Microstorie e fine delle ostilità

Aperto da Jacopus, 14 Ottobre 2024, 08:25:07 AM

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Jacopus

Mi sono casualmente imbattuto in questa frase di un letterato americano del XIX secolo, famoso soprattutto per aver tradotto per primo molte opere italiane in inglese, Henry Longfellow. La frase è questa:
"Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, nella vita di ciascuno troveremmo dolori e sofferenze tali da neutralizzare ogni forma di ostilità".

Trovo questa affermazione molto vera e mi conferma come non esista di fatto malvagità umana originaria, ma una malvagità che si articola attraverso il trauma o la strutturazione della società. Questo principio potrebbe essere usato sia nei rapporti fra singoli che fra collettività. In casi rari, come in Sudafrica (commissione per la verità e la riconciliazione), questa affermazione è stata applicata, con risultati straordinari. Epurata dai suoi aspetti fideistici, è la stessa logica del messaggio evangelico, di molte culture orientali e di molte correnti filosofiche.
Eppure la maggioranza dei comportamenti umani tende a polarizzare la frattura amico/nemico e la relativa violenza.
Qual'è la ragione di questa distanza fra un modello apparentemente facile da raggiungere e che ci permetterebbe di vivere in pace e la desolante realtà che ci rende ognuno nemico ognuno dell'altro, qui in questo forum, nella vita quotidiana, nei rapporti fra Stati e culture? 
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

daniele22

Citazione di: Jacopus il 14 Ottobre 2024, 08:25:07 AMMi sono casualmente imbattuto in questa frase di un letterato americano del XIX secolo, famoso soprattutto per aver tradotto per primo molte opere italiane in inglese, Henry Longfellow. La frase è questa:
"Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, nella vita di ciascuno troveremmo dolori e sofferenze tali da neutralizzare ogni forma di ostilità".

Trovo questa affermazione molto vera e mi conferma come non esista di fatto malvagità umana originaria, ma una malvagità che si articola attraverso il trauma o la strutturazione della società. Questo principio potrebbe essere usato sia nei rapporti fra singoli che fra collettività. In casi rari, come in Sudafrica (commissione per la verità e la riconciliazione), questa affermazione è stata applicata, con risultati straordinari. Epurata dai suoi aspetti fideistici, è la stessa logica del messaggio evangelico, di molte culture orientali e di molte correnti filosofiche.
Eppure la maggioranza dei comportamenti umani tende a polarizzare la frattura amico/nemico e la relativa violenza.
Qual'è la ragione di questa distanza fra un modello apparentemente facile da raggiungere e che ci permetterebbe di vivere in pace e la desolante realtà che ci rende ognuno nemico ognuno dell'altro, qui in questo forum, nella vita quotidiana, nei rapporti fra Stati e culture?
Ciao Jacopus, giusto stamane mi è caduto l'occhio su una targa che parlava per voce di Matteotti. Sinteticamente diceva: potete uccidere me, ma non la mia idea.
Per sviluppare meglio il tema penso che invece di usare il termine "violenza", troppo connotato negativamente, sarebbe più opportuno sostituirlo col termine "impeto". Saluti

iano

#2
Citazione di: Jacopus il 14 Ottobre 2024, 08:25:07 AMQual'è la ragione di questa distanza fra un modello apparentemente facile da raggiungere e che ci permetterebbe di vivere in pace e la desolante realtà che ci rende ognuno nemico ognuno dell'altro, qui in questo forum, nella vita quotidiana, nei rapporti fra Stati e culture?
Io noto che gli italiani che ha pregiudizi sui taldeitaliani immigrati dal paese Taldeitali in Italia, fa sempre un eccezione per il tale che vende frutta nel negozio sotto al suo palazzo, che gli risulta essere davvero una brava persona, avendolo conosciuto.
Se la strada è questa è certamente una fatica conoscere ogni taldeitaliano personalmente, a meno che uno non lo faccia di mestiere o ne abbia fatto la sua vocazione missionaria.
Anche dopo una guerra la vicinanza forzata fra nemici che ciò comporta crea fratellanza a posteriori.
E' la vicinanza a creare fratellanza dunque, se è vero che nei forum che solo virtualmente ci avvicinano si concentra il maggior numero di odiatori, un pò meno in questo in effetti, anche grazie a moderatori come te.
Se un forum non basta, cosa potrebbe in alternativa ricucire la distanza, che la possibilità stessa di usare i forum in effetti sta aumentando?
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

