Gli "anglicismi": Draghi e Zaia

Aperto da Eutidemo, 14 Marzo 2021, 14:56:16 PM

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Eutidemo

La battuta di Draghi sullo "smart working" mi è piaciuta moltissimo; quasi meditando tra sè e se, infatti, ha esclamato: "Ma perché mai tutte queste parole inglesi?"
Tra l'altro, in effetti, lo stesso termine "smart working", in inglese, allude più che altro alla "flessibilità" dei processi lavorativi nell'ambito delle nuove tecnologie che rendono il lavoro più "intelligente" (quindi più "smart"); quello che in Italia intendiamo per "lavoro agile" o "lavoro da casa", in Inghilterra si chiama "working from home" oppure "remote working" e ancora "telecommuting"...ma non certo  "smart working"!
E poi non mi è ben chiaro perchè mai si debba usare il "gerundio" ("working") invece del "sostantivo" ("work"); sarà pure una moda, ma a me sembra una moda insensata e sintatticamente illogica, a prescindere dalla circostanza che gli inglesi la usino o meno.
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Qui in Italia, comunque, la definizione che ne dà il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è la seguente: "lo 'Smart Working', ovvero il 'Lavoro Agile' è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività".
Tale traduzione non è del tutto corretta, perchè "smart", in inglese, a seconda dei casi in cui si usa tale locuzione, vuol dire "intelligente", "capace", "attivo", "brillante", "alla moda", ecc., ma, di sicuro, non vuol dire "agile" (che loro, a seconda dei casi, esprimono con i termini "nimble", "lithe", "limber", "fleet" ecc.); però, tale definizione, tutto sommato, è abbastanza "funzionale" per gli scopi che si prefigge la Legge 22 maggio 2017 n. 81.
Ho notato, però,  che, in pratica, tale terminologia viene spesso usata a sproposito, in quanto anche tale versione "maccheronica" del termine viene usata per definire fenomeni diversi (sebbene affini), quali, il "flexible working", che costituisce la categoria più generale di tutte, il "remote working", che è soltanto una sottocategoria del"flexible working", l'"agile working", che è una cosa ancora diversa, consistendo in un insieme di pratiche che tendono ad ottimizzare il modo di lavorare enfatizzando la "proattività", ecc.ecc.
Di fatto, però, almeno a quanto mi risulta, in tempo di COVID, in genere si fa ricorso a forme molto più elementari di puro e semplice "telelavoro all'italiana" (che esisteva già venti anni fa); il quale si svolge prevalentemente con un normale telefono, e, ma solo nei casi migliori e laddove la cosa sia praticabile, per mezzo di elaborazione di pratiche attraverso il computer.
Ma su queste terminologie linguistiche, bisognerebbe aprire un "topic" a parte (tanto per usare un'altro "anglicismo"), per cui torniamo al nostro tema.
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Se l'azzeccata battuta di Draghi sullo "smart working" mi è piaciuta moltissimo, quella di Zaia mi è piaciuta ancora di più; perchè, sia pure involontariamente, ha dimostrato come a voler fare "scena" con un'idioma altrui, spesso si rischia di fare delle figuracce (talvolta capita anche a me, come racconterò in seguito).
Ed infatti, il "ruspante" governatore veneto, parlando in conferenza stampa delle categorie più fragili e il loro accesso al vaccino anti-Covid, ha definito i "caregiver" come 'coloro che fanno da autisti alle persone non autosufficienti e disabili'; forse confondendo "caregiver" con un improbabile "cardriver".
Il governatore, infatti:
- prima ha sbagliato la pronuncia del termine, sostituendo a "care" (cura) la parola "car" (automobile);  ed infatti la prima si pronuncia "cher" con le "e", la seconda "car" con la "a", così come è scritta;
