento della conoscenza; e anche se nessuna definizione é incorreggibile e non migliorabile in assoluto).

Anche l' astrologia (per citare solo la prima delle superstizioni e degli irrazionalismi che mi viene in mente; intendo l' astrologia odierna, non le ricerche degli antichi Egizi e Babilonesi) "è un insieme di regole che cercano di spiegare, e di conseguenza prevedere, il maggior numero possibile di eventi".
Eppure non mi sembra proprio che la si possa considerare scienza.

Lo spiritismo, come l' astrologia, non riesce a prevedere un bel niente (se non per "puro culo", del tutto casualmente; ma la scienza -fra l' altro- cerca -anche- di prevedere razionalmente eventi, in seguito all' applicazione diligente, corretto di determinate regole oggettivamente o almeno intersoggettivamente valide, "veraci", e non "per puro culo", del tutto casualmente).

"Alcuna pretesa di riuscire a spiegare tutto" non l' ha non solo la scienza (correttamente intesa), ma anche moltissime filosofie, anche metafisiche; casomai ce l' hanno certe religioni; e certuni affetti da mania di onnipotenza (o almeno di onniscienza).

Non conosco metafisiche non religiose che abbiano la pretesa di spiegare tutto.
Mentre conosco non pochi scienziati che vanno per la maggiore i quali hanno la pretesa di cercare e di trovare prima o poi (loro o altri scienziati dopo di loro, nel caso dei relativamente più realisti o meno megalomani) la spiegazione di tutto ( la spiegazione del tutto la chiamano letteralmente "teoria del tutto").

La metafisica (qualsiasi metafisica, delle tante che sono state e sono proposte) non può limitarsi all' esperienza per definizione: metafisica = (studio di) ciò che sta oltre la fisica, cioè oltre (lo studio di) ciò che é constatabile empiricamente.

L' astrazione, il riconoscimento del generale si fonda empiricamente sull' osservazione empirica dei fatti particolari concreti e sulla distinzione fra ciò che nelle osservazioni empiriche concrete é particolare (proprio individualmente di ciascuna osservazione concreta) e ciò che è comune a più osservazioni particolari concrete.
Invece l' induzione é un procedimento raziocinativo, di cui le scienze fanno largo uso, la verità del quale David Hume (per me il filosofo sommo) ci ha fatto notare essere indimostrabile né empiricamente provabile, del quale si può essere certi unicamente per fede irrazionalmente fondata (e rendersene conto é per me una grandissima conquista di sapere filosofico; riguardante fra l' altro i limiti della conoscenza scientifica).

"Dall'osservazione di quel poco di esperienza che la nostra natura umana ci consente" "decide di poter ricavare regole talmente vaste da poter abbracciare tutto" é ciò che pretendono molti scienziati che vanno per la maggiore, "in buona compagnia" -si fa per dire!- con molte religioni, e non invece con alcuna metafisica non religiosa.

Il principio di non contraddizione é una regola logica della quale solo alcune filosofie metafisiche (come quella di Parmenide e di Severino) pretendono, a mio parere del tutto a torto, di fare un principio ontologico (fisico e metafisico); ma non per questo, almeno a quanto mi risulta, pretendono di conoscere o di spiegare tutto (contrariamente a non pochi scienziati che vanno per la maggiore).
Esso non riesce a spiegare nessun evento (reale), riesce solo a smascherare eventuali paralogismi; e infatti la scienza (le scienze naturali; un po' diverso é il discorso relativo a logica e matematica pure) se ne serve solo a questo scopo (spesso di fatto senza nemmeno esserne esplicitamente consapevole), e non affatto per spiegare alcun evento (per fare questo impiega invece osservazioni empiriche e ipotesi teoriche, da sottoporre al vaglio delle osservazioni empiriche).

L' affermazione "La metafisica invece non ammette che possano esistere eventi che il principio di non contraddizione non riesca a spiegare" non credo sia riferibile nemmeno alle ontologie di Parmenide e di Severino (sicuramente non a tantissime altre!).

Per Apeiron:
Sei fin troppo corretto e degno di ammirazione (oltre per le ottime considerazioni del tuo ultimo intervento e non solol, anche) per il tuo esplicitamente autocriticarti anche quando non ce n' é alcun bisogno!
Buon anno a tutti anche da parte mia!


P.S.: Sarò via per una settimana. Ci risentiamo verso l' Epifania (..."a Dio piacendo", come soleva dire una mia vecchia e brava insegnante di matematica del liceo).

Apeiron

@Angelo, la tua definizione di scienza è molto interessante ma appunto anche la tua non mi soddisfa  ;D o meglio è molto creativa e, volendo, comprende la scienza ma è troppo generica da un lato e non "sufficiente" da un altro.  Per "scienza" intendo solitamente ciò che si intende "intuitivamente" per scienza, ovvero lo studio critico (e il tuo utilizo della critica è ottimo  :) ) dei fenomeni naturali atto alla loro comprensione. Il problema è formalizzarlo. Vedi Popper secondo me ci è andato più vicino di Kuhn perchè Kuhn ha dato troppa importanza ai "paradigmi", i quali semmai costituiscono il "background interpretativo" dei fenomeni scientifici, non la scienza. Viceversa la teoria di Popper è molto interessante in quanto da molta importanza ai "tentativi ed errori" ed è piuttosto chiaro nei riguardi del fatto che la scienza è un tentativo di comprendere (parzialmente) la realtà. Il problema è che la demarcazione in fin dei conti non "elimina"dal campo cose come l'astrologia. L'astrologia in fin dei conti si basa su osservazione (delle configurazioni celesti), predizione falsificabile e "metodo" che produce le predizioni. Chiaramente il falsificazionismo non riesce a eliminare l'astrologia. Ma anche se ci riuscisse (come magari i popperiani hanno fatto) ha in sé un controsenso: cosa vuol dire in fin dei conti "falsificare"? Voglio dire: se io trovo dei risultati contrari alla mia teoria secondo questo principio la mia teoria è da cestinare o da ritoccare? Come vedi nella pratica (la scienza è un'attività pratica oltre che teorica) le "falsificazioni" non hanno conseguenze "ben definite". Questo volendo è anche un "bene" in quanto mostra come la cultura umana sia qualcosa che trascende facili definizioni. La tua definizione per certi versi è buona dal punto di vista pratico (ovvero sull'importanza della "critica") però la scienza è ben lungi dal produrre "regole" in continuo mutare... ha l'obbiettivo di comprendere. Si potrebbe poi dire che la scienza tratta dell'osservabile. Tuttavia questo era il pensiero di Mach e coerentemente ad esso nell'ottocento non si accettavano gli atomi. Il problema è che la scienza ha sempre "postulato" quantità inosservabili. Quello che sto cercando di dire è che tutte le definizioni che ho letto (la tua compresa...) sono molto buone però non sono per così dire "definitive" e sinceramente non so se considerare ciò una buona cosa o meno  :) comunque la ricerca dell'universale, pur non essendo "essenziale" alla scienza è molto "sentita" e portandoti gli esempi dell'unificazione in fisica volevo proprio sottolineare questo punto.



