I dialetti romani

Aperto da Eutidemo, 15 Maggio 2021, 13:52:33 PM

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Eutidemo

Dante, nel "De Vulgari Eloquentia", scrive: "Dicimus igitur Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, italorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere" (Dante "De Vulgari Eloquentia" XI 2).
Cioè, tradotto un po' liberamente, secondo Dante, la lingua che si parlava a Roma nella sua epoca, era la più brutta e turpe d'Italia; anzi,  non si poteva neanche considerare un "volgare" vero e proprio (come quello da lui usato nella Divina Commedia), bensì un vero e proprio "tristiloquio".
E poi aggiungeva  che non c'era affatto da stupirsi della cosa, visto che i Romani del suo tempo avevano la palma italiana della "turpitudine" sia nei  costumi sia nelle fogge del vestire (e, per giunta, puzzavano pure come maiali); questo, secondo  il parallelismo, tradizionale, fra linguaggio, "mores" e "habitus", che ricorre spesso nel suo trattato.
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Tuttavia il dialetto romano dell'epoca di Dante, non aveva niente a che vedere con quello attuale; o meglio, con "quelli" più o meno attuali.
A dire il vero, non sappiamo bene neanche quale fosse, perchè Dante ci porta come esempio solo una breve frase nel dialetto romano dell'epoca "Messure, quinto dici?", cioè, immagino che volesse dire: "Che cosa dici Messere?"  (Dante "De Vulgari Eloquentia" XI 2).
Si presume che tale dialetto fosse molto simile all'attuale "ciociaro"; mentre adesso, il "ciociaro" (anche come semplici accenti), è completamente diverso dalla lingua che si parla a Roma.
Il che costituisce una particolarità di tale idioma, perchè sembra che in nessuna altra parte d'Italia ci sia una così accentuata differenza tra il dialetto che si parla in città, e quello che si parla nel contado; ovvero nelle più vicine città della stessa regione.
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Più in dettaglio, infatti, nel Lazio, attualmente si parlano principalmente i seguenti dialetti:
- il romanesco (e, ancor di più, il "romanaccio" e il "borgataro")
-il ciociaro;
- il sabino.
Inoltre, più o meno affini con l'uno o con l'altro dei precedenti, nel Lazio si parlano anche i dialetti dei Castelli Romani,  i dialetti della Tuscia viterbese,  il dialetto laziale meridionale e, in alcune aree al confine con la Campania, il dialetto campano.
Nelle zone dell'agro pontino, si parla, invece,  il dialetto "venetopontino"; il quale, però, appartiene precipuamente ai dialetti veneti.
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In questa sede, però, io intendo trattare in modo specifico del "romanesco" propriamente detto; con qualche accenno anche al "romanaccio" e al "borgataro".
Tale dialetto, che presenta caratteristiche notevolmente diverse da tutti gli altri dialetti laziali, ovviamente, è diffuso soprattutto  a Roma (in determinati quartieri storici), ma, stranamente, anche in alcune zone meridionali della provincia di Viterbo e nella zona costiera della città metropolitana; in particolare tra Civitavecchia e Anzio, ma in misura minore a Nettuno, il cui dialetto mantiene relitti fonetici e lessicali di tipo riconducibile ai dialetti dei Castelli romani.
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Ma come è nato il "romanesco" propriamente detto, che, come come sopra ho accennato, non ha niente a che vedere con il dialetto che trovò Dante quando venne a Roma per il giubileo dell'anno di grazia 1300, e che è così diverso da tutti gli altri dialetti laziali?
In un certo, si può dire che esso nacque "grazie" ai Tedeschi!
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Ed infatti, nel 1527 d.c. un'orda di quasi 40.000 soldati, armati di alabarde, archibugi e cannoni, al comando del Borbone -per conto di Carlo V-, per la maggior parte tedeschi di religione luterana (ma anche non pochi cattolicissimi Spagnoli e Italiani) investirono e devastarono selvaggiamente Roma; e lo fecero molto peggio di quanto fecero Brenno nel  387 a.c. e Alarico nel 410 d.c.
Ed infatti, al tempo del "Sacco dei Lanzi", la città di Roma contava, secondo il censimento pontificio realizzato tra la fine del 1526 e l'inizio del 1527, soltanto 55.035 abitanti; parte  dei quali provenienti da Firenze, immigrati a Roma in conseguenza dei due recenti papi della famiglia Medici.
Contro tale orda di 40.000 "barbari" assetati di sangue e di bottino, Roma potè quindi opporre soltanto 4.000 cittadini romani in armi; nonchè 189 mercenari svizzeri che formavano la guardia del pontefice, tutti morti combattendo fino all'ultimo uomo vicino all'obelisco di piazza San Pietro.
Alla fine del 1527, la cittadinanza di Roma fu ridotta quasi alla metà, a causa delle circa 20.000 morti provocate dai barbari invasori, dalla fame e dalle malattie; ma, in realtà, in città ne rimasero molti di meno, perchè in tanti erano fuggiti per non tornare mai più.
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Molti storici, pertanto, indicano il 1527 come la data simbolica in cui porre la fine del Rinascimento, di cui la Roma "medicea" costituiva il fulcro; e, sebbene questo possa risultare soggetto a diverse opinioni, non c'è però alcun dubbio sul fatto che tale data segnò una  radicale "contaminazione" dell'originario "tessuto etnico" della città, e del suo originario dialetto (quale che esso fosse).
Ed infatti, a partire da tale data, la città semideserta e le case vuote e abbandonate, vennero occupate sempre più massicciamente da immigrati toscani; ed anche, sebbene in molto minor misura, da immigrati umbri e marchigiani.
Dal rimescolamento dell'originario dialetto romano con il toscano, nacque il "Romanesco"; il quale, sostanzialmente, rimase lo stesso fino ai tempi del Belli.
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Però, dopo la successiva occupazione militare di Roma, molto meno "cruenta" ma molto più "sovvertitrice" della precedente, si verificò un nuovo più consistente rimescolamento della popolazione e della lingua dell'Urbe.