niko

#3
Citazione di: Jacopus il 14 Ottobre 2024, 08:25:07 AMMi sono casualmente imbattuto in questa frase di un letterato americano del XIX secolo, famoso soprattutto per aver tradotto per primo molte opere italiane in inglese, Henry Longfellow. La frase è questa:
"Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, nella vita di ciascuno troveremmo dolori e sofferenze tali da neutralizzare ogni forma di ostilità".

Trovo questa affermazione molto vera e mi conferma come non esista di fatto malvagità umana originaria, ma una malvagità che si articola attraverso il trauma o la strutturazione della società. Questo principio potrebbe essere usato sia nei rapporti fra singoli che fra collettività. In casi rari, come in Sudafrica (commissione per la verità e la riconciliazione), questa affermazione è stata applicata, con risultati straordinari. Epurata dai suoi aspetti fideistici, è la stessa logica del messaggio evangelico, di molte culture orientali e di molte correnti filosofiche.
Eppure la maggioranza dei comportamenti umani tende a polarizzare la frattura amico/nemico e la relativa violenza.
Qual'è la ragione di questa distanza fra un modello apparentemente facile da raggiungere e che ci permetterebbe di vivere in pace e la desolante realtà che ci rende ognuno nemico ognuno dell'altro, qui in questo forum, nella vita quotidiana, nei rapporti fra Stati e culture?


Purtroppo, la sostenzialita' del male esiste, e l'aver sofferto in passato, non giustifica quasi mai l'opprimere gli altri nel presente...

Tutti soffrono, ma quelli che devono sfogare la loro sofferenza opprimendo gli, sono, e restano brutte persone...

In quanto esseri umani siamo in grado di sublimare, ma anche di programmare, cioe' di non metterci in condizione di fare, magari in un probabile futuro, del male agli altri: a volte il male fatto, il cosiddetto crimine o reato, se considerato istantaneamente e' pressoche' inevitabile, ma la situazione strutturata e complessiva in cui qualcuno, magari sotto pressione e senza pensarci, fa' del male, inevitabile non lo e' manco per niente.

Per questo mediamente noi non giustifichiamo, per esempio, il rapinatore che, nell'uscire di corsa col malloppo, si apra la strada per fuggire sparando.

Ecco, io penso che tutti, tutte persone comuni che incontro per strada e che magari saluto, la cosiddette brave persone, se a un certo punto dovessero scegliere tra dieci anni di galera, certi e inevitabili, se presi e bloccati durante la fuga da una rapina, e sparare addosso a uno, uno che magari ingenuamente si mette di mezzo, col rischio di farne trenta se presi ma con la possibilita' di farne zero se la fuga riesce, sceglierebbero di sparare addosso a uno; praticamente tutti, senza pensarci un secondo, perche' quando si ha l'adrenalina a mille e gravi minacce, reali o percepite, alla nostra incolumita' incombono, e' naturale, preferire se' stessi agli altri; la propria pelle, a quella degli altri.
Ma, per contro, di certo non tutti, di quelli che mediamente incontro per strada, si metterebbero nella condizione di pianificare, e iniziare, una rapina in banca o in gioielleria, cercare i complici, farsi accettare in una banda gia' esistente di delinquenti, procurarsi le armi, provarle eccetera.

A volte, il male se considerato a breve termine e' inevitabile, e' semplicemente quello che, in una data situazione, farebbero tutti o quasi; la situazione complessiva che porta al prodursi del male, invece, evitabilissima.

