Liberalismo e tassa di successione

Aperto da davintro, 09 Giugno 2018, 16:46:52 PM

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davintro

è diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben  più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...)





Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini



Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi  al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento

InVerno

Ciao Davintro, il tuo è un ragionamento molto interessante, a cui tuttavia è un po ostico rispondere per via delle dimensioni e del mio poco tempo. Mi preme tuttavia farti notare al di la delle questioni di principio, che la tassa di successione in Italia è pagata solamente dai parenti in linea non retta oltre il terzo grado sopra una franchigia di 100.000€ (1milione per le linee rette), l'aliquota è bassina e passibile di parecchie deduzioni (dalle spese funerarie a quelle mediche). Insomma è molto difficile per la gente comune pagare la tassa di successione, e quando succede non si tratta di cifre esorbitanti. Diverso è per le persone molto ricche con assi ereditari sopra il milione di euro.. Lo faccio notare perchè al di la del fatto che si chiami "tassa di successione", così come è impostata nella prassi Italiana è più una patrimoniale per i ricchi che una vera e propria "tassa di successione". Questo non sposta di un millimetro il tuo ragionamento, ma è un contributo che posso dare facilmente visto che ho lavorato nel settore.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

viator

Salve. Per Davintro. Mi sembra che esista l'imposta di successione, non la tassa. Tutte le imposte hanno carattere opinabile. Il problema sta solo nelle necessità di cassa nonché nel buonsenso di chi le impone. Una giustificazione moralistica - perciò appunto del tutto opinabile - potrebbe consistere nel mantenerla in vita quale contributo forzoso di solidarietà richiesto a chi, per pura fortuna, si trova a disporre di un patrimonio che non ha contribuito a generare attraverso il proprio lavoro o merito.

Nella forma e misura in cui vige attualmente in Italia, io non la trovo insensata né iniqua.

Tu affermi che che i'imposta di successione "impedisca di disporre......" ma questa mi sembra un lapsus logico, visto che ".....impedirà ad altri di godere integralmente".

D'altra parte il liberalismo integrale io lo chiamo "licenza integrale".

Io cambierei profondamente la nostra Costituzione (ed anche moltissime delle altrui). Visto che il lavoro su cui è "fondata" non è in realtà né un diritto né un obbligo, all'Art.1 io la fonderei sulla cooperazione tra i cittadini. Solidarietà inclusa.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

anthonyi

Citazione di: davintro il 09 Giugno 2018, 16:46:52 PM
è diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben  più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...)





Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini



Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi  al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento

Ciao davintro, quando nel XIX secolo il pensiero liberale si sviluppa in opposizione a visioni tradizionalistiche che vedevano alcuni individui detenere il potere nella società per ragioni dinastiche, e quindi di nascita, il principio base che veniva sostenuto era quello delle pari opportunità, di rendere eguali i punti di partenza per tutti i cittadini, e di avere così il massimo riconoscimento al merito individuale.
Per cui mi spiace dirlo ma le tue idee, al di là della condivisibilità non sono liberali, e non lo sono proprio perché tu metti in discussione il principio del merito.
Naturalmente questo non vuol dire che l'imposta di successione è un'imposta liberale, le imposte sono necessarie e questo lo ammettiamo anche noi liberali (Lo ammetto sono liberale), la discussione poi sull'opportunità di una o dell'altra imposta è forse un po' più complessa. Certamente una logica come quella utilizzata in Italia, per la quale l'imposta si paga solo se non sei parente stretto, da l'impressione di essere poco liberale perché "premia" la nascita e non la scelta individuale.
Un saluto.

baylham

Non è l'imposta di successione ad essere incoerente col liberalismo, è il liberalismo ad essere incoerente con lo stato.
Ritengo che il darwinismo sociale sia un approccio molto più interessante e proficuo per comprendere la società e le istituzioni umane.

Comunque, dato che il liberalismo non contesta radicalmente lo stato sia pur minimo, si pone il problema di finanziare i servizi pubblici minimi dello stesso. Poiché le imposte si applicano sul reddito o sul patrimonio degli individui, l'imposta di successione si giustifica facilmente dal punto di vista liberale: presumo che molti preferirebbero che le imposte fossero applicate sul patrimonio dopo la propria morte che durante la propria vita.