- poi è scivolato anche sul significato dell'espressione, entrata nell'uso comune, che definisce i familiari che assistono un congiunto malato o disabile, e non gli autisti dei disabili, cioè "caregiver".
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A questo punto, però, secondo me occorre distinguere tra:
1) "Pseudoanglicismi".
Ad esempio:
- "book" (fotografico), che in inglese si chiama "artist's portfolio";
- "autogrill", che in inglese non esiste e si dice "motorway service area";
- "autostop", il cui corrispettivo inglese è "hitchhiking";
- "smoking", che in inglese si chiama "dinner jacket" e in americano "tuxedo".
Al riguardo, rammento che la mia divisa militare "da cerimonia serale", si chiamava, appunto, "dinner jacket"; però assomigliava molto di più ad un "frac" (da "frock coat", ovvero "redingote"), che non al mio vestito civile  "da cerimonia serale"; che, come tutti, anch'io ho sempre chiamato "smoking".
2) "False friends" (falsi amici).
Sono le locuzioni più ingannevoli di tutte, perchè si tratta di parole inglesi che somigliano molto a quelle italiane, però hanno un significato differente.
Ad esempio
- "abstemious" in inglese vuol dire "frugale" e non "astemio", mentre  "astemio", invece, si dice "teetotal" (un noto ubriacone italiano, di cui non faccio il nome, per fare l'"anglofono" disse una volta di non essere "abstemious");
- "actual" in inglese vuol dire "effettivo" e non "attuale", mentre  "attuale", invece, si dice "present" o "current" (un noto politico italiano, di cui non faccio il nome, per fare l'"anglofono" disse una volta che lui era sempre "actual", nel senso di "aggiornato");
- "addiction" in inglese vuol dire "dipendenza" o "assuefazione", e non certo "addizione", mentre  "addizione", invece, si dice "sum" (un noto allenatore italiano, di cui non faccio il nome, per fare l'"anglofono" disse una volta che la sua squadra aveva una "addiction" in più rispetto alle altre, il che, forse, era vero, anche se lui voleva dire un'altra cosa);
- "affluent" in inglese vuol dire "ricco" , e non certo "affluente", mentre  "affluente", invece, si dice "tributary" (però non mi risulta che nessuno abbia mai abusato del termine);
- "ass" in inglese vuol dire "asino", "imbecille", "cretino" (ed anche "culo") , e non certo "asso", mentre  "asso", invece, si dice "ace" (un noto politico italiano, di cui non faccio il nome, per fare l'"anglofono" disse una volta che lui era l'"ass" di cuori del partito).
E potrei continuare a lungo.
3) "Useless friends" (amici inutili).
Sono le locuzioni inglesi che somigliano molto a quelle italiane, e che hanno anche un significato analogo; per cui, esistendo già la parola italiana, non ha senso usare quella inglese.
Ad esempio "vision" e "mission" (concetti spesso confusi tra di loro, sia in italiano che in inglese), significano sostanzialmente le stesse cose in entrambe le lingue: per cui non vedo il motivo per il quale non dovremmo usare le parole italiane "visione" e "missione" in luogo di quelle inglesi (sebbene qualcuno sostenga che ci sono delle sfumature diverse).
Effettivamente diverso, invece, è il caso della parola tedesca "Weltanschauung", che non è letteralmente traducibile in lingua italiana perché non esiste nel nostro lessico una parola che le corrisponda pienamente;  ed infatti, tale locuzione, esprime un concetto di "pura astrazione", che può anche essere restrittivamente tradotto con "visione del mondo", "immagine del mondo" o "concezione del mondo", sebbene lo spirito della parola tedesca (Geist), non sia "esattamente" questo.
4) Helpful friends(amici utili).
Sono, infine, le parole inglesi che non solo è "lecito", ma, anzi, direi che è "necessario" usare; ciò, in quanto non esistono valide parole italiane che le possano sostituire.
