l'insopportabile retorica del "guerriero"

Aperto da davintro, 22 Gennaio 2021, 23:26:32 PM

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davintro

Sempre più comune è la moda, soprattutto mediatica, di utilizzare una terminologia bellica nei discorsi che si riferiscono alle gravi malattie nelle quali le persone incappano. Il malato è presentato come "guerriero" che deve "combattere" la sua "battaglia" contro la malattia. In questo sempre più frequente atteggiamento linguistico si nascondono alcuni aspetti di una mentalità che meriterebbe quantomeno di essere oggetto di una sana critica. Il punto focale di questa mentalità, il più evidente, è una certa sovrastima della rilevanza della forza di volontà, della volontà di vivere, come fattore determinante il raggiungimento o meno della guarigione: definendo il malato come "guerriero",  si vuole lasciare intendere che, quanto più la "volontà di vivere" del paziente sia forte, tanto più aumenta la possibilità di "vincere la battaglia", di guarire. Conseguenza di ciò, chi muore, è perché "non ce la fatta", ha "perso la battaglia", perché magari, tutto sommato, non aveva abbastanza forza e voglia di vivere. Oltre a essere un concetto irrispettoso e offensivo per i morti, è evidente che, al di là della retorica volta all'incoraggiamento, funzionale per molti malati a non lasciarsi oltremisura abbattere e demotivare nelle loro attività quotidiane, ad essi si tende ad inculcare, tramite condizionamento linguistico, un eccessivo peso e senso di responsabilità, attribuendo alla loro volontà un esito della malattia nei cui confronti, realisticamente, hanno un peso ben maggiore il destino, l'entità della malattia, la qualità delle cure mediche. E mi pare evidente come tutto questo addossare la responsabilità del loro stato di salute a pazienti, rischi di produrre uno stress dovuto all'assumere se stessi come protagonisti del loro destino, che in persone che vivono situazioni così estreme può rivelarsi psicologicamente controproducente. Connesso a tutto ciò, c'è la proposizione in chiave moralista di un certo modello antropologico, da parte di chi tende a usare questo linguaggio militaresco, che si vuole subdolamente imporre, caratterizzato da  forza, coraggio, estroversione, le prerogative del "guerriero", posto come unico modello da seguire, a scapito della sensibilità, della ricettività, della timidezza, dello spirito contemplativo, che caratterizzano altri modelli di personalità, che in questo modo finiscono con l'essere quasi colpevolizzati, tacciati di arrendevolezza, come fosse colpa di chi in questi modelli caratteriali si riconosce, "la sconfitta", la morte. Più in generale si propone un'antropologia nella quale sembra venir meno la componente, fondamentale, della finitezza ontologica, il malato-guerriero incarna una concezione dell'essere umano che sembra potenzialmente invincibile, i cui momenti di debolezza e di sofferenza, anziché riconosciuti come dimensioni interne e connaturate, sono espressioni accidentali della malattia, un nemico esterno da combattere, l'esercito nemico che, per l'appunto, accidentalmente si è insediato nella cittadella del corpo, ed ora occorre raccogliere tutte le nostre forze per ricacciarlo (antesignana di questo approccio mentale/linguistico può esser considerata Oriana Fallaci, che definiva il suo tumore "l'alieno"). La fragilità, invece di essere riconosciuta come dimensione costitutiva dell'umano, diventa una colpa da condannare in nome del modello del guerriero che per vincere non può permettersi debolezze. Se per un aspetto questa retorica ha quantomeno il merito di recuperare un margine di autonomia dello psichico e dello spirituale all'interno dell'antropologia, per cui il malato cessa di vedersi come "ridotto" alla sua malattia, cioè ha la possibilità di essere, seppur secondariamente rispetto al lavoro dei medici, poter contribuire psichicamente al suo percorso di guarigione, dall'altro questo  ruolo dello psichico e dello spirituale, della volontà, viene per un verso come sopravvalutato ed esasperato, conducendo la persona a individuare un modello di personalità irrealistico, che per ottenere la guarigione "basta volerlo veramente", nei cui confronti svalutare l'effettiva realtà imperfetta della sua vita, sempre in buona parte in balia di fattori non dipendenti dalla sua forza di volontà, dall'altro viene moralisticamente identificato come qualcosa da orientare verso un certo tipo di approccio alla malattia posto come l'unico "corretto possibile" sulla base di un aderire a una tipologia caratteriale che non può e non deve essere la stessa per tutti.