Non essendo un liberale, non ho alcun dubbio nel preferire una imposta molto elevata e progressiva sulle successioni e donazioni.


davintro

#5
Citazione di: anthonyi il 10 Giugno 2018, 07:14:08 AM
Citazione di: davintro il 09 Giugno 2018, 16:46:52 PMè diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...) Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento
Ciao davintro, quando nel XIX secolo il pensiero liberale si sviluppa in opposizione a visioni tradizionalistiche che vedevano alcuni individui detenere il potere nella società per ragioni dinastiche, e quindi di nascita, il principio base che veniva sostenuto era quello delle pari opportunità, di rendere eguali i punti di partenza per tutti i cittadini, e di avere così il massimo riconoscimento al merito individuale. Per cui mi spiace dirlo ma le tue idee, al di là della condivisibilità non sono liberali, e non lo sono proprio perché tu metti in discussione il principio del merito. Naturalmente questo non vuol dire che l'imposta di successione è un'imposta liberale, le imposte sono necessarie e questo lo ammettiamo anche noi liberali (Lo ammetto sono liberale), la discussione poi sull'opportunità di una o dell'altra imposta è forse un po' più complessa. Certamente una logica come quella utilizzata in Italia, per la quale l'imposta si paga solo se non sei parente stretto, da l'impressione di essere poco liberale perché "premia" la nascita e non la scelta individuale. Un saluto.


io direi che l'ottocento è il secolo nel quale le idee liberali hanno cominciato a imporsi come vincenti sul piano della realtà politica di molti stati d'Europa, ma dal punto di vista dell'elaborazione teorica bisogna riandare a molto prima, penso intorno al '600, con la riflessione politica di Locke e del giusnaturalismo, con la loro critica dell'idea di Stato totalitario legittimato ad avere potere di vita e di morte sui cittadini, in nome dell'esistenza di diritti naturali (vita e proprietà) inerenti ogni singola persona indipendentemente dal rapporto con lo stato, che viene visto non più come autorità legittimata in senso universale o assoluto, ma meramente strumentale alle esigenze degli individui. Trovo abbastanza forzata la riconduzione dell'istituto dell'eredità al complesso dei residui sociali dell'Ancieme Regime feudale, che certamente e giustamente i liberali hanno combattuto nell'era moderna. Un conto sono i privilegi politici di un ceto nobiliare e clericale, un altro una condizione di fortuna dal punto di vista economico, in cui si può stare rispettando pienamente il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge. L'assioma fondamentale di ogni liberalismo è che la libertà vale più dell'eguaglianza, e in nome di ciò è stato coerente nel combattere contro la società feudale dove il potere politico era concentrato nella monarchia e nei nobili, che così potevano utilizzare i loro privilegi per legittimare i continui abusi di potere contro tutti gli altri cittadini (il "terzo stato") ed ecco perché il progressivo avvento delle società liberali è stato costituito dalla promulgazione di costituzioni che, in forme più o meno coerenti, hanno sancito l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la separazione tra stato e chiesa, il riconoscimento di diritti civili che nessun governo può calpestare, la separazione dei poteri (penso allo statuto albertino). Ma l'uguaglianza formale contro la società dei privilegi feudali era finalizzata alla difesa delle libertà individuali, non al raggiungimento dell "eguaglianza dei punti di partenza" per quanto riguarda la corsa al successo economico. Le istanze di eguaglianza dal punto di vista della retribuzione economica erano all'epoca non portate avanti dai liberali, ma dai movimenti sindacali, e dai primi movimenti socialisti e marxisti. Al liberale l'uguaglianza interessa solo nella misura in cui è funzionale a tutelare la libertà individuale, ma quando l'uguaglianza può essere attuata limitando le libertà fondamentali delle persone, compresa quella di poter destinare i propri beni a chi si vuole, allora è l'istanza egualitaria che va abbandonata. Per il liberale il valore assoluto, come dovrebbe indicare lo stesso termine è la "libertà", che va limitata solo nella misura in cui la mia libertà calpesta la libertà di qualcun altro (per nessun liberale esiste la libertà di rubare o uccidere), ma non mi pare che le transazioni ereditarie limitino la libertà e i fondamentali diritti di qualcun altro, fintanto che si parla di soldi ottenuti onestamente