Ed infatti gli abitanti censiti a Roma nel 1871 erano in tutto 212.000 (principalmente preti, mendicanti e prostitute), e parlavano ormai tutti indistintamente il "romanesco" immortalato dal Belli; ma, a partire da tale data, in meno di un secolo gli abitanti di Roma si decuplicarono.
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Questa volta, però, l'immigrazione, a parte quella del personale impiegatizio piemontese, risultò  essere in prevalenza di ascendenza calabrese, marchigiana, campana, abruzzese, pugliese e siciliana.
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Il "romanesco", per così dire "puro" (ammesso e non concesso che esistano davvero "idiomi puri"), ormai, resiste solo in poche aree cittadine, soprattutto quelle abitate dai "Giudìi"; i quali sono gli abitanti più antichi di Roma (ed infatti, quella di Roma, è la più antica colonia ebraica d'Europa, risalente al 60 a.c.).
A parte i "Giudìi", quando ero bambino, rammento ancora che, ogni tanto, sentivo ancora qualcuno parlare in "romanesco"; a cominciare da mia nonna materna, che era nativa del quartiere di Borgo (spianato più tardi da Mussolini), e poi cresciuta a Trastevere.
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Quando parlava in dialetto, ad esempio, come passato remoto del verbo "andare", lei diceva "me n'andiedi (o "agnedi"), mentre io, quando parlo in dialetto, dico "me n'annai"; per cui mi rimproverava affermando che il mio era "romanaccio", e non "romanesco".
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A volte pregava persino in "romanesco": ad esempio, il giorno dei morti davanti alle foto dei genitori, diceva: "lusciattèi requia e scant'in pasce ammenne!".
Molto più tardi ho capito che voleva dire "luceat eis, requiescant in pace, amen", cioè l'"eterno riposo" in latino; ma non si trattava certo di reminescenze latine nel linguaggio popolare, bensì soltanto dell'imitazione delle preghiere ascoltate dal prete in chiesa.
Ed infatti, anche ai tempi della mia infanzia, la messa era recitata esclusivamente in latino!
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In "romanesco", lei diceva "froscio" o "frogio" (non rammento bene), e mi spiegò pure, almeno secondo lei, "donde" scaturiva tale termine; il quale, ormai, è stato messo giustamente  all'indice anche nella sua versione "romanaccia" di "frocio".
Secondo la sua etimologia, tale termine derivava da "frogia" (cioè, in romanesco, "narice"); un soprannome che veniva dato ai settentrionali, con riferimento alle narici mediamente più larghe di quelle dei romani. Poi, un po' alla volta il significato del termine mutò in quello di "omosessuale"; probabilmente, secondo lei, per via del maggior numero di omosessuali tra i settentrionali rispetto alla popolazione locale.
Personalmente, però, non mi risulta affatto che i settentrionali abbiano narici più larghe dei meridionali, nè che, comunque, siano maggiormente propensi all'omosessualità; tuttavia mi riservo di verificare la faccenda anche su INTERNET.
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Inoltre, sia pur molto raramente, mia nonna imprecava esclamando "Tartoifel"; imprecazione che, immagino, sia stata mutuata dalle Guardie Svizzere papaline, che bazzicavano soprattutto il quartiere di Borgo ("Der Teufel!", cioè, "Il Diavolo!").
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Il che mi fa venire in mente che, in romanesco e in inglese, esiste una parola identica, e con lo stesso significato: "core"!
"Lets go to the <<core>> of the problem!"
"'Nnamo ar <<core>> der probrema!"
Senza falsa modestia, credo di essere stato il primo al mondo a farci caso!
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Poi, mia nonna, diceva "incoppolare", mentre in "romanaccio" (e non solo) ormai si dice "scopare"; però, a ripensarci, in effetti, tale romanesco era più vicino all'italiano "copulare".
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Però, con tutto il rispetto per il romanesco di mia nonna, il Belli scrisse pure : "De tante donne che mme sò scopato...".
Ma "scopare" da dove viene?
Nel "De  vulgari eloquentia" Dante cita questa frase dialettale marchigiana della sua epoca, "Una fermana scopai da Cascioli, cita cita se 'n gìa 'n grande aina!" (Dante, "De  vulgari eloquentia" XI 3"); Dante, però, sbaglia un po' la citazione, perchè la versione originaria sembra tratta da una poesia di un certo  Messer Osmano di Castra, che, se non sbaglio, era toscano, e suonava: "Una fermana iscoppai da Cascioli, cietto cietto s'agia in grand'aina!".
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Per concludere la disamina, in ambito in verità un po' "scurrile" (come, spesso, siamo noi Romani), mentre ormai, sia in italiano sia in "romanaccio" prevale la ben più nota formula "vaffancxxx", nel "romanesco" veniva usata la più ridondante espressione "vattelappijàndercxxx"; che io, in verità, tutt'ora preferisco, pur parlando in "romanaccio".
Ed infatti:
a)
Sotto il profilo semantico:
- "vaffancxxx" mi sembra un po' troppo vago e generico, perchè, in quel posto, si possono "fare" svariate cose (sia passivamente che attivamente):
- "vattelappijàndercxxx", invece, sebbene l'ovvio "complemento oggetto" sia sottinteso, mi sembra un invito molto più preciso e circostanziato ad andare a prenderlo in quel posto (solo passivamente).
b)
Sotto il profilo psicologico, è ormai dimostrato scientificamente che la formula "vattelappijàndercxxx", soprattutto se più riccamente arrotondata in "mavvedidannattelapijàndercxxx", risulta psicologicamente molto più appagante e gratificante per chi la pronuncia; sebbene non sempre per chi la riceve, qualora non abbia le giuste propensioni passive.
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Ciò detto del "romanesco" e del "romanaccio", resterebbe da parlare del "borgataro"; cioè del greve "slang" suburbano e sottoculturale delle periferie romane.
Ma, al riguardo, secondo me, concludendo il "ciclo storico vichiano",  parafrasando un po' Dante potremmo tornare a dire: "Dicimus igitur Borgatarum non vulgare, sed potius tristiloquium, italorum vulgarium omnium esse turpissimum; nec mirum, cum etiam morum habituumque deformitate pre cunctis videantur fetere"
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Lady Joan Marie