Riguardo alla meta-fisica. La meta-fisica vuole indagare cose che sono "oltre" la fisica, ovvero la scienza naturale. Come ben dici il suo approccio non è "solo" empirico però non deve contraddire l'esperienza (nel senso che la mia meta-fisica non deve, per esempio, farmi concludere che la Terra è piatta o che correndo contro il muro sicuramente non mi farò male). La meta-fisica dunque cerca di spiegare l'esperienza tramite un sistema che cerca di essere coerente di "nozioni" che non sono direttamente "esperenziali". Tuttavia c'è una precisazione. In questo topic si parla di "forma". La "forma" non è però, strettamente parlando, un concetto scientifico in quanto la scienza necessita che il mondo sia divisibile in "oggetti", ovvero in forme. La meta-fisica può dunque cercare di spiegare (1) perchè il mondo è diviso in "oggetti" (2) lo status ontologico (positivo o negativo) delle forme e degli oggetti (3) la relazione con l'esperienza. Per esempio dico che il fuoco è un fenomeno "condizionato": ovvero per "esistere" necessita di condizioni. Ora se analizzassi a livello semplicemente scientifico il fuoco potrei descriverlo nel suo aspetto microscopico e non capirei nulla del fuoco così come "contando gli atomi" di un libro non capisco il suo contenuto. La divisione della realtà in fenomeni microscopici e macroscopici è un "a-priori" della pratica scientifica nel senso che la pratica scientifica stessa necessita della divisione del mondo in sistemi di riferimento, apparati di misura, oggetti ecc. Ovvero che ci piaccia o no necessita di concetti che non possono essere ricavati dall'attività scientifica stessa (si badi bene che non avendo una definizione sistematica di scienza mi appello all'intuizione del laboratorio). Ovvero per lo scienziato concetti come "misura", "apparato", "oggetto della misura", "grandezza fisica" ecc sono condizioni sine-qua-non per la pratica. Il problema è che l'analisi di questi di fatto è fare un'analisi ontologica, ovvero appunto "meta-fisica". Allo stesso modo se io parlo di "fuoco", il fuoco come fenomeno ha senso alle nostre scale. Ergo possiamo dire che in un certo senso il fuoco è una via di mezzo tra l'esistere (nel senso che a noi appare come "qualcosa") e il non esistere (descrivendolo nel solo aspetto microscopico il fuoco non esiste). Il problema è che dire che dunque è "condizionato" include che noi formiamo il concetto di "condizionamento", di "incondizionato" ecc, ovvero creiamo un "background concettuale" che di fatto è ontologico. Che dire poi delle domande: "i valori etici sono realtà o mere convenzioni?" La domanda è "meta-fisica" (in questo caso ontologica) oppure "c'è vita dopo la morte?" (in questo caso la domanda è meta-fisica perchè non riguarda qualcosa di direttamente osservabile). Nella tua critica alla meta-fisica concorderei con te se i metafisici avessero davvero creato una "tuttologia", cosa che non hanno fatto. Hanno cercato nel tempo (riuscendoci?) a dare una spiegazione del motivo per cui esistiamo ecc. Ovviamente ciò non vuol dire che i meta-fisici non abbiano mai fatto l'errore che tu dici. Ma "errare humanum est" e l'errore umano non viola il valore della metafisica. E siccome solitamente per "meta-fisica" si intendono le speculazioni sull'esistenza, l'essere, Dio, l'anima, l'aldilà, la trascendenza, il nirvana, la relazione fatti-valori (può essere indagata anche "meta-fisicamente"), materia e forma, status ontologico delle discriminazioni concettuali, potenzialità e attualità, problema degli universali ecc ritengo che ci siano vari approcci per "praticarla", di cui quello che è implicito nella tua definizione è solo uno dei possibili, secondo me  ;)  



Volevo fare una precisazione sul discorso scientismo. Molti scienziati, credo [parola che ogni tanto mi dimentico di mettere], semplicemente non si interessano di nulla che possa andare oltre a ciò che può essere compreso nel campo dell'esperienza. La scienza offre una sicurezza piuttosto "facile" in fin dei conti essendo solitamente molto rigorosa e "attinente" all'esperienza. Il problema è che oggi è molto diffusa l'impressione che la scienza possa descrivere tutto e quindi la speculazione "meta-scientifica" (o "meta-fisica") è morta: pochi si fanno domande sulla relazione scienza-etica (ovvero se è possibile ricavare la seconda dalla prima), se esiste una realtà che non è (almeno normalmente) "visibile" e così via. L'esempio che ho fatto dell'aldilà è un classico. Questo richiede che appunto ci sia una "realtà" ulteriore. Il problema è che se crediamo che il nostro cervello e la nostra mente siano fenomeni naturali come lo è il fuoco e se la spiegazione "fisica" del fuoco per noi è "tutto ciò che è fuoco" allora possiamo dire che analogalmente la spiegazione "fisica" del cervello e della mente è l'unica "che conta". Vieni guardato come "eretico" perchè tu dici che c'è qualcosa "che conta" che la scienza non può (almeno adesso) investigare.



Ad ogni modo con gli ultimi chiarimenti la discussione non è più "inutile", anzi secondo me è fruttuosa (non ero mai veramente convinto di ciò, comunque!  :) )
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Non mi sembra che l'uso di concetti comuni renda sfumato il confine tra scienza e metafisica. Io vi vedo come differenza la pretesa riguardo al sapere di cosa si sta parlando.
Mi spiego.
Sia la scienza che la metafisica fanno riferimento al concetto di "essere", si servono del concetto di "essere". La scienza però non ha alcuna pretesa di dare per sottinteso che questo concetto sia chiaro, risaputo, posseduto. Allo stesso modo, una squadra di calcio non ha la pretesa di sapere tutto sulla composizione chimica del pallone con cui sta giocando: lascia ad altri questa questione. La squadra di calcio "assume" il pallone, cioè lo recepisce, se lo fa dare, lo prende per buono e vi fabbrica su delle regole con cui giocarci.
La metafisica no: essa invece pretende di sapere cos'è l'essere; la metafisica tratta i concetti di cui si serve come cose riguardo alle quali sa di cosa sta parlando. Per questo motivo la metafisica non vede di buon occhio tutte le critiche relative al linguaggio, poiché esse inficiano la materia di cui essa si serve, cioè le parole, i concetti, e così fanno scricchiolare gli edifici che essa costruisce con la pretesa che si tratti di edifici perfetti.
Invece la squadra di calcio non ha alcuna pretesa di mantenere il pallone come punto di riferimento intoccabile. Se un giorno diranno alla squadra di calcio che si è scoperto che il pallone ha avuto da sempre un difetto, quindi tutte le partite vanno annullate, la squadra ci farà un sorriso sopra e sarà ben lieta di inventare un nuovo gioco, nuove regole, con un nuovo pallone.
La metafisica non sarà affatto lieta, intravedendo in ciò la scomparsa di sé stessa, del suo motivo di esistere.

