Il braccio della morte

Aperto da Eutidemo, 04 Novembre 2024, 18:12:44 PM

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Eutidemo

Io sono personalmente contrario alla pena di morte, per una serie di ragioni, che, però, esulano da questa mia trattazione; la quale, invece, vuol mettere in evidenza i tragicomici paradossi della pena di morte, laddove viene eseguita in modo "civile", nei cosiddetti "bracci della morte".
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1)
In pressochè tutte le legislazioni degli Stati in cui si pratica la  pena di morte, vige una regola ferrea: il condannato non può essere soppresso quando è gravemente ammalato.
Ed infatti esistono casi, nei quali dei malati terminali di cancro, sono stati salvati da una magistrale operazione chirurgica; poi, però, una volta tornati in perfetta salute, sono stati soppressi con una iniezione letale dallo stesso medico che aveva salvato la loro vita (ovvero, da quello del braccio della morte).
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2)
La regola ferrea per la quale il condannato non può essere soppresso quando è gravemente ammalato, ovviamente, vale anche per le malattie mentali; le quali, almeno in determinati Stati, sono molto spesso determinate:
- dalle condizione di estrema segregazione i cui vivono i reclusi nel braccio della morte in quasi tutti gli Stati che praticano la pena capitale;
- dalle condizione di terribile stress i cui vivono, anche per anni, i reclusi nel braccio della morte in molti Stati che praticano la pena capitale.
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Nel 2010, ad esempio, un detenuto nel braccio della morte ha aspettato per ben 15 anni la propia esecuzione; la quale, annunciatagli in media una volta all'anno come imminente (a giorni o ad ore), è poi stata rinviata all'ultimo minuto per le più svariate ragioni.
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Per tale ragione, quasi un quarto dei detenuti nel braccio della morte negli Stati Uniti muore  in attesa di esecuzione; ed un'altra buona quota dei sopravvissuti, "impazzisce" per l'attesa e per le condizioni di estrema segregazione a cui è costretto.
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Questi ultimi sono i più fortunati, perchè, per la ferrea regola per la quale il condannato non può essere soppresso quando è gravemente ammalato, vale anche per chi impazzisce; ammesso e non concesso che si possa definire una "fortuna" diventare pazzo!
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Questo è quanto accade nei Paesi (cosiddetti) "civili", figuriamoci come vanno le cose nei Paesi "incivili"; forse meglio, perchè, sebbene in modo più brutale, almeno i condannati li uccidono subito, sani o malati che essi siano.
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Eutidemo