Io conosco solo Trilussa come poeta del mitico romanesco e lo trovo eccezionale!  :-*

Eutidemo

Ciao Lady Joan Marie.
Sì, è vero, Trilussa era eccezionale!
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Mio nonno materno, pur essendo un abruzzese trasferito a Roma, tuttavia era diventato amico di Trilussa, frequentando gli stessi ambienti; per cui, al riguardo, posso raccontarti un divertente episodio inedito a cui assistette personalmente mio zio da bambino.
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Molto spesso, di domenica, Trilussa e mio nonno si incontravano a Piazza del Popolo, per andare insieme a pranzo in un ristorante lì vicino; e Trilussa, di solito, lo salutava romanamente con un risonante: "A fiijo de 'na mignotta!"
Mio nonno, che era abruzzese, non gradiva molto questo modo scurrile di salutare, tipico di noi romani; però, avendo capito l'uso, ormai abbozzava.
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Tuttavia, una volta, si portò dietro mio zio, che era ancora bambino; per cui, quando Trilussa lo salutò in tal modo in presenza del figlio, si indispose un po', e lo rimproverò: "Ma daiii, non vedi che c'è pure mio figlio?"
E Trilussa, con fare contrito: "E' vero, hai ragione! Scusa, non me n'ero accorto!", e chinatosi verso mio zio, salutò anche lui così: "Ciao, nipotino de 'na mignotta!".
Mio nonno, per fortuna, la prese a ridere.
:D :D :D
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Un saluto!
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P.S.
L'aneddoto familiare è inedito!

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