Eutidemo

Ciao Davintro.
Sono perfettamente d'accordo, e mi astengo dal commentare il tuo testo, perchè, sinceramente, non credo che sarei riuscito ad esprimere meglio il concetto.
:)
***
Al riguardo, mi limiterò soltanto a citare, un po' liberamente, Epitteto, il quale scrisse: "Non devi volere che le cose vadano come vuoi, ma volere che le cose vadano come vanno; tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale si svilupperà, secondo la volontà del Poeta, non secondo la tua."
Con questo non intendo dire che, se uno è malato, non debba "desiderare" di guarire, e fare tutto il possibile per ottenere tale scopo;  però, come appunto scrive Epitteto, deve comunque  "volere" che le cose vadano come vanno.
Mi rendo conto che è una differenza un po' difficile da capire, ma, almeno secondo me, è molto importante!
***
Un saluto! :)
***

sapa

#2
Citazione di: davintro il 22 Gennaio 2021, 23:26:32 PM
Sempre più comune è la moda, soprattutto mediatica, di utilizzare una terminologia bellica nei discorsi che si riferiscono alle gravi malattie nelle quali le persone incappano. Il malato è presentato come "guerriero" che deve "combattere" la sua "battaglia" contro la malattia. In questo sempre più frequente atteggiamento linguistico si nascondono alcuni aspetti di una mentalità che meriterebbe quantomeno di essere oggetto di una sana critica. Il punto focale di questa mentalità, il più evidente, è una certa sovrastima della rilevanza della forza di volontà, della volontà di vivere, come fattore determinante il raggiungimento o meno della guarigione: definendo il malato come "guerriero",  si vuole lasciare intendere che, quanto più la "volontà di vivere" del paziente sia forte, tanto più aumenta la possibilità di "vincere la battaglia", di guarire. Conseguenza di ciò, chi muore, è perché "non ce la fatta", ha "perso la battaglia", perché magari, tutto sommato, non aveva abbastanza forza e voglia di vivere. Oltre a essere un concetto irrispettoso e offensivo per i morti, è evidente che, al di là della retorica volta all'incoraggiamento, funzionale per molti malati a non lasciarsi oltremisura abbattere e demotivare nelle loro attività quotidiane, ad essi si tende ad inculcare, tramite condizionamento linguistico, un eccessivo peso e senso di responsabilità, attribuendo alla loro volontà un esito della malattia nei cui confronti, realisticamente, hanno un peso ben maggiore il destino, l'entità della malattia, la qualità delle cure mediche. E mi pare evidente come tutto questo addossare la responsabilità del loro stato di salute a pazienti, rischi di produrre uno stress dovuto all'assumere se stessi come protagonisti del loro destino, che in persone che vivono situazioni così estreme può rivelarsi psicologicamente controproducente. Connesso a tutto ciò, c'è la proposizione in chiave moralista di un certo modello antropologico, da parte di chi tende a usare questo linguaggio militaresco, che si vuole subdolamente imporre, caratterizzato da  forza, coraggio, estroversione, le prerogative del "guerriero", posto come unico modello da seguire, a scapito della sensibilità, della ricettività, della timidezza, dello spirito contemplativo, che caratterizzano altri modelli di personalità, che in questo modo finiscono con l'essere quasi colpevolizzati, tacciati di arrendevolezza, come