Apeiron

#33
Credo di capirti  Angelo, adesso ;) altrove ho detto che la meta-fisica è anch'essa una sorta di "zattera" (prendendo la metafora indiana), ovvero che è un qualcosa che (secondo me) avvicina  alla "verità" ma non riesce a dare l'"esperienza diretta". Secondo me però la meta-fisica, ovvero la speculazione "oltre la scienza" è qualcosa di molto utile ad avvicinarsi alla "natura delle cose": personalmente ritengo che il "materialismo" sia meno giusto del "platonismo" e quindi secondo me non tutte le meta-fisiche sono "corrette" o "non corrette", "sensate" o "insensate". La critica del linguaggio di cui parli, secondo me, non invalida la "pratica metafisica" ma semplicemente ci deve far stare attenti alle "confusioni concettuali" che (inevitabilmente) emergono. Ad esempio se io dico che "la forma esiste" e "il mattone esiste" intendo due cose diverse - tuttavia l'esistenza della forma somiglia a quella del mattone. Wittgenstein parlava di "rassomiglianze di famiglia", io preferisco il termine "analogia". Citando la Repubblica di Platone come puro esempio:
Citazione«E non capisci che invece la facoltà del vedere e dell'essere visibili ne ha bisogno?» «Come?» «Sebbene la vista
risieda negli occhi e chi la possiede cerchi di farne uso, e sebbene negli oggetti sia presente il colore, se non si aggiunge un terzo elemento, che la natura ha destinato in particolare a questo compito, sai che la vista non vedrà nulla e i coloriresteranno invisibili».
«Di quale elemento parli?», domandò.
«Di quello che tu chiami luce», risposi.
«Hai ragione», ammise.
«Non è quindi piccola l'idea che ha congiunto il senso de
lla vista e la facoltà di essere veduti con un vincolo più
prezioso di quello presente in ogni altra unione, se è vero che la luce non è spregevole».
«Ma è ben lungi dall'esserlo!», esclamò.
«E a quale dio del cielo, (20) la cui luce permette alla nostra vista di vedere e alle cose visibili di essere vedute nel modo migliore, puoi attribuire questo potere?» «A quello che indicate tu e gli altri», rispose: «è chiaro che nella tua domanda alludi al sole».
«Non è forse tale il rapporto che intercorre tra la vi
sta e questo dio?» «Quale rapporto?» «La vista non è il sole, né in
se stessa né in ciò in cui si realizza e che noi chiamiamo occhio».
«Certamente no».
«Tuttavia, a mio parere, è tra gli organi di senso il più simile al sole».
«Senza dubbio».
«E la facoltà che possiede non gli viene dispensata da quello come un fluido?» «Precisamente».
«Quindi anche il sole non è la vista, ma essendone la causa è da essa stessa veduto?» «è così», disse.
«Ora», dissi, «considera che per rampollo del bene intendo il sole, generato dal bene a sua somiglianza: l'uno ha nel mondo visibile lo stesso rapporto con la vista e le cose visibili che l'altro ha nel mondo intellegibile con l'intelletto e le realtà intellegibili».
«In che senso?», domandò. «Spiegamelo ancora». «Tu sai», ripresi, «che gli occhi, quando si rivolgono a quegli oggetti i cui colori non sono più toccati dalla luce del giorno, ma solo dai bagliori notturni, si ottundono e sembrano quasi ciechi, come se la loro vista non fosse limpida?» «Sì, lo so», rispose. «Ma quando, credo, si volgono a oggetti illuminati dal sole, vedono chiaramente e la loro vista torna di nuovo limpida».

Secondo me un dialogo di questo tipo può dirci qualcosa sulla "realtà". D'altronde è pensato come un'analogia ma il fatto che è un'analogia non significa che sia un qualcosa privo di senso (come lo pensano i positivisti).
Personalmente ritengo che la meta-fisica ci possa portare ad una comprensione migliore della realtà visto che in fin dei conti gli stessi assiomi che fondano la scienza (banalmente la nozione di "misura") sono a-priori della scienza e quindi chiedono qualcosa di oltre essa. Se vuoi è una "scelta" mia. Sinceramente credo che invece concentrarsi solo sul fatto che il linguaggio può generare confusione è qualcosa che non ci permette nemmeno di cercare di farci una "visione della realtà", ovvero ci blocca ancor prima di tentare di comprenderla.  Motivo per cui secondo me concentrarsi troppo sul linguaggio è un approccio troppo "pedante" che se perseguito fino in fondo blocca anche lo sviluppo scientifico (il fatto che ci sia un innegabile progresso della scienza significa che oggi comprendiamo "la realtà" dal punto di vista scientifico meglio che ai tempi di Galileo, per esempio - tuttavia se togli l'oggetto della comprensione questa ricerca si blocca).

Detto questo sia la mia posizione che la tua sono ad un certo punto nello spettro tra "dogmatismo" e "relativismo-nichilismo". Secondo me la tua posizione è "troppo vicina" a quella "relativista-nichilista" (pur non essendo in realtà tale), la mia posizione per te è troppo "dogmatica". Ma vorrei però far vedere che procedendo per analogie (e riconoscendo che sono analogie!) si evita di confondere la "mappa col territorio". Ergo mentre il dogmatismo dice che "la mappa è il territorio" io dico che è possibile costruire "mappe "molto simili" al territorio". Un nichilista direbbe che "ci sono solo mappe". Tu secondo me ti trovi in una "via mediana" tra la posizione nichilista e quella mia (visto che comunque riconosci un "progresso" nel Cammino). Spero di essermi fatto capire. Concentrandosi troppo sul linguaggio si rischia di rifiutare che "la forma esiste" solo perchè "esistere" non ha lo stesso significato di "esistere" nella frase "il mattone esiste". L'analisi del linguaggio mostra solo che i due verbi hanno un significato che è diverso. Ma questa diversità non significa che uno sia senza senso e l'altro no o che tra non ci sia una somiglianza tra i due singificati di "esistere". La filosofia contemporanea invece mi sembra che spesso "rifiuti" frasi come "la forma esiste" senza considerare le possibile alternative del rifiuto stesso.

Comunque facendo un'analogia col taoismo, modificando un famoso verso del Daodejing: "la via che può essere detta [=ovvero un'immagine della realtà] non è l'eterna via (=la realtà)". Secondo me è vera (nel senso che al massimo possiamo avere una ottima "immagine" della realtà). Secondo te, forse, pur ammettendo l'esistenza della realtà (a differenza del nichilismo) tale frase dice che per quanto raffinate le nostre immagini sono esse non saranno mai veramente "simili" alla realtà.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

In quest'ultimo messaggio ti sei riferito alla realtà come a qualcosa di cui sia scontata l'esistenza. L'unico riferimento che hai fatto ad una sua messa in questione è stato nel riferirti al nichilista, che però hai descritto come un nichilista dogmatico. Probabilmente in qualche frase anch'io mi sono riferito alla realtà come a qualcosa di esistente e questo potrebbe aver portato a fraintendermi.

Quando io parlo, effettivamente mi muovo, mi alterno, tra considerazioni ultime e considerazioni pratiche. Da un punto di vista di considerazioni ultime, cioè radicalmente critiche, mi sento obbligato ad essere agnostico, cioè a ritenere che non sia possibile sapere se la realtà esiste come qualcosa di esterno a noi, che siamo i soggetti. Altre volte invece parlo da un punto di vista pratico, cioè riferito alle nostre necessità di tutti i giorni, al nostro percepire psicologico; da questo punto di vista do per scontato che la realtà esista perché questa mi sembra la percezione psicologica più spontanea che ne abbiamo.