Ad esempio, sarebbe assurdo entrare in un negozio di informatica e chiedere un "topo da usare per gestire un elaboratore elettronico"; tanto più che "mouse", a differenza dell'italico "topo", deriva dal latino "mus".
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ANEDDOTICA PERSONALE
Per concludere, tuttavia, per onestà devo ammettere che io, forse, predico bene (e non è neanche detto che sia così); però, sicuramente, razzolo molto male.
Ed infatti, la prima volta che mi recai in Gran Bretagna, a sedici anni, forte del mio inglese scolastico, quando il doganiere mi chiese, col suo accento "cockney" dell'East London : "Anything to declare?" ("Ha qualcosa da dichiarare alla dogana"), io non compresi neanche una parola; per cui, timidamente, gli chiesi "What?" (cioè "Che cosa hai detto?"), ma non mi resi conto di aver pronunciato "Watch?" ("orologio").
Per cui, lui, non rilevando il mio punto interrogativo, mi fa: "Ok, let me see it!" ("Va bene, fammelo vedere!", cioè, l'orologio).
Questa volta avevo compreso benissimo la domanda, però non avevo capito che cosa volesse vedere; per cui ripetei "What?" (pronunciato sempre "Watch").
E lui, "Understood, but let me see it!" ("Ho capito, ma fammelo vedere!").
Ed io, imperterrito, "What?" (pronunciato sempre "Watch").
Andammo avanti così per un bel po', mentre la fila dietro di me cominciava a spazientirsi; fino a che dovette venire un interprete per chiarire l'equivoco.
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Qualche tempo dopo, nonostante il mio pessimo inglese, riuscii persino a mettermi con una ragazza; ma non tanto per merito mio, quanto, piuttosto, perchè, almeno all'epoca, i ragazzi italiani, da quelle parti, andavano a ruba (e, avendo conosciuto qualche ragazzo inglese, forse ho anche capito perchè).
Purtroppo, però, con lei mi capitò di commettere una delle più colossali "gaffe" linguistiche della mia vita (ma non certo l'ultima); di fronte alla quale, quella di Zaia, impallidisce.
Ed infatti, per farle un complimento, le dissi: "You have really wonderful hairs", intendendo dire che aveva dei "bellissimi capelli" (biondi); al che lei scoppiò a ridere come una matta, ma io non capivo perchè.
Poi mi spiegò che, in inglese, capelli si dice "hair", senza la "s", mentre "hairs", con la "s" plurale, vuol dire "peli"; al che, sarei voluto sprofondare sotto terra!
Me ne sono ricordato, perchè, recentemente, passandoci davanti con la macchina, ho visto un barbiere di periferia che aveva attaccato sulla sua vetrina il cartello "hairs cut"; l'ho subito fotografato, ed avrei voluto chiedergli "quali?", ma ho preferito soprassedere.
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Il che fa il paio con un parrucchiere del quartiere Prati, che, molti anni fa, montò addirittura un'insegna al neon con la scritta: "chauffeur". Questo me l'hanno solo raccontato, perchè non l'ho visto con i miei occhi.
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Morale della favola, come a tavola, cerchiamo di parlare il più possibile come mangiamo!
Sebbene ormai, temo che in un Paese in cui c'è gente che preferisce il "sushi" alla "pizza", forse sarebbe meglio non dare consigli del genere; comunque, se proprio volete mangiare quella porcheria almeno ordinate "sushi" e non "shushi", come fanno alcuni, perchè potreste mettere in difficoltà il cameriere.
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In ogni caso, da quando alcuni ristoranti hanno finalmente rivelato la vera ricetta del "sushi", secondo me, solo un masochista potrebbe cibarsene.
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Greetings
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Jacopus