fosse colpa di chi in questi modelli caratteriali si riconosce, "la sconfitta", la morte. Più in generale si propone un'antropologia nella quale sembra venir meno la componente, fondamentale, della finitezza ontologica, il malato-guerriero incarna una concezione dell'essere umano che sembra potenzialmente invincibile, i cui momenti di debolezza e di sofferenza, anziché riconosciuti come dimensioni interne e connaturate, sono espressioni accidentali della malattia, un nemico esterno da combattere, l'esercito nemico che, per l'appunto, accidentalmente si è insediato nella cittadella del corpo, ed ora occorre raccogliere tutte le nostre forze per ricacciarlo (antesignana di questo approccio mentale/linguistico può esser considerata Oriana Fallaci, che definiva il suo tumore "l'alieno"). La fragilità, invece di essere riconosciuta come dimensione costitutiva dell'umano, diventa una colpa da condannare in nome del modello del guerriero che per vincere non può permettersi debolezze. Se per un aspetto questa retorica ha quantomeno il merito di recuperare un margine di autonomia dello psichico e dello spirituale all'interno dell'antropologia, per cui il malato cessa di vedersi come "ridotto" alla sua malattia, cioè ha la possibilità di essere, seppur secondariamente rispetto al lavoro dei medici, poter contribuire psichicamente al suo percorso di guarigione, dall'altro questo  ruolo dello psichico e dello spirituale, della volontà, viene per un verso come sopravvalutato ed esasperato, conducendo la persona a individuare un modello di personalità irrealistico, che per ottenere la guarigione "basta volerlo veramente", nei cui confronti svalutare l'effettiva realtà imperfetta della sua vita, sempre in buona parte in balia di fattori non dipendenti dalla sua forza di volontà, dall'altro viene moralisticamente identificato come qualcosa da orientare verso un certo tipo di approccio alla malattia posto come l'unico "corretto possibile" sulla base di un aderire a una tipologia caratteriale che non può e non deve essere la stessa per tutti.
Ciao Davintro, concordo  con te su molte cose. Ragionando su questi argomenti, che possono toccare molto da vicino chiunque, io credo, da (per ora) sano, che potrei identificarmi, nel caso di una diagnosi/prognosi infausta, nella categoria "fragile/pessimista", non dico rifiutando le cure, ma intimamente certo che, se la malattia che ha deciso di prendermi è cattiva, molto probabilmente vincerà lei. La retorica del guerriero,come dici giustamente, è funzionale a certi tipi di carattere, per poter mantenere uno standard qualitativo nella propria esistenza e nelle proprie attività/scelte. A mia moglie è stato diagnosticato nel 2012 un tumore maligno al seno ( un tumore che è ragionevolmente curabile, se preso in tempo) e l'ho vista e aiutata, per quanto ho potuto, a lottare. E' stata una lotta silenziosa, oscura, dolorosa, assai poco retorica,  ma caparbia, durante la quale io ho dovuto fare sforzi giganteschi per nascondere il mio fondamentale pessimismo, ma che è stata vinta. Al di là della retorica, in campo sanitario ci sono vittorie e, purtroppo, sconfitte.  In realtà, a mio avviso, ci sono solo le vittorie, chi purtroppo lotta e non ce la fa, o addirittura rinuncia alla lotta con la malattia, in realtà non perde niente, se non la vita.