Più che "mettere in discussione" il principio meritocratico direi che lo relativizzo... come scritto nel primo messaggio, esiste un piano di strumentalità in cui la meritocrazia diviene un criterio indispensabile a cui attenersi, quello della selezione dei ruoli lavorativi nella società. Esistono dei parametri  sufficentemente oggettivi e condivisibili  per valutare l'adeguatezza di qualcuno per un determinato lavoro. Ad esempio, sarebbe piuttosto evidente che un medico laureato col massimo dei voti, che ha frequentato svariati corsi di perfezionamento, tirocini, ed esperienze pregresse "meriti" di più un posto in un ospedale rispetto a un collega che si è laureato con la votazione minima e dopo la laurea per anni non ha svolto alcuna significativa esperienza formativa. Ma il fine non è una volontà moralistica di premiare o punire, ma quello di assicurare i migliori servizi ai pazienti: meritocrazia al servizio della salute dei cittadini. Ecco la meritocrazia che interessa a un liberale: come l'uguaglianza, anche il merito non è un valore assoluto, ma relativo alla tutela dei diritti fondamentali, compreso quello alla salute. Ma quando si parla di meritocrazia come criterio di redistribuzione del benessere allora si cade inevitabilmente in discorsi inevitabilmente moralisti che non spetta alla politica fare, in quanto per stabilire chi "meriti" più di altri il benessere ci sono parametri soggettivi e arbitrari che possono solo essere appannaggio degli individui, mentre il liberalismo scinde etica e politica. Mentre il giudizio sull'adeguatezza per un certo tipo di lavoro è una questione fortemente tecnica, cioè legata alle competenze, quella sul merito del benessere economico resta una questione soggettiva e etica. L'idea che il "merito" debba consistere necessariamente nella capacità di conseguire il successo economico tramite la carriera lavorativa è un presupposto non necessariamente vero, ma arbitrario, è una distorsione in chiave materialistica e mercantilistica del "merito". Prendiamo l'esempio della letteratura... non c'è dubbio che un Federico Moccia,  che scrive romanzi che diventano bestsellers, perché rivolti a un pubblico di teenagers molto ampio, venda e guadagni con i suoi libri infintamente più che uno studioso o ricercatore universitario che pubblica opere e saggi di tipo scientifico o filosofico, che si rivolge a un pubblico potenziale molti specialistico e di nicchia... dovremmo forse dire che solo per questo la scrittura di Moccia meriti più di quella dello sconosciuto studioso, solo perché sulla base del genere che tratta attira molti più lettori? Il valore della cultura coincide sempre con la popolarità commerciale? Occorre sfatare il pregiudizio che l'unica forma di autorealizzazione sia ciò che è misurabile sulla base dei soldi guadagnati tramite il lavoro, che il lavoro retribuito sia l'unica forma in cui un individuo può contribuire nel suo piccolo al progresso sociale, dove sta scritto che una persona che vive di rendita avendo ereditato beni cospicui, non possa, a suo modo dimostrare le sue qualità e i suoi "meriti", svolgendo delle attività indipendentemente dall'ansia di dover guadagnare per vivere? Può fare volontariato, può dedicarsi ad attività artistiche, culturali, come lo studioso del mio esempio di prima, che potrà impegnarsi spinto dalla passione per lo studio anche consapevole che economicamente ci guadagnerà poco e nulla... chi l'ha detto che tutto ciò in cui l'uomo si impegna e da il meglio di sé possa tirarlo fuori solo tramite la spinta del guadagno, costringendolo "a partire da zero", costringendolo cioè a sacrificare in molti casi le sue passioni sulla base della necessità di mantenersi economicamente (come si dice, le lettere non danno pane, ma non per questo andrebbe colpevolizzato o ostacolato chi avendo la fortuna di poterselo permettere, incentra la sua vita su di quelle). Insomma, in gran parte dei casi l'applicazione dei parametri meritocratici si rivela un'assolutizzazione morale arbitraria di cui un liberale dovrebbe diffidare, come di tutte le assolutizzazioni morali che pretendono di orientare una linea politica