Ora, qui siamo in un discorso critico sulla metafisica e quindi non posso muovermi con discorsi sul pratico, sulle nostre sensazione psicologiche. Di conseguenza mi sento in dovere di avvisare costantemente del fatto che per me non è affatto possibile pervenire a conoscenza, o comprensione, della realtà supposta come esistente esternamente a noi. Ciò viene a corrispondere a ciò che tu stesso hai ammesso, cioè che non hai possibilità alcuna di dimostrarmi che un cane non è un gatto. Se ammetti di non potermi in alcun modo dimostrare che un cane non è un gatto, come fai ora a parlare di realtà e di verità, dandone per scontata l'esistenza?

Apeiron

#35
Citazione di: Angelo Cannata il 30 Dicembre 2017, 15:39:14 PMDi conseguenza mi sento in dovere di avvisare costantemente del fatto che per me non è affatto possibile pervenire a conoscenza, o comprensione, della realtà supposta come esistente esternamente a noi. Ciò viene a corrispondere a ciò che tu stesso hai ammesso, cioè che non hai possibilità alcuna di dimostrarmi che un cane non è un gatto. Se ammetti di non potermi in alcun modo dimostrare che un cane non è un gatto, come fai ora a parlare di realtà e di verità, dandone per scontata l'esistenza?

O c'è una realtà che esiste indipendentemente da noi o non c'è. Personalmente non posso nemmeno dimostrarti che il solipsismo sia falso, però è molto ragionevole che lo sia. Allo stesso modo posso concordare con te che molta di quella che noi crediamo essere "realtà" è semplicemente una costruzione della nostra mente ("nostra" in senso individuale e sociale), però quello che dico io è che dietro a queste convenzioni c'è una "realtà" che non dipende dalla nostra "creazione mentale". Nello Zhuang-zi (capitolo 2)* un personaggio afferma che molti uomini vivono in una sorta di sogno dove uno è regnante e l'altro mandriano e sono così certi che questa distinzione sia "vera". Ma appunto il personaggio ci dice che è semplicemente un sogno, non ha attinenza con la "realtà" e che quindi dovrebbe essere una cosa abbandonata (questo ricorda un passo del Daodejing: "chi pratica lo studio ogni giorno aggiunge. Chi pratica il Dao ogni giorno toglie" - dove credo che questa frase voglia dire che l'eccesso di studio finisce per "attaccare" dei significati alle cose che esistono solo nella nostra mente. In fin dei conti uno può esaminare quanto vuole un sogno ma finché non si accorge di essere in un sogno tutta quella conoscenza che ottiene dalla sua analisi del sogno non riuscirà a "risvegliarlo" e lo tiene intrappolato). Il bello di questo tipo di tradizioni come buddhismo, vedanta, platonismo, daoismo ecc è che la domanda che ti viene posta è "questa tua convinzione sulla realtà è qualcosa di vero o semplicemente è qualcosa che tu ti sei convinto che sia vero?" - dunque la "pratica" dunque serve proprio a riconoscere le convenzioni come convenzioni, le costruzioni mentali come costruzioni mentali in quanto si capisce che la realtà è "vuota" da tali costruzioni. Il punto è che se io tolgo la realtà non rimangono altro che appunto queste illusioni, queste costruzioni che tendono ad imprigionare la mente. Dunque se non c'è la realtà su cui stabilire se le nostre costruzioni sono mere costruzioni o meno allora non c'è alcun modo per distinguere la realtà dall'apparenza, la vera comprensione dalla falsa comprensione. Ognuno dice la sua e vale quanto ciò che dice un altro, non c'è modo di stabilire chi è saggio e chi non lo è ecc. Vedi negare la realtà e la verità è piuttosto scomodo e, a mio giudizio, anche pericoloso. Ovviamente bisogna avere in un certo senso un minimo di "fede" che l'illusione possa essere riconosciuta come illusioni e la realtà come realtà, altrimenti ogni possibile progresso dal nostro stato di "ignoranza" non è possibile. Anzi è appunto la presa di coscienza che siamo in questo stato a motivare la ricerca scientifica e filosofica - c'è un'assunzione di fondo, ovvero che l'illusione e le distorsioni che ci sono (e spesso ci auto-creiamo) e che ci intrappolano possano essere "soppiantate" da una conoscenza autentica e vera. Sinceramente se tolgo questa "fede" posso anche abbandonare la ricerca scientifica e filosofica e fare una vita in cui non mi pongo alcun problema e godermi le mie illusioni. Tuttavia siccome sono convinto che noi siamo in uno stato di "ignoranza" ho motivazione per ricercare, teorizzare, pensare ecc.  https://www.youtube.com/watch?v=r-jI0zzYgIE è un link ad un'intervista con David Bohm, personaggio controverso nella fisica che ammiro molto anche se non condivido tutte le sue idee. In lui vedo comunque una ricerca della libertà dalle illusioni molto "sentita". Se appunto la "realtà è ciò che creo io" (Nietzsche, Protagora ecc), è un "costrutto linguistico o sociale" (come pensano molti contemporanei) allora appunto rimango sempre imprigionato, non uscirò mai dal sogno e non potrò mai, per così dire svegliarmi. Se uno non riescie ad accettare quel piccolo "salto di fede" nel ritenere che ci siano la realtà e le illusioni allora deve spiegarmi perchè prima di attraversare la strada guarda e perchè non ha paura di morire ogni secondo della sua vita. Ci sono piccoli atti di "fede" tutti i giorni che spesso ci motivano a cercare, indagare, camminare... non è vero che la "fede" è sempre un qualcosa che contrasta il cammino conoscitivo e spirituale come pensava per esempio Nietzsche. Anzi a volte senza di essa non si inizia nemmeno a camminare.



*Citazione Zhuangzi:
Citazione"...Colui che sogna di bere vino, la mattina dopo potrebbe piangere. Colui che sogna di piangere potrebbe la mattina dopo cacciare. Quando sogna potrebbe non rendersi conto di sognare e nel sogno potrebbe addirittura sognare di interpretare un sogno. Solo dopo, quando si sveglia, si accorge che era un sogno. E un giorno ci potrebbe essere un grande risveglio in cui ci si accorgerà che tutto è un sogno. Ciononostante gli "stolti" sono convinti di essere svegli e assumono di comprendere le cose, chiamano questo regnante e quello mandriano - quanto sono certi!..."... [altro personaggio, che lascio scritto solo per la sua bellezza  ;D ]: "dimentica le distinzioni, dimentica gli anni, salta nell'infinito e rendilo la tua casa" [traduzione mia da https://terebess.hu/english/chuangtzu.html#2]

Ovviamente uno si deve sentire imprigionato/in uno stato di ignoranza per apprezzare questo punto di vista. Se uno non si sente "incompleto" in questo senso allora difficilmente potrà apprezzare queste idee. "La filosofia nasce dalla meraviglia" (Platone)  e quindi dal riconoscere che siamo in uno stato di ignoranza. Un nichilista non ha alcun motivo per riconoscere ciò.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Parli della consapevolezza di sognare come una prigione e, viceversa, del riconoscimento della realtà come risveglio. A me sembra evidente che le cose stiano al contrario, per un motivo: chi, come me, sospetta che tutto sia un sogno, sospetta, non ne ha la certezza, visto che neanche sappiamo cosa significhi la parola "sogno". Perciò, ritenere che ciò che sperimentiamo sia tutto un sogno non costituisce una prigione, ma un continuo lavoro di critica, critica anche nei confronti del sognare stesso. La stessa cosa non mi sembra si possa dire di chi pensa o spera che si giunga all'accertamento di una realtà: infatti tale realtà, una volta accertata, non fa altro che allontanare dalla mente il bisogno di cercare ancora, di non fidarsi, di sospettare.
Dunque io vedo questa situazione: chi crede nella realtà si fida e di conseguenza è meno indotto a sottoporla a critica. Chi sospetta che si tratti di sogno non si fida di niente e sottopone a critica tutto, in continuazione, incluso il proprio stesso criticare.
Se le cose stanno così, mi sembra, come ho detto, che le cose stiano al contrario: chi crede nell'esistenza di una realtà si addormenta; chi sospetta che si tratti di un sogno vigila in continuazione.