Eutidemo

Citazione di: sapa il 23 Gennaio 2021, 11:42:54 AM
Citazione di: davintro il 22 Gennaio 2021, 23:26:32 PM
Sempre più comune è la moda, soprattutto mediatica, di utilizzare una terminologia bellica nei discorsi che si riferiscono alle gravi malattie nelle quali le persone incappano. Il malato è presentato come "guerriero" che deve "combattere" la sua "battaglia" contro la malattia. In questo sempre più frequente atteggiamento linguistico si nascondono alcuni aspetti di una mentalità che meriterebbe quantomeno di essere oggetto di una sana critica. Il punto focale di questa mentalità, il più evidente, è una certa sovrastima della rilevanza della forza di volontà, della volontà di vivere, come fattore determinante il raggiungimento o meno della guarigione: definendo il malato come "guerriero",  si vuole lasciare intendere che, quanto più la "volontà di vivere" del paziente sia forte, tanto più aumenta la possibilità di "vincere la battaglia", di guarire. Conseguenza di ciò, chi muore, è perché "non ce la fatta", ha "perso la battaglia", perché magari, tutto sommato, non aveva abbastanza forza e voglia di vivere. Oltre a essere un concetto irrispettoso e offensivo per i morti, è evidente che, al di là della retorica volta all'incoraggiamento, funzionale per molti malati a non lasciarsi oltremisura abbattere e demotivare nelle loro attività quotidiane, ad essi si tende ad inculcare, tramite condizionamento linguistico, un eccessivo peso e senso di responsabilità, attribuendo alla loro volontà un esito della malattia nei cui confronti, realisticamente, hanno un peso ben maggiore il destino, l'entità della malattia, la qualità delle cure mediche. E mi pare evidente come tutto questo addossare la responsabilità del loro stato di salute a pazienti, rischi di produrre uno stress dovuto all'assumere se stessi come protagonisti del loro destino, che in persone che vivono situazioni così estreme può rivelarsi psicologicamente controproducente. Connesso a tutto ciò, c'è la proposizione in chiave moralista di un certo modello antropologico, da parte di chi tende a usare questo linguaggio militaresco, che si vuole subdolamente imporre, caratterizzato da  forza, coraggio, estroversione, le prerogative del "guerriero", posto come unico modello da seguire, a scapito della sensibilità, della ricettività, della timidezza, dello spirito contemplativo, che caratterizzano altri modelli di personalità, che in questo modo finiscono con l'essere quasi colpevolizzati, tacciati di arrendevolezza, come fosse colpa di chi in questi modelli caratteriali si riconosce, "la sconfitta", la morte. Più in generale si propone un'antropologia nella quale sembra venir meno la componente, fondamentale, della finitezza ontologica, il malato-guerriero incarna una concezione dell'essere umano che sembra potenzialmente invincibile, i cui momenti di debolezza e di sofferenza, anziché riconosciuti come dimensioni interne e connaturate, sono espressioni accidentali della malattia, un nemico esterno da combattere, l'esercito nemico che, per l'appunto, accidentalmente si è insediato nella cittadella del corpo, ed ora occorre raccogliere tutte le nostre forze per ricacciarlo (antesignana di questo approccio mentale/linguistico può esser considerata Oriana Fallaci, che definiva il suo tumore "l'alieno"). La fragilità, invece di essere riconosciuta come dimensione costitutiva dell'umano, diventa una colpa da condannare in nome del modello del guerriero che per vincere non può permettersi debolezze. Se per un aspetto questa retorica ha quantomeno il merito di recuperare un margine di autonomia dello psichico e dello spirituale all'interno dell'antropologia, per cui il malato cessa di vedersi come "ridotto" alla sua malattia, cioè ha la possibilità di essere, seppur secondariamente rispetto al lavoro dei medici, poter contribuire psichicamente al suo percorso di guarigione, dall'altro questo  ruolo dello psichico e dello spirituale, della volontà, viene per un verso come sopravvalutato ed esasperato, conducendo la persona a individuare un modello di personalità irrealistico, che per ottenere la guarigione "basta volerlo veramente", nei cui confronti svalutare l'effettiva realtà imperfetta della sua vita, sempre in buona parte in balia di fattori non dipendenti dalla sua forza di volontà, dall'altro viene moralisticamente identificato come qualcosa da orientare verso un certo tipo di approccio alla malattia posto come l'unico "corretto possibile" sulla base di un aderire a una tipologia caratteriale che non può e non deve essere la stessa per tutti.
Ciao Davintro, concordo  con te su molte cose. Ragionando su questi argomenti, che possono toccare molto da vicino chiunque, io credo, da (per ora) sano, che potrei identificarmi, nel caso di una diagnosi/prognosi infausta, nella categoria "fragile/pessimista", non dico rifiutando le cure, ma intimamente certo che, se la malattia che ha deciso di prendermi è cattiva, molto probabilmente vincerà lei. La retorica del guerriero,come dici giustamente, è funzionale a certi tipi di carattere, per poter mantenere uno standard qualitativo nella propria esistenza e nelle proprie attività/scelte. A mia moglie è stato diagnosticato nel 2012 un tumore maligno al seno ( un tumore che è ragionevolmente curabile, se preso in tempo) e l'ho vista e aiutata, per quanto ho potuto, a lottare. E' stata una lotta silenziosa, oscura, dolorosa, assai poco retorica,  ma caparbia, durante la quale io ho dovuto fare sforzi giganteschi per nascondere il mio fondamentale pessimismo, ma che è stata vinta. Al di là della retorica, in campo sanitario ci sono vittorie e, purtroppo, sconfitte.  In realtà, a mio avviso, ci sono solo le vittorie, chi purtroppo lotta e non ce la fa, o addirittura rinuncia alla lotta con la malattia, in realtà non perde niente, se non la vita.
In fondo non ha "perso" neanche quella, perchè, per "perdere" qualcosa e poterla "rimpiangere", bisogna "esserci"; e chi muore ormai non c'è più, per cui non può aver perso nulla!
;)