Condivido l'idea che il riconoscimento delle tasse sia una necessità che ogni persona di buon senso dovrebbe ammettere indipendentemente dalle ideologie di riferimento, ideologie che però rientrano in gioco quando si parla delle motivazioni che sorreggono le necessità fiscali: dire che le tasse dovrebbero limitarsi a finanziare i servizi pubblici, necessari a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (sicurezza, istruzione, salute) lo trovo un principio molto più liberale rispetto a quello di vederle come finalizzate a una sorta di egualitarismo forzato sulla base di un'accezione meramente moralistica a arbitraria della meritocrazia, proprio questo sottofondo moralistico rende, al contrario di quello che molti pensano, l'imposta di successione come in un certo senso la più "illiberale". Condivido pienamente anche il passo riguardo la logica illiberale nel caso specifico in cui tale imposta viene applicato in Italia, in quanto limitativo della libertà di scelta di colui che destina l'eredità

anthonyi

Citazione di: davintro il 12 Giugno 2018, 19:42:05 PM
Citazione di: anthonyi il 10 Giugno 2018, 07:14:08 AM
Citazione di: davintro il 09 Giugno 2018, 16:46:52 PM
[size=2 Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento
Ciao davintro, quando nel XIX secolo il pensiero liberale si sviluppa in opposizione a visioni tradizionalistiche che vedevano alcuni individui detenere il potere nella società per ragioni dinastiche, e quindi di nascita, il principio base che veniva sostenuto era quello delle pari opportunità, di rendere eguali i punti di partenza per tutti i cittadini, e di avere così il massimo riconoscimento al merito individuale. Per cui mi spiace dirlo ma le tue idee, al di là della condivisibilità non sono liberali, e non lo sono proprio perché tu metti in discussione il principio del merito. Naturalmente questo non vuol dire che l'imposta di successione è un'imposta liberale, le imposte sono necessarie e questo lo ammettiamo anche noi liberali (Lo ammetto sono liberale), la discussione poi sull'opportunità di una o dell'altra imposta è forse un po' più complessa. Certamente una logica come quella utilizzata in Italia, per la quale l'imposta si paga solo se non sei parente stretto, da l'impressione di essere poco liberale perché "premia" la nascita e non la scelta individuale. Un saluto.


io direi che l'ottocento è il secolo nel quale le idee liberali hanno cominciato a imporsi come vincenti sul piano della realtà politica di molti stati d'Europa, ma dal punto di vista dell'elaborazione teorica bisogna riandare a molto prima, penso intorno al '600, con la riflessione politica di Locke e del giusnaturalismo, con la loro critica dell'idea di Stato totalitario legittimato ad avere potere di vita e di morte sui cittadini, in nome dell'esistenza di diritti naturali (vita e proprietà) inerenti ogni singola persona indipendentemente dal rapporto con lo stato, che viene visto non più come autorità legittimata in senso universale o assoluto, ma meramente strumentale alle esigenze degli individui. Trovo abbastanza forzata la riconduzione dell'istituto dell'eredità al complesso dei residui sociali dell'Ancieme Regime feudale, che certamente e giustamente i liberali hanno combattuto nell'era moderna. Un conto sono i privilegi politici di un ceto nobiliare e clericale, un altro una condizione di fortuna dal punto di vista economico, in cui si può stare rispettando pienamente il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge. L'assioma fondamentale di ogni liberalismo è che la libertà vale più dell'eguaglianza, e in nome di ciò è stato coerente nel combattere contro la società feudale dove il potere politico era concentrato nella monarchia e nei nobili, che così potevano utilizzare i loro privilegi per legittimare i continui abusi di potere contro tutti gli altri cittadini (il "terzo stato") ed ecco perché il progressivo avvento delle società liberali è stato costituito dalla promulgazione di costituzioni che, in forme più o meno coerenti, hanno sancito l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la separazione tra stato e chiesa, il riconoscimento di diritti civili che nessun governo può calpestare, la separazione dei poteri (penso allo statuto albertino). Ma l'uguaglianza formale contro la società dei privilegi feudali era finalizzata alla difesa delle libertà individuali, non al raggiungimento dell "eguaglianza dei punti di partenza" per quanto riguarda la corsa al successo economico. Le istanze di eguaglianza dal punto di vista della retribuzione economica erano all'epoca non portate avanti dai liberali, ma dai movimenti sindacali, e dai primi movimenti socialisti e marxisti. Al liberale l'uguaglianza interessa solo nella misura in cui è funzionale a tutelare la libertà individuale, ma quando l'uguaglianza può essere attuata limitando le libertà fondamentali delle persone, compresa quella di poter destinare i propri beni a chi si vuole, allora è l'istanza egualitaria che va abbandonata. Per il liberale il valore assoluto, come dovrebbe indicare lo stesso termine è la "libertà", che va limitata solo nella misura in cui la mia libertà calpesta la libertà di qualcun altro (per nessun liberale esiste la libertà di rubare o uccidere), ma non mi pare che le transazioni ereditarie limitino la libertà e i fondamentali diritti di qualcun altro, fintanto che si parla di soldi ottenuti onestamente