Grazie per il siparietto, Eutidemo. In questa congerie di confusione e ignoranza, hai dimenticato i cronisti che enunciano termini latini con pronuncia inglese. Un errore che è la cartina di tornasole di un colonialismo culturale buffo, alla Alberto Sordi, tanto per intenderci. Alcuni esempi, i "MASS MEDIA", diventano "MASS MIDIA", il "SUMMIT" diventa "SAMMIT", e "ITER" raggiunge vette ineffabili sulla bocca di pseudogiornalisti che inventano la pronuncia "AITER".
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Eutidemo

#2
Ciao Jacopus :)
Circa la parola "iter" pronunciata "aiter", in effetti, a sentire un simile abominio ci sarebbe davvero da suicidarsi!
Per quel che riguarda, invece, le due parole di origine latina, che, però, ci giungono dalla lingua inglese, quali "summit" e "mass-media", la questione è invece alquanto controversa.
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Ed infatti, circa la pronuncia dei detti due termini:
- il Sabatini Coletti indica come corrette solo quelle "all'inglese";
- il GRADIT, invece, indica come corrette entrambe le pronunce;
- il GDLI, indica la pronuncia "sàmmit" per summit e non specifica niente per mass media, dando così per scontata una pronuncia aderente alla forma scritta.
- il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia di Migliorini-Tagliavini-Fiorelli, precisa che bisogna dire "mes midia" e "sàmit" (con una sola "m"), privilegiando dunque le pronunce "all'inglese".
Trattandosi quest'ultimo del più autorevole "Dizionario di Pronunzia" italiano, ritengo che debba considerarsi il più attendibile; e, questo, secondo me, anche per ragioni di buon senso.
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Ed infatti è vero che tali termini derivano entrambi dal latino, però, noi li assumiamo dall'inglese con lo specifico "significato" ad essi attribuito da tale lingua, e non con quello originario latino; per cui, in effetti, mi sembrerebbe più logico di pronunciarli all'inglese.
La parola "iter" noi la usiamo, sia pure in senso metaforico, con lo stesso significato dei nostri antenati (percorso, sentiero); ma non così i termini "summit" e "mass-media".
D'altronde, per quanto concerne quest'ultima locuzione, la prima parte è indubbiamente di matrice inglese, per cui sarebbe un po' abnorme pronunciarla metà in inglese e metà in italiano (o meglio, in latino).
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Tra l'altro, quale fosse realmente la pronuncia latina, non lo sapremo mai con certezza; tanto è vero che noi pensiamo che gli antichi Romani si salutassero con l'espressione "ave", mentre, invece, poichè per loro la "v" e la "u" erano intercambiabili, molto probabilmente il loro "ave" suonava più o meno come il nostro "(a)uè" (che non si usa solo a Napoli).
Comunque, secondo me, bisogna essere coerenti e opportuni, e cioè:
- utilizzare o un tipo o l'altro di pronuncia per entrambi i termini;
- scegliere quella più adatta al contesto e a chi ci si sta rivolgendo.
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Vale! :)
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InVerno

#3
Indubbiamente Zaia ha preso un granchio, tuttavia rimango sempre abbastanza perplesso quando si chiede a delle persone di eliminare il proprio accento di provenienza a favore di chissà quale pronuncia dell'Oxford dictionary..onestamente preferisco un accento "alla Benigni" che porta con sé la propria terra, rispetto ad imbarazzanti tentativi di sembrar nati a Picadilly square. Esempio pratico è proprio la "a" letta "e" (o varianti "ie" "eə" etc), che è na roba che appartiene ai discorsi della regina di inizio secolo e che a scuola viene presa come regola scolpita in pietra, quando in realtà l'influsso americano ha ridotto questa tendenza anche nelle terre di Albione, e spesso si sente la "a" smorzata anzichè la "e" (es. hAppi - HEppi) e poi c'è lo scozzese, l'irlandese etc. Non esiste una pronuncia corretta, l'inglese è una lingua piuttosto omogenea per la sua natura "isolana", la pronuncia corretta è quella che comunica il messaggio correttamente, i dizionari registrano le variazioni linguistiche, non sono oro colato sui poveracci (i francesi pensano di si, ma i francesi hanno "les immortels" e altre fantasie nazionaliste assurde e xenofobe).Quando andai a Londra venni ospitato per un mese e mezzo da un mio amico italiano che era emigrato lì a fare lo chef, lui abitava lì da due anni e ricordo che prima di partire aveva un inglese molto scarso, ringraziava le persone offrendogli carri armati (tAnks). Rimasi stupito da due cose: la prima era che il suo inglese non era migliorato molto, forse sul lato lessicale, ma la pronuncia ancora latitava; la seconda è che io con il mio inglese "da dizionario" non capivo un H di quello che si diceva in un bar, mentre lui se la arrangiava benissimo. E' stata una bella esperienza, ho imparato a "rilassare la lingua" e concentrarmi su ciò che puoi interdire la comunicazione (hair-hairs) e lasciare andare la pronuncia.. In fondo, avete mai sentito un inglese, pur abitante in Italia, che parla senza la tipica "stondatura" dell'accento inglese?
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Eutidemo

