Come interpretare il gesto del suicidio?

Aperto da Dani66, 21 Maggio 2018, 07:32:24 AM

Discussione precedente - Discussione successiva

Dani66

Buongiorno a tutti,

è il mio primo post in questo pregevole gruppo, non essendo particolarmente colto, come accennato nella mia presentazione, vi prego di perdonare eventuali omissioni e inesattezze.
Ci provo.
Budicca, regina degli Iceni, una tribù di origini celtiche stanziatesi nell'Inghilterra orientale dal I sec. A. C. al I sec. D. C., guidò la più grande sommossa,contro l'impero romano, della Britannia.
Quando venne sconfitta ad opera del proconsole Gaio Svetonio Paolinopreferì suicidarsi anziché consegnarsi nelle mani del nemico.


Secondo voi si trattò di coraggio o di codardìa? Quindi, per estensione, il suicida è da considerarsi un prode o un pavido? 
Gradirei molto conoscere le vostre opinioni.

Angelo Cannata

Hai portato un esempio che è lontanissimo dal nostro presente: a quei tempi c'erano contesti mentali riguardo al valore della vita, l'onore del guerriero, l'amore per la propria terra, molto diversi dal contesto mentale di oggi. A quei tempi poteva essere vissuto effettivamente come atto di eroismo, ma oggi vediamo le cose in modi abbastanza diversi. Se vogliamo riferirci al nostro presente, l'esempio portato ci serve poco, così come credo ci serva poco muoverci sull'alternativa prode/pavido. Molti, ad esempio, si suicidano per problemi nel lavoro: mi sembra poco utile inquadrare questi casi nell'alternativa prode/pavido. Anche la riflessione filosofica, o psicologica, se attuata senza il confronto con le statistiche, può ridursi soltanto al piacere di esprimere i propri modi di pensare il senso della vita, piuttosto che essere un serio interesse per la problematica, affrontato con ricerca fatta per bene. Se si vuole fare quindi una discussione di qualità, che non sia un semplice fare gli opinionisti, potrebbe essere meglio prima precisare di più le linee che si vorrebbero approfondire.

Dani66

La ringrazio per avere espresso la sua personale opinione. 

baylham

Nel forum la valutazione del suicidio è già stato discusso sulla base delle categorie proposte.

Anch'io non ritengo giusto inquadrare il suicidio come un atto di eroismo o al contrario di viltà, ogni suicida ha le sue personali, intime motivazioni. Basti considerare che l'eroismo, soprattutto in guerra, è una maschera del suicidio.

viator

Salve. Il suicidio, al di là del contesto ambientale in cui avviene, è una soluzione esistenziale estrema attraverso la quale l'individuo decide di farsi sovrano nei confronti di una situazione che trova psichicamente insopportabile. E' quindi egoismo puro che non si cura delle conseguenze, risultino esse altruistiche, moralistiche od indifferenti nei confronti degli altri.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Eutidemo