Più che "mettere in discussione" il principio meritocratico direi che lo relativizzo... come scritto nel primo messaggio, esiste un piano di strumentalità in cui la meritocrazia diviene un criterio indispensabile a cui attenersi, quello della selezione dei ruoli lavorativi nella società. Esistono dei parametri  sufficentemente oggettivi e condivisibili  per valutare l'adeguatezza di qualcuno per un determinato lavoro. Ad esempio, sarebbe piuttosto evidente che un medico laureato col massimo dei voti, che ha frequentato svariati corsi di perfezionamento, tirocini, ed esperienze pregresse "meriti" di più un posto in un ospedale rispetto a un collega che si è laureato con la votazione minima e dopo la laurea per anni non ha svolto alcuna significativa esperienza formativa. Ma il fine non è una volontà moralistica di premiare o punire, ma quello di assicurare i migliori servizi ai pazienti: meritocrazia al servizio della salute dei cittadini. Ecco la meritocrazia che interessa a un liberale: come l'uguaglianza, anche il merito non è un valore assoluto, ma relativo alla tutela dei diritti fondamentali, compreso quello alla salute. Ma quando si parla di meritocrazia come criterio di redistribuzione del benessere allora si cade inevitabilmente in discorsi inevitabilmente moralisti che non spetta alla politica fare, in quanto per stabilire chi "meriti" più di altri il benessere ci sono parametri soggettivi e arbitrari che possono solo essere appannaggio degli individui, mentre il liberalismo scinde etica e politica. Mentre il giudizio sull'adeguatezza per un certo tipo di lavoro è una questione fortemente tecnica, cioè legata alle competenze, quella sul merito del benessere economico resta una questione soggettiva e etica. L'idea che il "merito" debba consistere necessariamente nella capacità di conseguire il successo economico tramite la carriera lavorativa è un presupposto non necessariamente vero, ma arbitrario, è una distorsione in chiave materialistica e mercantilistica del "merito". Prendiamo l'esempio della letteratura... non c'è dubbio che un Federico Moccia,  che scrive romanzi che diventano bestsellers, perché rivolti a un pubblico di teenagers molto ampio, venda e guadagni con i suoi libri infintamente più che uno studioso o ricercatore universitario che pubblica opere e saggi di tipo scientifico o filosofico, che si rivolge a un pubblico potenziale molti specialistico e di nicchia... dovremmo forse dire che solo per questo la scrittura di Moccia meriti più di quella dello sconosciuto studioso, solo perché sulla base del genere che tratta attira molti più lettori? Il valore della cultura coincide sempre con la popolarità commerciale? Occorre sfatare il pregiudizio che l'unica forma di autorealizzazione sia ciò che è misurabile sulla base dei soldi guadagnati tramite il lavoro, che il lavoro retribuito sia l'unica forma in cui un individuo può contribuire nel suo piccolo al progresso sociale, dove sta scritto che una persona che vive di rendita avendo ereditato beni cospicui, non possa, a suo modo dimostrare le sue qualità e i suoi "meriti", svolgendo delle attività indipendentemente dall'ansia di dover guadagnare per vivere? Può fare volontariato, può dedicarsi ad attività artistiche, culturali, come lo studioso del mio esempio di prima, che potrà impegnarsi spinto dalla passione per lo studio anche consapevole che economicamente ci guadagnerà poco e nulla... chi l'ha detto che tutto ciò in cui l'uomo si impegna e da il meglio di sé possa tirarlo fuori solo tramite la spinta del guadagno, costringendolo "a partire da zero", costringendolo cioè a sacrificare in molti casi le sue passioni sulla base della necessità di mantenersi economicamente (come si dice, le lettere non danno pane, ma non per questo andrebbe colpevolizzato o ostacolato chi avendo la fortuna di poterselo permettere, incentra la sua vita su di quelle). Insomma, in gran parte dei casi l'applicazione dei parametri meritocratici si rivela un'assolutizzazione morale arbitraria di cui un liberale dovrebbe diffidare, come di tutte le assolutizzazioni morali che pretendono di orientare una linea politica