#4
Ciao Inverno :)
Quello che dici, è pienamente condivisibile per determinate parole; ed infatti, ad esempio, il termine "privacy" si pronucia diversamente in inglese e in americano (sebbene qui in Italia lo pronunciamo tutti "all'americana").
https://dictionary.cambridge.org/it/pronuncia/inglese/privacy
Per altre parole, invece, la pronuncia è univoca; che io sappia, infatti, sia in UK che in USA (che in Australia) la pronuncia di "car" e di "care" è sostanzialmente simile, per cui non è lecito confondere l'una con l'altra.
https://dictionary.cambridge.org/it/pronuncia/inglese/privacy
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D'altronde se uno non conosce a sufficienza  l'inglese, farebbe bene ad evitare di usarlo a sproposito (varianti geografiche a parte); ed infatti, io, cerco di evitare il più possibile di farlo, a meno che, ovviamente, non sia costretto a comunicare con un suddito britannico o con un cittadino americano (suscitando inevitabilmente la loro ilarità).
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Per questo depreco un eccessivo ricorso alla lingua inglese, quando parliamo tra noi italiani; sebbene, a volte, ammetto che non di rado capita anche a me!
Ed infatti, un conto è parlare una lingua straniera in territorio straniero, perchè non se ne può fare a meno (e nessuno si scandalizza per il nostro accento), e un altro conto è parlare una lingua straniera in territorio italiano, quando non ce n'è nessun bisogno; per cui, quando qualcuno lo fa e dice strafalcioni, come Zaia, giustamente incorre nel ridicolo!
Soprattutto considerando che si tratta di un sovranista, che dovrebbe applicare prima di tutti gli altri il motto: "PRIMA L'ITALIANO"! :D
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Un saluto! :)
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InVerno

Citazione di: Eutidemo il 15 Marzo 2021, 13:01:35 PM

Ed infatti, un conto è parlare una lingua straniera in territorio straniero, perchè non se ne può fare a meno (e nessuno si scandalizza per il nostro accento), e un altro conto è parlare una lingua straniera in territorio italiano, quando non ce n'è nessun bisogno; per cui, quando qualcuno lo fa e dice strafalcioni, come Zaia, giustamente incorre nel ridicolo!

Ovviamente il mio era un discorso più generale, Zaia ha sbagliato innanzitutto la parola, poi la pronuncia... Purtroppo l'inglese ha una ventina di vocali, contro le nostre sei o sette, anche gli inglesi a volte tentennano sulla pronuncia di parole con cui non sono pratici...
Non sono particolarmente d'accordo sul fatto che "non c'è nessun bisogno".. Se un determinato contesto ragiona in una certa terminologia, anche se esistono i controvalori linguistici più o meno adatti, il bisogno nasce dalla contestualizzazione. Per esempio in musica non ci sarebbe nessun bisogno di usare "forte" o "adagio" per un inglese, ma se nell'ambito i termini sono quelli, risulterebbe assurdo usare "strong" o "slow". Perciò il problema non è tanto di Zaia o di chi usa l'inglese anche in presenza di controvalori italiani, ma il problema è a monte, ovvero perchè l'Italiano non riesce più a creare una propria sfera linguistica capace di interpretare la realtà.. chissà perchè, si chiede Draghi..
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Ipazia

#6
Draghi lo sa benissimo, perchè: Franza o Spagna purchè se magna. Mettendoci al posto dei vecchi padroni i nuovi: USA o Europa. Ascoltando Lagarde mi sono resa conto che anche l'Europa è schiava dell'inglese pur essendo ormai la lingua ufficiale a mezzo servizio di due soli paesi CE, nemmeno tra i più importanti: Irlanda e Malta. Lingua coloniale anche per essi, tra l'altro.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Ciao Inverno :)
Sono perfettamente d'accordo con te sul fatto che il bisogno nasce dalla contestualizzazione! Come giustamente hai scritto, infatti, in musica non ci sarebbe nessun bisogno di usare la terminologia "forte" o "adagio" per un inglese; ma, poichè nell'ambito musicale  i termini sono quelli, risulterebbe assurdo che i musicisti inglesi dicessero "strong" o "slow", perchè la cosa non avrebbe senso.
Allo stesso modo, poichè in italiano esiste la parola "topo", useremo tale termine, dal ferramenta, per comprare una trappola per catturare quello che infesta la nostra soffitta; ma sarebbe assurdo entrare in un negozio di informatica e chiedere un "topo da usare per gestire un elaboratore elettronico", e, quindi, useremo il termine inglese "mouse", perchè usare la parola "topo", in quel contesto non avrebbe senso.
Questo è esattamente quanto io sostenevo nel mio topic iniziale! ;)
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Ma proprio per questo, anche se Zaia avesse usato correttamente il termine inglese "caregiver", per me sarebbe stato egualmente "riprovevole", in quanto non ce n'era alcun bisogno; ed infatti, anche nello specifico contesto, avrebbe potuto esprimere benissimo lo stesso concetto in italiano (senza ricorrere a perifrasi assurde come quelle da me ipotizzate per sostituire il termine "mouse").
Tanto più che, a differenza della parola "mouse" (o "week end" ecc.), il termine "caregiver" risulta ignoto alla maggior parte degli italiani; per cui, evidentemente, Zaia l'ha usato solo per "fare scena", e non per farsi capire da tutti, come sarebbe stato suo compito!
Diceva Trilussa: "Se vôi l'ammirazione de l'amichi nun faje capì mai quello che dichi.". 8)
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Ma la cosa comica è che, errori di pronuncia a parte, il termine "caregiver" risultava ignoto pure a lui; ed infatti Zaia pensava che volesse dire "autista di disabili"!
Per cui, oltre che "riprovevole", è risultato pure "ridicolo"! ;D
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E non è la prima volta, perchè tutti ricordiamo la sua "gaffe" sui "cinesi che mangiano i topi"; però, almeno, quella volta si espresse in corretto italiano, e non disse che i  "cinesi che mangiano mouse".
O meglio, "mice", al plurale.
Però, che strani 'sti inglesi: il plurale del "topo", per loro è un "micio"! :D
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Comunque, Zaia a parte, che in fondo mi sta pure simpatico, sono perfettamente d'accordo con te quando scrivi: "Il problema è a monte: ovvero perchè l'Italiano non riesce più a creare una propria sfera linguistica capace di interpretare la realtà?"
Bella domanda! :(
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Un saluto! :)
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Eutidemo