Per questo, non sono evangelico e non credo al perdono, se uno usa il cervello, riesce a non mettersi in condizione di fare del male; gli altri, che non sublimano, non programmano, e nonostante tutte le possibilita' di non farlo, alla fine, il male fanno, per me sono solo degli stolti, perche' non credo nemmeno nel male nel senso tragico e nichilistico del libero arbitrio, tutti fanno il male convinti che sia il bene. E tutti soffrono, di rimorso o di rimpianto, quando le loro convinzioni in merito cambiano, e naturalmente il passato, in cui risiede il "male" fatto, non si puo' piu' cambiare, e magari anche il futuro, in quanto proggettato su presupposti sbagliati, non ci appare piu' roseo come prima, in quanto valutavamo diversamente i presupposti su cui proggettarlo, ci sembrava. E questo vale a prescindere da cosa realmente siano il male e il bene (per me, direttamente l'oggetto e il non oggetto della volonta', per cui ogni azione volontaria e' vissuta come buona dall'agente, quantomeno istantaneamente, e ogni situazione, o tanto piu' altra persona, in generale "subita" e per cui si produca una resistenza della volonta', come malvagia).

Ma non esiste il "superuomo" teologico che fa' il male per il male, satanicamente e nichilisticamente, cioe' pur conoscendo il bene cosi' tanto per aprire un abisso e rimarcare la gratuita' di una scelta. Tutti, agiamo in base alle informazioni, programmazioni e conoscenze che abbiamo, e cosi' se facciamo il male, e' solo perche' li' per li' ci sembra il bene. A poterlo giudicare male e' solo lo sguardo eventuale di un altro, che non e' mai il nostro, o lo sguardo di noi stessi attraverso il tempo, cioe' dopo che il tempo ci ha cambiato, e magari ci ha portato a pentirci delle nostre, precedenti azioni.

Ma, se il male si fa per stoltezza e mancanza di conoscenza, c'e' anche poco da perdonare. Bisogna promuovere le giuste conoscenze, anche affinche' (quelli che secondo noi sono) i malvagi, cambino in meglio. E far empatizzare i malvagi con il punto di vista delle loro vittime, che e' un punto di vista rovesciato, rispetto al loro, in cui il loro presunto bene, si rivela, potenzialmente anche a loro stessi, come male. E questo significa che i malvagi, devono assaggiare un po' del male che loro stessi provocano, cioe' la vittima del male e dell'ingiustizia soffre, ma, per comunicare al mondo la verita' della sua stessa sofferenza, deve anche "far soffrire", manifestare quella stessa sofferenza al di fuori di se'; e quindi perseguire un certo qual grado di giustizia o di vendetta. 

Se io faccio del male a chi mi ha fatto del male, pare brutto da dirsi, ma gli do' occasione di empatizzare con il mio male e sentirlo almeno un po' sulla sua pelle anche lui, in altre parole, gli do occasione di empatizzare con il mio punto di vista, che vede il suo bene, cioe' quello che a lui sembra bene, come male, e quindi di cambiare il suo stesso punto di vista, e assumere il mio. Occasione che, diversamente, non avrebbe.



Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

anthonyi

Citazione di: Jacopus il 14 Ottobre 2024, 08:25:07 AMMi sono casualmente imbattuto in questa frase di un letterato americano del XIX secolo, famoso soprattutto per aver tradotto per primo molte opere italiane in inglese, Henry Longfellow. La frase è questa:
"Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, nella vita di ciascuno troveremmo dolori e sofferenze tali da neutralizzare ogni forma di ostilità".