Riguardo a ciò che hai detto sull'essere scomodo e pericoloso in riferimento al sospettare (tu hai scritto negare: questo è un malinteso, perché negare significa pretendere di avere una certezza), mi richiama di nuovo la barzelletta dei carabinieri: siccome è scomodo e pericoloso cercare le chiavi nella strada buia, in cui le abbiamo sentite cadere a terra, preferiamo cercarle in un'altra strada, illuminata.

Hai esordito con un'alternativa drastica: la realtà c'è o non c'è. Cioè, secondo te esistono solo queste due alternative che tu riesci ad immaginare, e siccome non riesci ad immaginarne altre, allora non possono esisterne altre?

Posso spiegarti perché guardo prima di attraversare la strada. Guardo perché ricevo da essa violenza, perché essa mi costringe a guardare. Dunque per te va bene così, va bene riconoscere come realtà autentica quella che riesce ad imporsi con più violenza? E chi mi dice che questa violenza non sia un incubo?

Apeiron

Citazione di: Angelo Cannata il 31 Dicembre 2017, 01:35:19 AMHai esordito con un'alternativa drastica: la realtà c'è o non c'è. Cioè, secondo te esistono solo queste due alternative che tu riesci ad immaginare, e siccome non riesci ad immaginarne altre, allora non possono esisterne altre? Posso spiegarti perché guardo prima di attraversare la strada. Guardo perché ricevo da essa violenza, perché essa mi costringe a guardare. Dunque per te va bene così, va bene riconoscere come realtà autentica quella che riesce ad imporsi con più violenza? E chi mi dice che questa violenza non sia un incubo?

Prova a dirmene altre alternative [mai affermato che tu sei "nichilista"]  :) la realtà/verità non necessariamente si impone con la violenza (forse non hai inteso quello che volevo dire con l'esempio, chiarisco dopo), non so di cosa tu stia parlando. Per quanto mi riguarda non lo fa.  Probabilmente la parola "realtà" rischia di farci andare fuori strada. Mi sento ignorante* e imprigionato. Questo è sufficiente per dirmi che c'è qualcosa oltre le convenzioni. Mi basta questo. Se per te già questo è dire troppo, "buon per te"  ;)  per me semplicemente è insufficiente, è qualcosa che mi fa sentire ancora più imprigionato. Ammetto che potrebbe essere un "malfunzionamento psicologico" ma grazie a questo "malfunzionamento psicologico" in fin dei conti abbiamo avuto Platone, Buddha, Einstein, Bohm (potrei citarti una miriade di esempi) ecc * o stiamo "sognando" o non stiamo "sognando". O distorciamo la realtà o non la distorciamo. Credo che anche tu non neghi che il moto dei gravi oggi è "più conosciuto" dei tempi di Aristotele e Platone. Personalmente ho la "convinzione" che sono in uno stato di ignoranza (un testo cristiano, mai letto, si intitola "la nuvola della non-conoscenza"... ). Altri invece sono "convinti" dell'esistenza del Dio cristiano ecc.

Ma è anche vero che potremo usare i catuskoti (la logica a quattro valori dell'India), ma questa non ha nulla a che fare con il fatto che ci sia o meno una verità (visto che in genere si prende come "vero" uno dei quattro valori lagici tra "p", "non p", "p e non p", "non p e non non p", dove p è una proposizione). Riguardo alla strada... (esempio molto scemo...) volendo tu potresti "sospendere il giudizio" quando un tizio ti chiede: "se attraverso e una macchina mi viene addosso mi faccio male?" o potresti dire "molto probabilmente sì". Sinceramente però non toglie che il tizio o si fa male nell'attraversamento o non si fa male. Ergo se lui si fida ciecamente della tua risposta e tu rispondi "forse" potrebbe "sfidare la sorte". Se per "violenza" intendevi semplicemente che la "realtà" ci costringe a "venire a patti con lei" allora direi che la risposta saggia in questo caso è ammettere questa "violenza". Questo è un "pragmatismo", ovvero un richiamo alla concretezza. Senza la consapevolezza della concretezza, beh la vita è impossibile. Comunque dire di "fare un riassunto" delle "opinioni":

1) opinione "dogmatica". Si accettano le convenzioni e le costruzioni mentali come se fossero "vere" (ovvero aderenti alla "realtà") senza porsi alcun dubbio - nella frase dello Zhuangzi essere certi che "regnante", "mandriano" ecc siano più di semplici designazioni perchè la tradizione dice così. Molti (credo) che non pensano vivono, anche inconsapevolmente, in questo stato.

2) opinione "nichilistica". Si accettano che le convenzioni siano convenzioni, che le costruzioni mentali sono costruzioni mentali ecc ma non si ammette l'esistenza della verità. Ergo come per Protagora "l'uomo è la misura di tutte le cose", ovvero non è possibile fare una gerarchia tra le opinioni e (visto che empiricamente contrastano) non ci sono verità universali. Questa è una prospettiva pericolosa... per capire quello che intendo si veda il Joker di Batman.

3) opinione credo tua (chiamiamola "scettica"). Si "sospende il giudizio" sull'esistenza di una verità oltre le convinzioni. Non si può dire se l'uomo è o meno la misura di tutte le cose, non si può dire se è o non è possibile fare una gerarchia tra le opinioni e non si può dire se esistono o non esistono verità universali. Su ogni questione di questo tipo bisogna sospendere il giudizio. C'è una sottile, ma cruciale, distinzione con quella "nichilista" che accetta senza problemi le negazioni di cui sopra.

4) Opinione dogmatica "seria". Si dice di conoscere una verità dietro le convenzioni, che l'uomo non è la misura di tutte le cose, si fa una gerarchia delle opinioni e si conosce la verità universali dopo aver fatto un percorso cognitivo ecc. La differenza con la "1" è che qui c'è una ricerca magari anche molto "sentita" (Buddha, S. Agostino, Zhuangzi, Platone (?), i saggi delle Upanishads, Spinoza "io non presumo di aver trovato la filosofia migliore ma di intendere quella vera"...)

5) la mia posizione. Si riconosce che c'è una verità dietro le convenzioni, che l'uomo non è la misura di tutte le cose, che è possibile fare una gerarchia delle opinioni e si riconosce la presenza di verità universali ma non si ammette che le si conosce (per ora). C'è una sottile differenza con la "4". (Socrate, Platone (?),...)