                                  COROLLARIO
Per correttezza di esposizione, occorre tuttavia considerare due aspetti della faccenda.
1)
Sopprimere un condannato "intubato", ovvero in stato di "coma farmacologico", può psicologicamente risultare più arduo per il boia; soprattutto se è contrario all'eutanasia (io, invece, sono favorevole).
2)
Circa la "durata della detenzione nel braccio della morte", occorre considerare che questo dipende anche dal tempo concesso agli avvocati del condannato per cercare di evitare la pena di morte; come viene spesso dettagliatamente illustrato nei romanzi di Jhon Grisham ("L'appello", "Io confesso", "L'avvocato canaglia" ecc.).
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Al riguardo si consideri:
1. La condanna a morte e il c.d. "death row phenomenon".
Il braccio della morte, ovvero il luogo in cui il condannato si trova ad attendere l'esecuzione della pena capitale sin dal momento della condanna, è stato a lungo al centro del dibattito giuridico nazionale e sovranazionale, in cui si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra la salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti umani ed il perseguimento delle logiche della pena capitale.
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2. In quest'ottica, la tutela costituzionale dei valori fondamentali dell'individuo si tradurrebbe nelle scelte dei singoli ordinamenti che, in varia misura, possono essere ispirate a principi tra loro divergenti: da un lato, la correttezza procedurale, e dall'alto la maggiore efficacia dello strumento sanzionatorio.
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3. La delicata questione è stata oggetto di una riflessione del Justice Breyer della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale, nella sentenza Glossip c. Gross, ha evidenziato sotto forma di dissenting opinion l'angusto "dilemma" che affligge la pratica della pena di morte.
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4. Ed infatti, secondo il giudice, "in un sistema concernente la pena di morte che ricerchi la correttezza procedurale, l'affidabilità conduce a ritardi che aggravano seriamente la crudeltà della pena capitale e pregiudicano significativamente la logica dell'irrogazione di una condanna a morte, [mentre] un sistema che riducesse i ritardi pregiudicherebbe gli sforzi dell'ordinamento giuridico di assicurare l'affidabilità e la correttezza procedurale".
5. Il dilemma verrebbe pertanto ad essere ridotto all'"aut aut" tra una pena di morte presumibilmente funzionale a perseguire legittimi scopi penologici, oppure un sistema procedurale che, presumibilmente, ricerchi affidabilità e correttezza nell'applicazione di tale pena.
All'interno di questo dualismo, che sovente si traduce in soluzioni di prevalenza – e non di totale esclusione – dell'uno sull'altro, si colloca poi la questione degli effetti del tempo trascorso dal condannato nel braccio della morte.
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In questo senso, con l'espressione "death row phenomenon" si indica l'insopportabile ritardo legato all'angoscia onnipresente e crescente relativa all'esecuzione della pena capitale, attraverso un giudizio incentrato sulla persona del ricorrente, ovvero con particolare attenzione alla sua età e al suo stato mentale all'epoca del reato, con il reale rischio di sottoporre lo stesso ad un trattamento inumano e degradante.
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L'esistenza del braccio della morte non deve però portare a concludere che qualsiasi ritardo costituisca un trattamento disumano; poiché, altrimenti, l'alternativa di prevedere una esecuzione immediatamente successiva alla sentenza costituirebbe una patente violazione del diritto all'appello, alla revisione della condanna oppure alla richiesta di provvedimenti di clemenza, evitabile soltanto attraverso la strada dell'abolizione.
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Occorre pertanto fare chiarezza su un duplice interrogativo: da un lato quello di cercare di definire il vasto orizzonte temporale che connatura il c.d. "death row phenomenon" e dall'altro quello di individuare il momento a partire dal quale l'attesa del condannato cesserebbe di essere giustificata, esponendolo a sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili[9].
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Nonostante l'assenza di una soluzione univoca sul punto da parte della giurisprudenza delle varie corti supreme e costituzionali, si evidenzia come alcune di esse, in realtà, abbiano intrapreso percorsi convergenti, circoscrivendone la durata "massima" una volta che il provvedimento è divenuto definitivo.
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Le prime pronunce in tale direzione si devono alla Corte suprema indiana la quale, nel 1983, aveva in un primo momento riconosciuto come disumanizzante la permanenza del detenuto nel braccio della morte per un periodo superiore a due anni, periodo entro il quale si sarebbero dovuti esaurire tutti i rimedi esperibili contro il provvedimento che dispone la pena capitale.
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Poco dopo, tuttavia, la Corte è tornata sui propri passi, dapprima evidenziando le perplessità relative alla portata applicativa che la soluzione avrebbe potuto avere; poi attraverso un "overruling", affermando come non possa essere predeterminato alcun termine fisso di ritardo a partire dal quale avrebbero origine le insopportabili sofferenze del condannato.
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Una diversa chiave di lettura rispetto all'approdo finale della Corte indiana è invece offerta dalla giurisprudenza del Judicial Committee del Privy Council e della Corte suprema dello Zimbabwe, che hanno ritenuto disumana o degradante la permanenza nel braccio della morte per una durata superiore, rispettivamente, ai 52 e 72 mesi nell'uno, e cinque anni nell'altro caso.
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Sulla stessa scia sembra inserirsi anche la decisione della Corte Costituzionale dell'Uganda del 2005, con la quale i Justices hanno stabilito che l'esecuzione della condanna configura un trattamento disumano quando viene condotta oltre il termine di tre anni dal momento in cui il provvedimento diviene definitivo – e non, come nei casi precedenti, dalla emissione della prima sentenza – costituendo, al contempo, il termine massimo per decidere sulla domanda di grazia del condannato.
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Tuttavia tali concezioni, in cui la sofferenza dell'individuo viene ad identificarsi nella eccessiva durata o nell'eccessivo numero dei giudizi che, a vari livelli, consentono di ribaltare la condanna oppure di convertirne la pena, non hanno trovato terreno fertile nel dibattito giuridico di altri paesi retenzionisti.
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Nell'ordinamento statunitense, in cui la Corte suprema federale USA ha sempre negato le varie richieste di "Certiorari" sull'argomento, non sono mancate, da parte di corti d'appello, visioni di segno diametralmente opposto.
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In questo contesto, il ritardo nella esecuzione viene difatti concepito come una conseguenza necessaria che sul piano pratico segue l'elenco di strumenti processuali forniti al condannato, cosicché la scelta di volerne profittare non renderebbe il ritardo contrario alla Costituzione; mentre l'accoglimento di una qualsiasi domanda di questa natura potrebbe fornire un pericoloso incentivo a ritardarne volontariamente le tempistiche.
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Questa "diversità di ritardo" che contraddistingue l'ordinamento statunitense riflette al contempo una diversa percezione della sofferenza del condannato: l'interminabile attesa cui esso è sottoposto non costituirebbe la causa di sofferenze fisiche e psicologiche, quanto piuttosto l'unica fonte della speranza di poter godere, anche solo per più tempo ed all'interno di strutture detentive, del proprio bene "vita".
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