Trovo questa affermazione molto vera e mi conferma come non esista di fatto malvagità umana originaria, ma una malvagità che si articola attraverso il trauma o la strutturazione della società. Questo principio potrebbe essere usato sia nei rapporti fra singoli che fra collettività. In casi rari, come in Sudafrica (commissione per la verità e la riconciliazione), questa affermazione è stata applicata, con risultati straordinari. Epurata dai suoi aspetti fideistici, è la stessa logica del messaggio evangelico, di molte culture orientali e di molte correnti filosofiche.
Eppure la maggioranza dei comportamenti umani tende a polarizzare la frattura amico/nemico e la relativa violenza.
Qual'è la ragione di questa distanza fra un modello apparentemente facile da raggiungere e che ci permetterebbe di vivere in pace e la desolante realtà che ci rende ognuno nemico ognuno dell'altro, qui in questo forum, nella vita quotidiana, nei rapporti fra Stati e culture?
E' una tesi che hai già presentato, jacopus, e che secondo me non é vera. 
Una bella frase letteraria non necessariamente é vera. 
Il mito del "buon selvaggio" di Roussoiana memoria é solo una favola romantica.
La natura umana non é buona, naturalmente non é neanche cattiva, é necessaria per la sopravvivenza e quindi esprime sia l'empatia nei confronti di chi senti vicino, sia la rabbia nei confronti di chi senti come nemico. 
Il bene, il male, la morale, sono tutte costruzioni sociali, e non sono neanche tanto da considerare aliene rispetto all'essere umano, perché sono il risultato della capacità istintiva umana di comunicare. 

Koba II

Contesto la fondatezza dell'idea di base del ragionamento di Jacopus, ovvero che ci sia un nesso di causalità tra trauma subito e violenza commessa.
Si tratta di un luogo comune di certi orientamenti delle discipline psicologico-sociali.
Si potrà anche presentare qualche statistica, ma di fatto quasi tutti nel corso della giovinezza hanno subito traumi o vissuto tormenti, per cui tale ipotetica statistica non dimostrerebbe nessuna correlazione significativa, ma solo che anche la maggior parte dei carnefici, come tutti, hanno avuto un passato complicato.
E poi il male non è una categoria omogenea: un conto è subire il disprezzo, ben altra cosa è essere perseguitati.
Per cui se è anche possibile neutralizzare l'ostilità che si subisce conoscendo le vicissitudini dolorose di coloro che ci disprezzano (ma nel senso di rendersi indifferenti ad essi, non certo nel senso di una riconciliazione), non sembra possibile fare la stessa cosa quando vi è stata della violenza concreta, quando il nemico si è prodigato per la nostra distruzione fisica o psicologica o sociale.

Tuttavia la citazione riportata da Jacopus dice qualcosa di vero, ovvero che tutti abbiamo qualcosa in comune, il dolore.
L'unica verità incontrovertibile della vita umana e animale è il dolore.
E il dolore non può essere combattuto con un accrescimento della potenza, della vitalità, come pensava Spinoza prima e Nietzsche poi.
Il dolore non può essere sconfitto. È il grande dominatore di questo mondo. Da esso si possono solo ottenere delle tregue parziali.
Se ne fossimo tutti consapevoli non saremmo spinti alla vendetta, perché questa comporterebbe il rischio di subire altro dolore (da parte di chi si vorrebbe punire o da parte di coloro che a loro volta si sentirebbero poi in dovere di vendicare il nostro nemico).
Il moralismo è adatto ad un'umanità illusa, infantile, ancora legata magari inconsapevolmente a immagini religiose. Ma la religione e la sua morale possono modificare il mondo solo se tutti fossimo abbastanza pazzi o disperati da accettare la presenza concreta del divino nella nostra vita.
Invece l'umanità è solo mediamente disperata. È soprattutto mediocre, meschina senza eccessi, pigra, stanca, annoiata, desolante.
Per questo la guerra e la vendetta, comportando uno stato di eccitazione, piacciono, perché anch'esse sembrano avere la capacità di offrirci una tregua dalla desolazione quotidiana. Poi subito dopo, ma troppo tardi, si capisce che si tratta di nient'altro che altro dolore. Si capisce di essere solo passati ad un altro inferno, di gran lunga peggiore del primo.