Personalmente rispetto la "3" e la "4" ma preferisco la "5". Ma il mio problema con la "3" è che (come nell'esempio della strada) a volte "sospendere il giudizio" non è una posizione sempre valida e anzi che la "realtà esterna" con il suo "condizionamento" ci "costringe" a dover prendere delle decisioni e in ciò c'è sia un aspetto negativo (la "violenza" di cui parli anche in un tuo video che non ricordo il titolo  ;) ) ma anche uno positivo nel senso che se non ci fosse questa "costrizione" saremo completamente isolati, le relazioni non sarebbero possibili ecc. Posso rispettare comunque la tua opinione che in moltissimi casi è molto saggia però non la condivido perchè appunto già il fatto che tu ammetti che siamo esposti a questa "violenza" ci fa concludere che appunto la posizione nichilista è "ragionevolissimamente" esclusa. Se poi per te è troppo passare alla "5", scelta rispettabile tua  ;) secondo me un rifiuto della "2" automaticamente ci fa passare alla "5" ma capisco che per alcuni è "dire troppo"!
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Se cerchiamo del cibo per saziarci e, una volta ottenuto, lo gettiamo via perché stiamo godendo troppo nel cercarlo è perfettamente assurdo, in quanto la fame resta.
Se cerchiamo la verità del reale e , una volta ottenuta, la gettiamo via perché ciò ci impedirebbe di continuare a cercare è parimenti assurdo.
Si cerca per trovare ( def.cercare: operare per trovare qualcosa o qualcuno). Altrimenti stiamo facendo un'altra cosa ( Passatempo? Sollazzo? Ecc...).
Se sono consapevole di vivere nelle illusioni, personalmente e socialmente create, è implicito che c'è qualcosa in me che non vive nelle illusioni personalmente e socialmente create, cioè la consapevolezza stessa di vivere nelle illusioni. E già disponiamo di qualcosa di non soggettivo che forma la base della nostra possibilità di cercare con profitto ciò che non è illusorio.
Se invece non abbiamo alcuna fede (fiducia) che la nostra consapevolezza sia retta nel giudicare come illusorio ciò che è motivo di illusione ci autodefiniamo incapaci di alcuna conoscenza veritiera. Ma allora dobbiamo essere coerenti fino in fondo con questo convincimento e rinunciare a giudicare come rette anche le scoperte scientifiche, mediche, ecc.
Qui si manifesta il potente 'bisogno psicologico di libertà' di un individuo rispetto ad un altro. Alcuni ritengono che , se fosse possibile trovare una qualsiasi verità, ciò causerebbe una mortificazione della propria libertà, sostenendo quindi che è preferibile vivere nelle illusioni piuttosto che doversi adeguare ad una verità. Non accorgendosi dell'assurdità di questa posizione, in quanto è proprio a motivo della propria illusione che preferiscono continuare a brancolare nelle illusioni. E' l'illusione che preferisce , ovviamente, che non ci siano verità che la disperdono, come nebbia mattutina sotto il calore del sole.
Perché preferiamo vivere nelle illusioni? Perché ciò alimenta, fornisce combustibile, al nostro ego, lo gratifica, lo fa sentire importante, financo indispensabile. Non siamo noi che realmente vogliamo vivere nelle illusioni, ma è quella struttura illusoria che è il nostro ego che ne ha bisogno, perchè ha paura, paura di essere riconosciuto dalla consapevolezza come illusorio.
Se non c'è la 'realtà' non si può parlare nemmeno di illusione. Infatti l'esistenza di qualcosa che definiamo come illusorio può esistere solo se contrapponiamo il concetto di realtà. In assenza del concetto di realtà l'illusione non è più illusione, in quanto, in questo caso, sarebbe la realtà (def.di illusione: percezione soggettiva che non corrisponde alla realtà oggettiva). Senza la realtà oggettiva non esiste nemmeno l'illusione (soggettiva o socialmente condivisa).
E' proprio dalla consapevolezza di essere circondati da illusioni che nasce la volontà di cercare qualcosa che sia oggettivo e non illusorio. L'obiezione che sono le illusioni il motore del nostro cercare è infondata, in quanto ciò che può essere sperimentato come 'reale' non è qualcosa di statico e immutabile, bensì fonte continua di nuovo approfondimento e ricerca.
La posizione che relativizza tutto è molto funzionale al bisogno continuo di deleggittimare il pensiero altrui, contrapponendo il proprio che assolutizza l'impossibilità di una ricerca veritiera.
E' molto comodo dire:"Qualunque cosa troverai è relativa alla tua illusione e non sono tenuto ad accettarla, preferisco tenermi la mia illusione che sia impossibile qualunque ricerca veritiera".
Già questa frase mostra chi/cosa c'è all'opera dietro questo potente bisogno di relativizzare ogni cosa ... :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Angelo Cannata

#39
Penso che sia utile evidenziare una questione nel processo della ricerca.

Primo punto della questione: in una ricerca non ha senso stabilire in anticipo quali dovranno essere i risultati della ricerca: stabilirlo in anticipo significherebbe precludersi la possibilità di conoscere altri risultati inaspettati.
Faccio un esempio.
Supponiamo che io voglia trovare l'assassino responsabile di un delitto. Se io stabilisco in anticipo che l'assassino dovrà essere necessariamente, indiscutibilmente, un essere umano, non avrò fatto altro che impedire a me stesso di scoprire, eventualmente, che l'assassino potrebbe anche essere un leone fuggito da uno zoo. Se ho stabilito che dev'essere indiscutibilmente un essere umano, ne consegue che, anche se vedrò nella vittima graffi di artigli, la mia mente andrà a cercarne le cause in qualche maniaco scappato dal manicomio ed escluderà con determinazione, ad esempio, l'ipotesi di cercare informazioni su eventuali animali fuggiti dallo zoo.
Mi sembra un punto chiaro: se io stabilisco in anticipo che la verità esiste, impedirò a me stesso di esaminare, esplorare tutte le altre possibilità provocate dall'eventualità di una verità non esistente, o comunque differente dall'esistente.
Trovo logico, quando si vogliano compiere ricerche serie, fruttuose, aperte, espandere quanto più possibile il ventaglio delle possibilità ammesse, perfino lottando contro la nostra stessa mente, la quale può anche restringere il campo delle aspettative, e di conseguenze porre limiti al campo di ricerca e ai metodi da usare, senza che ce ne accorgiamo.
Apeiron, questo coinvolge anche il tuo porre alternative. Vorrei farti notare che la richiesta che hai espresso in partenza non fa altro che continuare a voler restringere il campo alle sole alternative concepibili: "Prova a dirmene altre alternative". Ma l'errore è proprio qui: per includere nelle possibilità di ricerca tutte le alternative possibili, bisogna includere anche quelle non immaginabili. Tu invece, con la tua richiesta, stai presupponendo che, se non sarò capace di dirti altre alternative, avrai dimostrato che non ce ne sono. Ma non può essere che ci siano altre alternative che né tu né io riusciamo a immaginare? A che serve dunque chiedermi di dire delle altre alternative?
Questo è il primo punto.