Condivido l'idea che il riconoscimento delle tasse sia una necessità che ogni persona di buon senso dovrebbe ammettere indipendentemente dalle ideologie di riferimento, ideologie che però rientrano in gioco quando si parla delle motivazioni che sorreggono le necessità fiscali: dire che le tasse dovrebbero limitarsi a finanziare i servizi pubblici, necessari a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini (sicurezza, istruzione, salute) lo trovo un principio molto più liberale rispetto a quello di vederle come finalizzate a una sorta di egualitarismo forzato sulla base di un'accezione meramente moralistica a arbitraria della meritocrazia, proprio questo sottofondo moralistico rende, al contrario di quello che molti pensano, l'imposta di successione come in un certo senso la più "illiberale". Condivido pienamente anche il passo riguardo la logica illiberale nel caso specifico in cui tale imposta viene applicato in Italia, in quanto limitativo della libertà di scelta di colui che destina l'eredità

Ciao davintro, certo che sei prolisso, comunque il mio riferimento al XIX secolo nasce dalla considerazione che stiamo parlando di un'imposta, cioè di una categoria economica e il pensiero liberale si sistematizza nel pensiero economico proprio in quei tempi. Certo il rapporto con la categoria politologica, esiste, ma i quadri paradigmatici sono differenti, questo vale anche per la logica meritocratica che è suscettibile di interpretazioni ambigue in politica, ma non in economia dove la meritocrazia è associata al concetto di efficienza, o meglio deriva da questo.
L'associazione tra poteri feudali e eredità della ricchezza tu potrai non condividerla ma per me è lapalissiana, e lo vediamo nel fatto che al riguardo il "vincolo di sangue" è fondamentale e costituisce una distorsione illiberale perché l'individuo non è libero di lasciare le sue cose a chi vuole ma è vincolato ai diritti dei parenti.
Un saluto.

baylham

Tecnicamente, in economia e diritto tributario, il tributo sulle successioni è un'imposta, non una tassa. Questa distinzione è rilevante ai fini della discussione.

Il fatto che concezioni politiche diverse dal liberalismo si prefiggano attraverso lo strumento dell'imposta di successione degli obiettivi, quali la parità delle opportunità, la riduzione delle disuguaglianze, il sostegno alla famiglia contrastanti con la concezione liberale è del tutto evidente.

Tuttavia ciò non dimostra affatto che l'imposta di successione sia di per sé più illiberale di altre. (Effettivamente che una qualunque imposta si possa qualificare liberale mi pare un ossimoro. Ma questa fa parte dell'aporia di fondo del liberalismo come concezione politica ed economica.)

Qualunque imposta per finanziare i servizi pubblici, necessari anche secondo la concezione liberale più radicale dello stato minimo (Nozick), alla fine incide sul reddito o sul patrimonio dell'individuo. In questo senso l'imposta di successione a differenza delle altre imposte, è quella che meno incide sulla libertà di consumare, risparmiare, investire il reddito, non intacca minimamente il reddito e patrimonio durante tutta la vita di un individuo. Perciò per uno stato di ispirazione liberale, che quindi non si pone obiettivi di uguaglianza, di merito, di sostegno alla famiglia nella scelta dei presupposti fiscali, l'imposta di successione è l'imposta tecnicamente migliore, quella che lascia fino all'ultimo istante di vita all'individuo la libertà di gestire il suo reddito e patrimonio come desidera.