InVerno

#4
Correggimi se sbaglio, ma mi sembra un fenomeno molto simile alla retorica "eroica" intorno al personale sanitario, salvo con scopi forse diversi,e forse ancora meno benigni. Non solo in termini di azioni eroiche, ma anche di morte eroica, che quasi li destituisce del concetto di "vittime" e li insignisce della "morte da eroi". Se fossi malato, penso che vivrei la retorica del "guerriero" come un ronzio di fondo, così come se fossi un medico trattarei la retorica degli "eroi", narrare va ad uso e consumo degli spettatori, più che dell'individuo che intendono proteggere, sia l'eroe che il guerriero esorcizzano la paura della morte, nei sani e nei pazienti.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

niko

Questo modello c'è da un bel po' di tempo in occidente, ma adesso siamo alla sua apoteosi collettiva e
maturamente social-capitalista, siccome siamo tutti potenziali malati, di coronavirus naturalmente, siamo tutti potenziali "guerrieri" perché dobbiamo "difendere" noi stessi e gli altri dal "terribile morbo", quindi dalla retorica del duello e della battaglia, che già ci sorbiamo da decenni, siamo passati esplicitamente alla retorica della guerra -di massa e a cui nessuno può sfuggire-, io non riesco tanto a scrivere con lucidità di questo perché ne sono veramente, umanamente, nauseato, io penso che la società
post-moderna del duemila si stia riappropriando di aspetti disciplinari propriamente novecenteschi e uno di questi è la retorica, e purtroppo anche la prassi, della guerra applicata ad una -blanda e sovrastimata- pandemia.


Come prassi tale guerra è la guerra di trincea, prima guerra mondiale, nel migliore dei casi si sta chiusi in un buco a non fare un cavolo e ad aspettare il rancio/sussidio del governo, nel peggiore si crepa, fisicamente e moralmente, come teoria essa è invece la seconda guerra mondiale, guerra totale ad un nemico ideologico, perché un virus arbitrariamente distinto da tutte gli altri e da tutte le malattie simili, e considerato come un alieno e un pericolo esterno quando in realtà la morte, e tanto più la malattia, fanno parte della vita, è, un nemico ideologico, la sua essenza non ha nessuna realtà e nessun contatto con la realtà, serve solo a giustificare una dittatura.


Con questa storia della guerra, giustificano la cancellazione di tutti i nostri diritti, non si può più camminare liberamente per strada perché c'è la guerra, non si possono invitare più di due persone a casa perché c'è la guerra, se cambio regione ti devo dare giustificazioni perché c'è la guerra, ma scherziamo?!


Chi ha detto che un fatto naturale come un'epidemia si debba affrontare come una guerra?
La guerra a chi? All'uomo stesso?


Con questa pseudo volontà di vivere che dovrebbe giustificare il tutto che poi non c'è, è fuffa, anche la volontà di vivere che dovrebbe giustificare la guerra al virus è falsa, perché è mera volontà di sopravvivenza, respirare e avere il cuore che batte mentre si è in una squallida gabbia non è vivere, quindi è solo volontà di campare, di tirare avanti, che come argomento di persuasione funziona solo su chi è interiormente terrorizzato, già morto... lo schiavo deve essere in salute quel tanto che gli basta per produrre in efficienza, e comunque abbastanza ignorante e logorato perché non si ribelli, su questi parametri la calcolano e la calibrano, la nostra presunta "salute".


Ma il bello è che soprattutto, come massimo dovere militare, dobbiamo, e dovremo, tutti morire di fame, perché c'è la guerra: adesso ci presentano il conto, di tutto il bel sistema parassitario e securitario che ci hanno costruito intorno, che qualcuno ancora pensa che sia gratis...





Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

bobmax

La retorica del guerriero è ormai pervasiva.
È infatti presente in ogni ambito. Non solo nella malattia, pure nel lavoro si vale solo vincendo, guadagnando di più degli altri, facendo carriera.
Così come bisogna lottare per essere belli ad ogni costo.
E per possedere, magari anche solo un abito firmato...

La lotta è però intrinseca nella nostra natura. Siamo qui perché abbiamo lottato.

Solo che adesso pare essere diventata la sola scelta ammissibile di vita.

Ritengo che questa evoluzione sia inevitabile.
Perché con la fine di ogni "verità" assoluta ciò che rimane è la volontà di potenza.

Che tuttavia non è semplicemente un delirio, ma anch'essa in definitiva una ricerca.

Ma cosa cerca la volontà di potenza?
Secondo me non può che cercare il proprio annullamento.
Agognata catarsi, dove l'io è infine riconosciuto illusione.

Volendo, finisco per ritrovarmi davanti ad una situazione dove la mia volontà è assolutamente inessenziale.

Come quando la morte mi sfiora. Ciò che era vivo, amato, ora è morto. E non c'è alcuna volontà che tenga...

Un muro insuperabile, che mi rigetta su me stesso.

Allora posso accorgermi di non poter volere nient'altro che ciò che voglio...
Che cioè voglio ciò che devo volere.

E questo stesso "accorgermi" non dipende da me.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

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