Ciao Ipazia. :)
Il motivo per il quale in Europa la "lingua franca" è l'inglese, è lo stesso motivo per il quale, fino al Rinascimento, la "lingua franca" europea era il latino; e tale è rimasta (in parte, ma non solo) a livello ecclesiastico e scientifico.
D'altronde, ben 430 milioni di persone parlano lingue derivate dal latino.
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Inoltre, non tutti sanno che l'inglese è la lingua "non neolatina" maggiormente influenzata dal latino; sebbene fosse quasi sparito con le invasioni degli Angli, dei Sassoni e degli Juti.
Ed infatti, nel sesto secolo, l'arrivo in Inghilterra dei primi monaci cristiani schiuse le porte alla latinizzazione dell'inglese, con l'introduzione di termini ecclesiastici e religiosi.
Successivamente, l'occupazione dell'Inghilterra da parte dei normanni nel 1066, provocò una crescente influenza del francese, una lingua già ampiamente latinizzata, il cui notevole contributo fu determinante per l'evoluzione "latina" dell'inglese attuale; circa il 75% delle parole adottate in quel periodo, infatti, vengono utilizzate ancora oggi.
Si stima che i vocaboli derivanti dall'inglese "originario", non siano più del 20-33% del lessico inglese totale; benché rappresentino di gran lunga le parole più utilizzate nel quotidiano.
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Per cui, l'egemonia imperiale (e poi cattolica) che ebbe il latino, si fa ancora sentire, a distanza di due millenni, per il tramite dell'attuale egemonia anglosassone; che si estrinseca e manifesta in vari ambiti.
Per usare il romano moderno, quindi, "ariconzolamose co' l'ajetto"! ::)
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Un saluto! :)
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InVerno