daniele22

Citazione di: Koba II il 15 Ottobre 2024, 11:07:16 AMContesto la fondatezza dell'idea di base del ragionamento di Jacopus, ovvero che ci sia un nesso di causalità tra trauma subito e violenza commessa.
Si tratta di un luogo comune di certi orientamenti delle discipline psicologico-sociali.
Si potrà anche presentare qualche statistica, ma di fatto quasi tutti nel corso della giovinezza hanno subito traumi o vissuto tormenti, per cui tale ipotetica statistica non dimostrerebbe nessuna correlazione significativa, ma solo che anche la maggior parte dei carnefici, come tutti, hanno avuto un passato complicato.
E poi il male non è una categoria omogenea: un conto è subire il disprezzo, ben altra cosa è essere perseguitati.
Per cui se è anche possibile neutralizzare l'ostilità che si subisce conoscendo le vicissitudini dolorose di coloro che ci disprezzano (ma nel senso di rendersi indifferenti ad essi, non certo nel senso di una riconciliazione), non sembra possibile fare la stessa cosa quando vi è stata della violenza concreta, quando il nemico si è prodigato per la nostra distruzione fisica o psicologica o sociale.

Tuttavia la citazione riportata da Jacopus dice qualcosa di vero, ovvero che tutti abbiamo qualcosa in comune, il dolore.
L'unica verità incontrovertibile della vita umana e animale è il dolore.
E il dolore non può essere combattuto con un accrescimento della potenza, della vitalità, come pensava Spinoza prima e Nietzsche poi.
Il dolore non può essere sconfitto. È il grande dominatore di questo mondo. Da esso si possono solo ottenere delle tregue parziali.
Se ne fossimo tutti consapevoli non saremmo spinti alla vendetta, perché questa comporterebbe il rischio di subire altro dolore (da parte di chi si vorrebbe punire o da parte di coloro che a loro volta si sentirebbero poi in dovere di vendicare il nostro nemico).
Il moralismo è adatto ad un'umanità illusa, infantile, ancora legata magari inconsapevolmente a immagini religiose. Ma la religione e la sua morale possono modificare il mondo solo se tutti fossimo abbastanza pazzi o disperati da accettare la presenza concreta del divino nella nostra vita.
Invece l'umanità è solo mediamente disperata. È soprattutto mediocre, meschina senza eccessi, pigra, stanca, annoiata, desolante.
Per questo la guerra e la vendetta, comportando uno stato di eccitazione, piacciono, perché anch'esse sembrano avere la capacità di offrirci una tregua dalla desolazione quotidiana. Poi subito dopo, ma troppo tardi, si capisce che si tratta di nient'altro che altro dolore. Si capisce di essere solo passati ad un altro inferno, di gran lunga peggiore del primo.

Sono d'accordo, in particolare sulla parte finale. Pensando che il dolore e il piacere siano i fondamenti e i motori della conoscenza provo comunque a dire qualcosa di aggiuntivo al tuo discorso: che non vi sia cioè sostanziale differenza tra dolore psichico e dolore fisico, ovvero tra l'essere disprezzati o aggrediti. Nel senso che quando si opera all'interno della società umana "a fin di bene" si può cozzare con chi pensa che tali operazioni producano il proprio male in senso economico; "economico" deve intendersi come unione di spirito e azione del corpo. Quando lo spirito deve agire in sofferenza, dolore psichico, non c'è da meravigliarsi che possa manifestarsi nel corpo una sofferenza come indotto derivante da stili di vita costretti da una spiritualità che non si riconosce e che in fondo si disprezza. Allora io disprezzo? Si! disprezzo. Per questo nel primo post suggerivo il cambiamento del termine da violenza a impeto; lo stesso impeto, tanto per sparare sull'ambulanza, che ancora esercita "a fin di bene" la religione ... e che purtroppo genera il mio dolore psichico, il quale mi fa rendere poco, la qual cosa genera mancanza di pecunia, la qual cosa, dato che tutto si compra, può generare come conseguenza anche dolori fisici

Jacopus

Sono molto d'accordo con l'ultimo intervento di Daniele, il dolore psichico e il dolore fisico sono collegati in molti modi. Sugli altri interventi dirò la mia quando avrò un po' di tempo.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

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