Sarei curioso di conoscere perché un'imposta sul reddito o sul patrimonio, mobiliare o immobiliare, o sui consumi sia più liberale dell'imposta di successione (ripeto un'imposta di successione neutrale, priva di obiettivi diversi da quelli di procurarsi il gettito per finanziare i servizi pubblici minimi) oppure quali sarebbero le imposte ideali di un liberale.

davintro

per Anthonyi

 

mi spiace per il mio essere prolisso, è che sento sempre il bisogno di mostrare le varie implicazioni di un discorso per renderlo il più possibile chiaro ed esaustivo, oltre che per evitare punti equivoci, che una eccessiva sintesi potrebbe lasciar emergere. Comunque, mi rendo conto, da lettore, delle difficoltà che ci possono effettivamente essere nel seguire un discorso eccessivamente lungo, quindi pur avendo in mente le ragioni del mio "stile", mi viene di scusarmi. Assolutamente, non ho mai inteso una sorta di "obbligo" di lasciare ai propri stretti discendenti l'eredità come un principio liberale, in quanto, essendo il rispetto delle libertà di scelta, di ciascuno il valore primario di ogni liberalismo, compresa la libertà di poter lasciare la propria eredità a chiunque, o addirittura di non lasciarla a nessuno portando le proprie ricchezze nella tomba con sé. Chiarito questo punto si comprende la differenza tra un vincolo familiare che  finisce con l'essere un'imposizione politica e giuridica tipica di un sistema feudale, basato su un'ideologia dogmaticamente familista e la neutralità dello stato liberale che tutela non l'eredità come obbligo, ma come espressione della libera scelta degli individui di relazionarsi tra loro anche dal punto di vista economico

 

 

Per Baylham

 

Non dico che la tassa di successione sia la più illiberale in senso assoluto, ma per uno specifico aspetto. Non lo è dal punto di vista delle conseguenze effettive che determina, bensì da quello delle motivazioni ideologiche per cui alcuni ne sostengono la legittimità etica, vale a dire quello di favorire l'eguaglianza economica dei punti di partenza tra gli individui, come se la realizzazione delle proprie qualità nella società debba necessariamente coincidere con il successo economico. Cioè lo stato dovrebbe promuovere una sorta di ideale meritocratico, però del tutto schiacciato in un'accezione meramente materialista ed economicista del "merito", in nome dunque di criteri meritocratici arbitrari e discutibili, come ho provato ad argomentare nel mio ultimo messaggio. Volevo far notare come nel momento in cui tramite il fisco lo stato interferisce con la vita delle persone non sulla base di motivazioni razionali e oggettive, eticamente neutre, ma sulla base di criteri moralistici soggettivi come una certa accezione ideologica di "merito" si va contro l'idea liberale di stato. Dunque, che le tasse colpiscano i beni delle persone al fine di finanziare servizi pubblici è una necessità che anche un liberale può tranquillamente accettare, mentre un'imposta che colpisce, non una ricchezza, bensì una transazione di denaro, dunque una scelta degli individui, è percepibile come invadente la sfera delle persone a un livello più intimo, quella della loro libertà di gestire i beni personali come meglio ritengono. Una tassa che colpisce una quantità di ricchezza limita la libertà su un piano più indiretto (non interferisce con un'azione ma come una risorsa da utilizzare nell'azione), mentre una tassa che colpisce una transazione va direttamente a sanzionare l'azione stessa, quella di destinare i propri beni ai propri cari, come fosse un comportamento da punire o disincentivare, e in questo modo lo stato si manifesta come "etico", ente che interviene non tanto per una necessità pratica, ma per influenzare e alterare i comportamenti con cui i privati si relazionano a livello familiare-affettivo sulla base di un'idea di giustizia arbitraria, quindi si manifesta in una forma decisamente in contrasto con l'idea di stato liberale, moralmente neutro e rispettoso delle libertà individuali