Citazione di: Eutidemo il 16 Marzo 2021, 06:29:08 AM
E non è la prima volta, perchè tutti ricordiamo la sua "gaffe" sui "cinesi che mangiano i topi"; però, almeno, quella volta si espresse in corretto italiano, e non disse che i  "cinesi che mangiano mouse".
O meglio, "mice", al plurale.
Però, che strani 'sti inglesi: il plurale del "topo", per loro è un "micio"! :D
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Comunque, Zaia a parte, che in fondo mi sta pure simpatico, sono perfettamente d'accordo con te quando scrivi: "Il problema è a monte: ovvero perchè l'Italiano non riesce più a creare una propria sfera linguistica capace di interpretare la realtà?"
Bella domanda! :(
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Un saluto! :)
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E se fosse un "souris d'ordinateur"? (che è "sorcio" non "topo"  ;) ). Ma anche a noi a volte vengono gli schiribizzi in difesa della razza linguistica, ricordo la meravigliosa settimana di indignazione per "petaloso" che per alcuni era la goccia che traboccava il vaso! Lo stupore di Draghi è particolarmente ingiustificato, perchè Draghi sicuramente anela politicamente all'unificazione politica europea, e non esiste modo di farla senza una lingua comune (a meno di non fare le elezioni in sedici lingue diverse con traduttore auricolare) perciò, è particolarmente fuori luogo per un "iper-europeista" sorprendersi davanti a questi dati che sono il risultato di uno sforzo che si spera cosciente. Ed è anche un pò la misura dei politici che vorrebbero farci da "padri fondatori", che magari si adoperano tanto per una valuta comune ma esclamano stupefatti davanti a ciò che realmente costituisce un popolo, che non è certo la valuta di scambio. Ricorda un pò la triste uscita di Junker, altro supposto "padre fondatore" dalle origini "fiscaliste" che dopo la Brexit scherzò (si spera) che forse bisognava adottare il francese come lingua franca, pensando di esser simpatico nell'ipotizzare di buttare al macero quaranta anni e passa di unificazione, magari nella speranza che i popoli si formino attraverso stimoli fiscali,  o per autocertificazione, o chissà quale altra fantasia di personaggi vissuti tra pile di carta e indici della borsa. Parlano dell'europa dei popoli, ma la vorrebbero fare coi commercialisti, e i risultati si vedono..
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Eutidemo

#10
Ciao Inverno :)
Proprio non lo sapevo che i Francesi, il "mouse", lo chiamassero "souris d'ordinateur" (che è molto simile al termine "suris" friulano); però noi italiani lo chiamiamo "mouse", e non "topo" nè "sorcio".
Quest'ultimo termine, per quanto ne so, non è un animale diverso dal "topo", bensì il suo equivalente dialettale; almeno, dalle mie parti, i "topi" li chiamiamo "sorci", e i "ratti" li chiamiamo "zoccole" (chissà perchè, come le tigri, sempre al femminile).
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Quanto al termine "petaloso", me ne ricordo molto vagamente; mi sembra che si trattasse di una nuova definizione di coloro che emettono "peti silenziosi" nei propri pantaloni (in romanesco dette "loffe").
Ma non ne sono sicuro! ;)
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Quanto allo stupore di Draghi, a me, più che altro, è parsa una pacata riflessione autocritica; come capita spesso anche a me, quando eccedo negli anglicismi.
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Quanto ad anelare all'unificazione politica europea, io sono il primo a desiderarla; ma non penso minimamente che, per realizzarla, sia necessaria una lingua comune (inglese o esperanto che essa sia).
La ritengo una cosa "inutile", non "auspicabile", e, comunque, assolutamente "impossibile"!
Ed infatti, un conto è usare l'inglese come "lingua franca", il che è senz'altro accettabile, utile, e, direi, anzi, necessario; ma un altro conto, ben diverso, è immaginare che dal Portogallo alla Polonia, dalla Danimarca alla Calabria, tutti si debbano mettere a parlare inglese mentre cenano in famiglia o chiacchierano al bar.
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Ed infatti, occorre fare molta attenzione a non confondere:
- la progressiva assimilazione di locuzioni straniere in una determinata lingua, a seguito di mescolanze etniche dovute alle invasioni ed alle migrazioni di interi popoli nel territorio di altri (il che in Italia è accaduto più volte, facendo "spontaneamente" evolvere il latino nell'italiano);
- l'uso come "lingua franca" di un idioma che non ha niente a che vedere con l'etnia e la lingua di un determinato Paese, e che viene utilizzata "in modo non spontaneo", ai soli fini della comunicazione diplomatica internazionale (come è accaduto con il francese fino a due secoli fa, e, attualmente, con l'inglese), e non solo diplomatica;
- l'utilizzo "istituzionale" di un idioma, internazionalmente riconosciuto da tutti in determinati specifici settori "artistici"  (ad es., l'italiano in ambito operistico), "scientifici" "  (ad es. il latino in ambito tassonomico), "finanziari"  (ad es., l'inglese nella terminologia borsistica);
- infine, l'utilizzo superfluo, inutile, e, spesso errato, di parole straniere solo per sentirsi alla moda...stavo per scrivere "trendy". ;D
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Guai a confondere le pere con le mele!
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Un saluto! :)
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Ipazia