Secondo me non esiste un solo genere di suicidio, ma ce ne sono di tanti tipi diversi, ciascuno dei quali va considerato e giudicato a parte, a seconda delle specifiche circostanze in cui esso viene attuato; sempre ammesso che sia lecito "giudicare" una scelta così personale.
Quanto alla domanda originaria di Dani66, cioè, se si tratti di un atto di "coraggio" o di "codardìa", infatti, in taluni casi esso rientra sicuramente nel primo caso, mentre in altri casi rientra (molto più dubbiosamente) nel secondo.
Per esempio:
- il commilitone di mio nonno, che, come raccontai in un altro post, si gettò su una granata austriaca, per fare scudo con il suo corpo ai compagni, sicuramente compì un atto di  "coraggio" (ma il cappellano si oppose ad una sepoltura cristiana, considerandolo "tecnicamente" un suicidio a tutti gli effetti);
- un altro suo commilitone, invece, il quale si suicidò sparandosi in testa, perchè non sopportava più lo "stress" del combattimento, come più volte aveva anticipato ai compagni, in un certo senso si "potrebbe" anche dire che compì un atto di  "codardìa" (però il cappellano gli concesse una sepoltura cristiana, considerandolo non un atto deliberato, ma di follia).
Per quanto, invece, riguarda Budicca, io lo giudicherei piuttosto un atto di "fierezza", sia pure coraggiosa, perchè preferì la morte alla schiavitù.
Un atto simile compì Catone l'Uticense, il quale, però, in un certo senso, si suicidò per un motivo ancora più nobile; ed infatti,  come lui stesso disse, si tolse la vita non tanto per essere libero lui, della cui libertà interiore nessuno avrebbe mai potuto privarlo... ma per evitare di vivere in mezzo ad uomini ormai non più liberi.
 "Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta"...come lo ricorda Dante Alighieri!
A parte tali casi emblematici, poi, più prosaicamente, occorre distinguere anche tra:
- suicidi dovuti a gravi sindromi depressive;
- suicidi decisi in piena coscienza, e su basi perfettamente razionali.
Sebbene non sia spesso facile, in concreto, discernere un caso dall'altro, secondo me si tratta di due cose completamente diverse; il che non esclude che, in determinate circostanze, il fattore psicologico e quello razionale possano concorrere tra di loro.
Sotto un profilo esclusivamente razionale, peraltro, salvo che non si abbiano particolari doveri che ci legano a questa vita (figli piccoli, genitori anziani ecc.), il suicidio sarebbe sempre e comunque la scelta più logica per la quale optare, in quanto:
1) Se le cose vanno davvero male, è sicuramente il modo migliore per risolverle definitivamente senza ulteriori crucci; come, diceva, infatti, il Metastasio: "Non è ver che sia la morte il peggior di tutti i mali! È un sollievo de' mortali che son stanchi di soffrir!"
2) Se, invece, le cose ci vanno bene, il suicidio sarebbe comunque la scelta più razionale da fare, per stornare il rischio che, prima o poi, le cose ci vadano male; il che necessariamente accadrà...se non altro perchè, affidando la nostra INEVITABILE morte al caso, è molto probabile che essa sarà MOLTO più orribile di quella programmata da noi (nel modo più indolore possibile).
Questo, in fondo, era il ragionamento del "secondo" commilitone di mio nonno, il quale diceva ai compagni di sventura: "Visto che qui, ogni notte, sentiamo gente mutilata ululare di dolore per ore, nella terra di nessuno, in attesa della morte...perchè non dovremmo anticipare noi stessi la cosa, in modo più rapido e meno doloroso?"
Mi si potrebbe obiettare che, fortunatamente, noi non siamo in trincea; ma, secondo me, in effetti ci siamo tutti e SEMPRE...anche se evitiamo di pensarci.
Ed infatti, da un po' di anni, non faccio altro che vedere i miei amici morire intorno a me, come se davvero fossimo in guerra; e, in genere, nonostante le moderne cure mediche e analgesiche, li ho visti quasi tutti  in modo abbastanza lento e SGRADEVOLE!
Vi risparmio i dettagli.
Riflettendoci, al di là delle apparenze ingannatrici, la morte è sempre la stessa BASTARDA, sia che ti colga in trincea, sia se ti colga in un letto di ospedale.
Attualmente, ad esempio, dal 20 gennaio 2017, il più caro amico rimastomi, giace in un letto d'ospedale afflitto da SLA; è completamente paralizzato, ma è perfettamente LUCIDO.
Be', essendo consapevoli di rischi del genere, a cui la vita tutti ci espone, cosa ci sarebbe poi di così irrazionale nel volersi trarre subito d'impaccio, optando per un suicidio rapido ed il più possibile indolore?
Non siamo immortali, e , quindi qualcosa  ci deve "per forza ammazzare" (di solito in brutto modo e a sorpresa); per cui, visto che la cosa è inevitabile, perchè non scegliere noi, i tempi ed i modi?
Mi si obietterà che, in tal modo, si perderebbero le tante cose belle che la vita potrebbe ancora donarci; ma, anche ammesso che sia così, cosa di cui dubito fortemente, tale assunto è FALSO, perchè nessuno può soffrire la perdita di qualcosa se non esiste più per poterla rimpiangere (salvo vita dopo la morte, e, quindi, senza problemi).
Diversamente, al contrario, suicidandosi, si evita il rischio di perdere le poche cose belle che la vita ci ha già donato, e che può sempre toglierci da un momento all'altro; per esempio, se mio nonno fosse morto qualche anno prima, si sarebbe risparmiato il dolore della perdita del figlio primogenito.
Ovviamente, sto parlando in linea puramente teorica, sebbene mi rendo conto che il mio ragionamento possa risultare alquanto deprimente! :-\
Però è SINCERO! :)






 