Secondo punto della questione. Un'apertura della ricerca troppo vasta renderebbe impossibile la ricerca perché siamo umani e non ci è possibile esplorare contemporaneamente tutte le direzioni. Qualche limite bisogna pur porlo. Se Sherlock Holmes vuole scoprire l'assassino, non può includere nella ricerca tutte le possibilità immaginabili e inimmaginabili: si perderebbe. Dovrà necessariamente restringere il campo su cui indagare. Il problema è che questa necessità umana non dovrà mai essere confusa con un effettivo restringimento reale del campo di ricerca. Cioè, nel momento in cui l'investigatore, a causa dei propri limiti umani, si vedrà costretto a privilegiare una direzione della ricerca, per esempio concentrando la ricerca dell'assassino nell'ambiente della mafia, egli non dovrà scambiare necessità con realtà: l'investigatore non dovrà dimenticare che questo restringimento di campo è solo una necessità dovuta ai limiti umani. Questo significa dire: "Per ora concentriamo le indagini su questa direzione; ma non dimentichiamo che le stiamo concentrando solo a causa dei nostri limiti; rimane comunque ammessa qualsiasi altra possibilità".
Questo è esattamente quello che fa la scienza: essa decide di restringere il campo a ciò che si può considerare reale, sperimentabile, misurabile, ma lo fa consapevole che si tratta di un suo limite. Ciò spiega come mai la scienza non si occupa di negare l'esistenza di Dio: lo fa perché Dio fa parte di campi di ricerca che la scienza ha escluso in partenza dai suoi interessi. Poi viene lo scienziato che non ha capito niente e si mette a dire che Dio non esiste perché la scienza non ne trova prove. Ma questo è uno scienziato che non ha capito che restringere il campo della ricerca non significa stabilire che il ricercabile consiste effettivamente solo nel campo prestabilito.
Al contrario dell'investigatore e della scienza, la filosofia si sforza di non escludere assolutamente alcun campo della ricerca. Ciò renderebbe teoricamente impossibile il praticarla, a causa dell'eccessiva vastità, ma anche in questo caso è sufficiente ricordarsi che ogni restringimento di campo non dovrà essere scambiato con un restringimento della realtà: se io decido di guardare in una sola direzione allo scopo di potermi concentrare meglio, ciò non significa che tutte le altre direzioni in cui non sto guardando non esistono. Perciò non ha senso porre alternative limitanti, ingabbianti, tanto meno l'alternativa unica, monolitica, che sostiene che la realtà esiste.
Fine del secondo punto della questione.

Nella nostra discussione ciò significa che non ha senso stabilire in anticipo che la realtà esiste o non esiste: se si vuole ricercare senza pregiudizi, bisogna escludere qualsiasi limitazione del campo della ricerca. In questo punto trovo situato quello che mi sembra un fraintendimento di Sariputra: egli parla come se il relativista avesse stabilito che tutto è illusione e dunque avesse stabilito la certezza dell'illusione. Non è così, Sariputra. Il relativista non è affatto certo del trattarsi di illusione. Il relativista critica tutto, critica anche il proprio stesso criticare, quindi le obiezioni che hai posto presuppongono un fraintendimento di come la pensa il relativista.

Ciò potrebbe sembrare corrispondente alla posizione 3) espressa da Apeiron. In realtà, Apeiron, tutte le posizioni che hai indicato hanno a mio parere un difetto: sono posizioni, cioè sono statiche, fisse, monolitiche, predefinite. Quella del relativista, per come la concepisco io, non è una posizione, poiché il relativista è critico anche verso sé stesso, egli non è per niente contento del proprio modo di pensare. Questo è ricerca. Ricercare non è una posizione, perché il ricercare critica anche sé stesso, non si adagia su niente, non si culla su alcun modo di procedere stabilito.

Poi, Apeiron, hai scritto che non vedi tutta questa violenza nella verità. Se per te violenza significa soltanto dare un pugno ad una persona, è chiaro che la verità non fa sempre questo. Io uso il termine violenza in senso esteso: violenza significa impedirmi di vedere le cose in maniera diversa. In questo senso la verità scoraggia un artista che voglia disegnare un albero in maniera personalizzata, e difatti la gente massificata scoraggia la comprensione di artisti come Picasso. Un artista come Picasso non può permettersi di fare l'artista mentre scende le scale, deve guardare dove sta mettendo i piedi. La verità, la realtà, gli vieta in quel momento di essere artista. Questa io la chiamo violenza. La violenza della verità costringe l'artista a poter esprimere le sue emozioni solo in certi momenti e a certe condizioni.

Poi, Apeiron, hai di nuovo fatto riferimento alla pericolosità, nel tuo punto 2).
Qui dobbiamo chiarire una cosa. Se tu ti accorgi che dire che 2+2=4 crea dei pericoli, che fai, preferisci pensare che quella non è verità, visto che è pericolosa? O meglio, se ti accorgi che la radice quadrata di un numero negativo mette in crisi la matematica e ciò significa creare disorientamento e rivolte nella popolazione, che fai, stabilisci che quella crisi non va ammessa, non è verità? Voglio dire, qui dobbiamo stabilire se vogliamo parlare di verità oppure di salvaguardia dai pericoli. Una ricerca seria, leale, corretta, totale della verità non può scendere a compromessi con la paura. Quindi che senso ha tirare in ballo la pericolosità di questa o quella posizione?

Sariputra

cit.da Apeiron:
5) la mia posizione. Si riconosce che c'è una verità dietro le convenzioni, che l'uomo non è la misura di tutte le cose, che è possibile fare una gerarchia delle opinioni e si riconosce la presenza di verità universali ma non si ammette che le si conosce (per ora). C'è una sottile differenza con la "4". (Socrate, Platone (?),...)

Sono su questa linea con una differenza: ritengo che la famosa "verità" sia già stata innumerevoli volte realizzata. Questo perchè ritengo la "verità"  qualcosa che si realizza e non una formula verbale contenuta in qualche forma di linguaggio. Il fatto che senta di non averla pienamente realizzata mi spinge continuamente alla ricerca e al mettermi in discussione.
Sulla strada del bosco
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Trattiene rondini nei capelli.

Sariputra

#41
cit. A.Cannata:
Nella nostra discussione ciò significa che non ha senso stabilire in anticipo che la realtà esiste o non esiste: se si vuole ricercare senza pregiudizi, bisogna escludere qualsiasi limitazione del campo della ricerca. In questo punto trovo situato quello che mi sembra un fraintendimento di Sariputra: egli parla come se il relativista avesse stabilito che tutto è illusione e dunque avesse stabilito la certezza dell'illusione. Non è così, Sariputra. Il relativista non è affatto certo del trattarsi di illusione. Il relativista critica tutto, critica anche il proprio stesso criticare, quindi le obiezioni che hai posto presuppongono un fraintendimento di come la pensa il relativista.

Ciò potrebbe sembrare corrispondente alla posizione 3) espressa da Apeiron. In realtà, Apeiron, tutte le posizioni che hai indicato hanno a mio parere un difetto: sono posizioni, cioè sono statiche, fisse, monolitiche, predefinite. Quella del relativista, per come la concepisco io, non è una posizione, poiché il relativista è critico anche verso sé stesso, egli non è per niente contento del proprio modo di pensare. Questo è ricerca. Ricercare non è una posizione, perché il ricercare critica anche sé stesso, non si adagia su niente, non si culla su alcun modo di procedere stabilito.