L'egemonia linguistica dell'inglese è dello stesso tipo di quella latina: imperiale. Con le derive grottesche del latinorum, ieri e dell'anglicorum, oggi. Ma vi fu anche un'egemonia di natura culturale tra sette e ottocento col francese. Il futuro è  delle macchine con traduttori incorporati. Buoni per tutto fuorchè per la letteratura che infatti langue.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Ciao Ipazia :)
Sotto certi aspetti, effettivamente, l'egemonia linguistica dell'inglese in Europa assomiglia un po' a quella imperiale romana, ma con due sostanziali differenze:
1)
A Roma, il greco prese piede come lingua colta quasi più del latino, benchè la Grecia fosse stata sottomessa dai Romani, e facesse parte del loro Impero; ed infatti molti Romani parlavano e scrivevano in greco.
Tanto è vero, questo, che lo stesso imperatore romano Marco Aurelio, la cui statua tutt'ora campeggia in Campidoglio, scrisse la sua magistrale opera in lingua greca "Τὰ εἰς ἑαυτόν" ("A se stesso").
E, così come oggi noi ci lamentiamo degli eccessivi "anglicismi", anche allora c'era, a Roma, chi si lamentava degli eccessivi "grecismi"; ad esempio, Seneca, che soffriva di "asma", deprecava l'uso di tale termine greco, visto che c'erano anche delle locuzioni latine per definire la difficoltà di respiro.
Il che dimostra che l'"imperialismo linguistico" non sempre coincide con quello "politico"; per cui, all'epoca, si diceva "Graecia capta ferum victorem cepit", cioè,  "la Grecia, conquistata, conquistò il selvaggio vincitore". (Orazio, Epistole, Il, 1, 156).
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Al contrario, invece, Roma riuscì a diffondere il proprio eloquio in occidente, in Spagna e in Gallia, ma non tanto e non solo per imitazione (come accade oggi, in tali Paesi per l'inglese);ed infatti tali Paesi furono disseminati di "colonie latine", per cui la nuova lingua scaturì da una vera e propria "rimescolanza etnica".
La maggior parte delle città europee attuali, infatti, sono nate come città fondate e abitate da coloni latini ed italici; e, questo, persino nella Germania occidentale, la cui capitale, Bonn, era una città romana (Bon(n)a, fondata intorno agli anni 13 e 9 a.C.).
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Ciò premesso, l'egemonia linguistica dell'inglese in Europa somiglia un po' a quella imperiale romana; però ha natura molto diversa.
Forse, secondo me, somiglia un po' di più all'egemonia linguistica dello spagnolo nel sedicesimo e diciassettesimo secolo; ma, anche in questo caso, con non poche differenze.
Come giustamente osservi tu, ci fu anche un'egemonia di natura culturale, tra sette e ottocento, col francese; forse divenne anche di natura imperiale con Napoleone I e III, ma fu di breve periodo.
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Tuttavia, a ben vedere, non poche parole italiane sono di altre derivazioni; soprattutto arabe.
E ce n'è una che, insieme agli inglesi, abbiamo "mutuato" perfino dagli Aztechi; indovina quale?
Per aiutarti, ti dirò che era il nome di un dio azteco.
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Un saluto! :)
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Ipazia

Anche le egemonie linguistiche non sono più quelle di una volta: dalla lingua dei filosofi a quella di pirati e trafficanti. Ennesimo segno inequivocabile di decadenza spirituale.
Hai ragione Eutidemo, anche gli imperialismi sono diversi. Quello romano-ellenistico diffuse la civiltà, quello americano, la barbarie (non è un caso se i romani apprezzarono la cultura greca, mentre gli americani impongono il loro mondo-spazzatura).
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Citazione di: Ipazia il 17 Marzo 2021, 22:17:40 PM
Anche le egemonie linguistiche non sono più quelle di una volta: dalla lingua dei filosofi a quella di pirati e trafficanti. Ennesimo segno inequivocabile di decadenza spirituale.
Hai ragione Eutidemo, anche gli imperialismi sono diversi. Quello romano-ellenistico diffuse la civiltà, quello americano, la barbarie (non è un caso se i romani apprezzarono la cultura greca, mentre gli americani impongono il loro mondo-spazzatura).
Su questo siamo abbastanza d'accordo ;)