 

anthonyi

Citazione di: Eutidemo il 13 Luglio 2018, 14:27:41 PM
Secondo me non esiste un solo genere di suicidio, ma ce ne sono di tanti tipi diversi, ciascuno dei quali va considerato e giudicato a parte, a seconda delle specifiche circostanze in cui esso viene attuato; sempre ammesso che sia lecito "giudicare" una scelta così personale.
Quanto alla domanda originaria di Dani66, cioè, se si tratti di un atto di "coraggio" o di "codardìa", infatti, in taluni casi esso rientra sicuramente nel primo caso, mentre in altri casi rientra (molto più dubbiosamente) nel secondo.
Per esempio:
- il commilitone di mio nonno, che, come raccontai in un altro post, si gettò su una granata austriaca, per fare scudo con il suo corpo ai compagni, sicuramente compì un atto di  "coraggio" (ma il cappellano si oppose ad una sepoltura cristiana, considerandolo "tecnicamente" un suicidio a tutti gli effetti);
- un altro suo commilitone, invece, il quale si suicidò sparandosi in testa, perchè non sopportava più lo "stress" del combattimento, come più volte aveva anticipato ai compagni, in un certo senso si "potrebbe" anche dire che compì un atto di  "codardìa" (però il cappellano gli concesse una sepoltura cristiana, considerandolo non un atto deliberato, ma di follia).
Per quanto, invece, riguarda Budicca, io lo giudicherei piuttosto un atto di "fierezza", sia pure coraggiosa, perchè preferì la morte alla schiavitù.
Un atto simile compì Catone l'Uticense, il quale, però, in un certo senso, si suicidò per un motivo ancora più nobile; ed infatti,  come lui stesso disse, si tolse la vita non tanto per essere libero lui, della cui libertà interiore nessuno avrebbe mai potuto privarlo... ma per evitare di vivere in mezzo ad uomini ormai non più liberi.
"Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta"...come lo ricorda Dante Alighieri!
A parte tali casi emblematici, poi, più prosaicamente, occorre distinguere anche tra:
- suicidi dovuti a gravi sindromi depressive;
- suicidi decisi in piena coscienza, e su basi perfettamente razionali.
Sebbene non sia spesso facile, in concreto, discernere un caso dall'altro, secondo me si tratta di due cose completamente diverse; il che non esclude che, in determinate circostanze, il fattore psicologico e quello razionale possano concorrere tra di loro.
Sotto un profilo esclusivamente razionale, peraltro, salvo che non si abbiano particolari doveri che ci legano a questa vita (figli piccoli, genitori anziani ecc.), il suicidio sarebbe sempre e comunque la scelta più logica per la quale optare, in quanto:
1) Se le cose vanno davvero male, è sicuramente il modo migliore per risolverle definitivamente senza ulteriori crucci; come, diceva, infatti, il Metastasio: "Non è ver che sia la morte il peggior di tutti i mali! È un sollievo de' mortali che son stanchi di soffrir!"
2) Se, invece, le cose ci vanno bene, il suicidio sarebbe comunque la scelta più razionale da fare, per stornare il rischio che, prima o poi, le cose ci vadano male; il che necessariamente accadrà...se non altro perchè, affidando la nostra INEVITABILE morte al caso, è molto probabile che essa sarà MOLTO più orribile di quella programmata da noi (nel modo più indolore possibile).
Questo, in fondo, era il ragionamento del "secondo" commilitone di mio nonno, il quale diceva ai compagni di sventura: "Visto che qui, ogni notte, sentiamo gente mutilata ululare di dolore per ore, nella terra di nessuno, in attesa della morte...perchè non dovremmo anticipare noi stessi la cosa, in modo più rapido e meno doloroso?"
Mi si potrebbe obiettare che, fortunatamente, noi non siamo in trincea; ma, secondo me, in effetti ci siamo tutti e SEMPRE...anche se evitiamo di pensarci.
Ed infatti, da un po' di anni, non faccio altro che vedere i miei amici morire intorno a me, come se davvero fossimo in guerra; e, in genere, nonostante le moderne cure mediche e analgesiche, li ho visti quasi tutti  in modo abbastanza lento e SGRADEVOLE!
Vi risparmio i dettagli.
Riflettendoci, al di là delle apparenze ingannatrici, la morte è sempre la stessa BASTARDA, sia che ti colga in trincea, sia se ti colga in un letto di ospedale.
Attualmente, ad esempio, dal 20 gennaio 2017, il più caro amico rimastomi, giace in un letto d'ospedale afflitto da SLA; è completamente paralizzato, ma è perfettamente LUCIDO.
Be', essendo consapevoli di rischi del genere, a cui la vita tutti ci espone, cosa ci sarebbe poi di così irrazionale nel volersi trarre subito d'impaccio, optando per un suicidio rapido ed il più possibile indolore?
Non siamo immortali, e , quindi qualcosa  ci deve "per forza ammazzare" (di solito in brutto modo e a sorpresa); per cui, visto che la cosa è inevitabile, perchè non scegliere noi, i tempi ed i modi?
Mi si obietterà che, in tal modo, si perderebbero le tante cose belle che la vita potrebbe ancora donarci; ma, anche ammesso che sia così, cosa di cui dubito fortemente, tale assunto è FALSO, perchè nessuno può soffrire la perdita di qualcosa se non esiste più per poterla rimpiangere (salvo vita dopo la morte, e, quindi, senza problemi).
Diversamente, al contrario, suicidandosi, si evita il rischio di perdere le poche cose belle che la vita ci ha già donato, e che può sempre toglierci da un momento all'altro; per esempio, se mio nonno fosse morto qualche anno prima, si sarebbe risparmiato il dolore della perdita del figlio primogenito.
Ovviamente, sto parlando in linea puramente teorica, sebbene mi rendo conto che il mio ragionamento possa risultare alquanto deprimente! :-\
Però è SINCERO! :)