Il commento sopra in riguardo alla tesi di Apeiron risponde anche a questa tua obiezione.
Proprio per il fatto che non si è realizzata la "verità" si va continuamente alla ricerca e si mette tutto in discussione. Questo presuppone che non si è affatto soddisfatti del proprio modo di pensare e dei risultati che questo modo ha ottenuto. Altrimenti, ovviamente, non ci sarebbe più alcuna ricerca. Nella ricerca servono strumenti e uno di questi ( ma non è l'unico) è la logica.
Dire che "non ci deve esser alcun modo stabilito di procedere" sembra come voler dire che sia possibile pensare senza il pensiero. E' totalmente assurdo. Come procedi se non pensando di procedere? E si "procede" se non c'è nulla da raggiungere?  Al massimo si può dire che "ci si muove" ( con il concreto rischio di continuare a girare in tondo...).
Se ""Il relativista critica tutto, critica anche il proprio stesso criticare,", dovrebbe considerare di mettere in discussione anche la bontà del proprio relativismo, non trovi? Altrimenti cade in quello che critica nel pensiero altrui, cade cioè nella fede nel relativismo.
Sulla strada del bosco
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Angelo Cannata

#42
Mi sembra di averlo spiegato: si può adottare qualsiasi provvedimento, purché non si prendano le necessità nostre per necessità della realtà, limiti nostri per limiti della realtà.
Ho detto che, a causa dei nostri limiti umani, si può restringere il campo di ricerca, ma facendo attenzione che questo restringimento non è una caratteristica appartenente alla realtà, ma una limitazione introdotta da noi per andare incontro ai nostri limiti umani.
Se per guardare il sole mi metto degli occhiali scuri, non devo dimenticare che non è il sole ad essere scuro, ma sono io che a causa dei miei limiti ho deciso di servirmi di una deformazione del vedere, per poter vedere lo stesso qualcosa.
Se decidiamo di attuare le nostre ricerche servendoci di una certa logica (= occhiali scuri), non ha senso poi concludere che il mondo ubbidisce a questa logica (= sostenere che il sole è scuro). Sostenere che è assurdo pensare senza il pensiero significa attribuire alla realtà il colore degli occhiali che abbiamo indossato. Pensare senza il pensiero non è assurdo nella realtà: usare il pensiero è solo un venire incontro a certi nostri limiti umani.
La tua domanda "Come procedi se non pensando di procedere?" è come la prima che aveva posto Apeiron nel suo messaggio, quando mi ha chiesto di indicargli altre alternative: presuppone che se io non saprò indicarti alternative, avrai dimostrato che non ce ne sono. Faccio anche a te quindi la stessa osservazione: non può essere che esistano altri modi di procedere che né tu né io sappiamo immaginare? Che senso ha quindi chiedermi come procederei diversamente? Il fatto che senza occhiali scuri non riusciamo a guardare il sole non significa che non esistano altri metodi per guardarlo senza occhiali scuri. Adesso mi chiederai di indicarteli?

Angelo Cannata

#43
Citazione di: Sariputra il 31 Dicembre 2017, 14:14:39 PMSe ""Il relativista critica tutto, critica anche il proprio stesso criticare,", dovrebbe considerare di mettere in discussione anche la bontà del proprio relativismo, non trovi? Altrimenti cade in quello che critica nel pensiero altrui, cade cioè nella fede nel relativismo.

È ovvio che il relativista non è affatto convinto della bontà del proprio relativismo. Non è affatto necessario che un metodo, per essere seguito, debba essere riconosciuto come buono. Per esempio, basta che venga valutato come il meno peggio, quindi sempre pronti a criticarlo, modificarlo o anche abbandonarlo.

Sariputra

#44
Citazione di: Angelo Cannata il 31 Dicembre 2017, 14:31:24 PMMi sembra di averlo spiegato: si può adottare qualsiasi provvedimento, purché non si prendano le necessità nostre per necessità della realtà, limiti nostri per limiti della realtà. Ho detto che, a causa dei nostri limiti umani, si può restringere il campo di ricerca, ma facendo attenzione che questo restringimento non è una caratteristica appartenente alla realtà, ma una limitazione introdotta da noi per andare incontro ai nostri limiti umani. Se per guardare il sole mi metto degli occhiali scuri, non devo dimenticare che non è il sole ad essere scuro, ma sono io che a causa dei miei limiti ho deciso di servirmi di una deformazione del vedere, per poter vedere lo stesso qualcosa. Se decidiamo di attuare le nostre ricerche servendoci di una certa logica (= occhiali scuri), non ha senso poi concludere che il mondo ubbidisce a questa logica (= sostenere che il sole è scuro). Sostenere che è assurdo pensare senza il pensiero significa attribuire alla realtà il colore degli occhiali che abbiamo indossato. Pensare senza il pensiero non è assurdo nella realtà: usare il pensiero è solo un venire incontro a certi nostri limiti umani. La tua domanda "Come procedi se non pensando di procedere?" è come la prima che aveva posto Apeiron nel suo messaggio, quando mi ha chiesto di indicargli altre alternative: presuppone che se io non saprò indicarti alternative, avrai dimostrato che non ce ne sono. Faccio anche a te quindi la stessa osservazione: non può essere che esistano altri modi di procedere che né tu né io sappiamo immaginare? Che senso ha quindi chiedermi come procederei diversamente? Il fatto che senza occhiali scuri non riusciamo a guardare il sole non significa che non esistano altri metodi per guardarlo senza occhiali scuri. Adesso mi chiederai di indicarteli?

Non ci sono altri modi di procedere col pensiero, se non usando il pensiero. Se invece intendi altri modi che riguardano, per esempio, il sentimento, l'emozione, la meditazione, ecc. allora si può senz'altro affermare che l'uomo ha molti mezzi che ( meglio se combinati abilmente)  influiscono e determinano il suo 'procedere'. Ma allora usciamo dal contesto strettamente filosofico ed entriamo in altri ambiti. Ambiti in cui la definizione di relativismo perde il suo significato, direi.
Nella prima parte del post non sembri lontano da quello che affermo, quando sostieni che "questo restringimento non è una caratteristica appartenente alla realtà, ma una limitazione introdotta da noi per andare incontro ai nostri limiti umani". Ed è precisamente questo il punto, solo che l'assunzione di questo restringimento non è delimitata per sempre e questo induce a metterne in discussione i limiti. Ossia "non accontentarsi", ritenendo a priori che sia impossibile andare oltre i confini che noi stessi ci siamo dati ( anche perché giova ricordare che il concetto di limite è sempre determinato dal pensiero stesso...).
Se metto degli occhiali scuri per poter guardare il sole, sono consapevole di molte cose ( che c'è un sole , che non lo posso guardare direttamente, che ho bisogno di qualcosa, che sono consapevole del tutto...e questa non è conoscenza 'reale'? Se esistono altri modi di guardarlo lo scopriremo investigando noi stessi e il sole...chiaro che un alieno magari lo guarderà in altro modo... ;D ).

È ovvio che il relativista non è affatto convinto della bontà del proprio relativismo. Non è affatto necessario che un metodo, per essere seguito, debba essere riconosciuto come buono. Per esempio, basta che venga valutato come il meno peggio, quindi sempre pronti a criticarlo, modificarlo o anche abbandonarlo.

Bene...son contento. :)
Buon Anno Angelo
Sulla strada del bosco
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