Ciao Eutidemo, se mi permetti il tuo discorso non è deprimente, è patologico, pensare al suicidio come scelta razionale, addirittura anche quando le cose vanno bene. Non so se lo sai ma l'istigazione al suicidio è un reato perché la vita è un valore.
Certo la scelta di chi si suicida va analizzata, spiegata, anche perché magari tramite questa analisi possiamo evitare futuri suicidi.
Tutti noi siamo programmati per vivere, con un istinto di sopravvivenza che ci spinge ad andare avanti.
Prova a riflettere sulla grandezza della sofferenza di tutti i tuoi progenitori, più vai indietro, più la sofferenza è grande, eppure ce l'hanno messa tutta per sopravvivere, per dare il loro piccolo contributo a quella che noi chiamiamo umanità.
Un saluto.











Sariputra

Caro Eutidemo, più ti leggo e più mi fai venir voglia di spararmi ;D  ;D !!
Ma non sarebbe invece più razionale dire, come Tex Willer al fido pard Kit Carson:
"C'è sempre tempo per andar a far compagnia a messer satanasso?"
Visto che dobbiamo morire...perché affrettarsi?
C'è sì il rischio, attendendo, di far una brutta fine. Ma mio papà, per esempio, è morto in brevissimo tempo e con poca sofferenza. Che ne sappiamo di quel che ci succederà?...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Eutidemo

Caro Sariputra,
è vero ciò che tu dici, però occorre anche tener conto di due aspetti:
1) 
Quella di suicidarsi è una scelta che, se fatta, non può più poi dar luogo a rimpianti, nostalgie o rimorsi di sorta; questo, almeno, se non si crede alla sopravvivenza della propria identità individuale (come io credo).
2) 
Quella di continuare a vivere, aspettando che ci uccida il caso, è una scelta che, se fatta, può invece poi dar luogo ad amarissimo rimpianto o rammarico, per due ordini di ragioni:
- il rischio di un tipo di morte "probabilmente" peggiore di quella che avremmo potuto darci con le nostre mani;
- il rischio della morte di persone care (mio nonno si rammaricava sempre di non essere morto un po' prima, evitandosi il dispiacere della morte del figlio).
E' vero, come tu scrivi:
- che tuo padre, è morto in brevissimo tempo e con poca sofferenza;
- che non possiamo sapere cosa accadrà.
Però, anche se non possiamo certo sapere cosa avverrà, possiamo però conoscere l'"id quod plerumque accidit", e, cioè, quel che è più probabile che accada; e, cioè, che, nella maggior parte dei casi si muore lentamente e con molta sofferenza (mentre, in effetti, la "premorienza" dei figli, è un'evenienza meno probabile, sebbene terrificante).
Perlomeno, questa è la mia esperienza personale; per cui tendo ad escludere che una morte casuale possa "probabilisticamente" essere "migliore" di una morte "studiata" (cioè, di un suicidio premeditato).
Mi sembra abbastanza ovvio.
Per questo, almeno sotto il profilo strettamente logico, sarebbe opportuno affrettarsi!
Questo per rispondere alla tua domanda.
Però, chiedersi per quale motivo uno che ragiona così (cioè come me), ancora non si sia sparato in testa, sarebbe un'altra bella domanda; ma, caso mai, a questa risponderò un'altra volta, perchè ora non ne ho il tempo. 
Per concludere, mi rendo conto che la mia "logica" è un po' fuori dell'ordinario senso comune; però, in fondo, non è poi così nuova, corrispondendo a quella di Edipo, il quale sosteneva: "Non essere mai nati sarebbe la cosa migliore di tutte; però, una volta venuti al mondo, la cosa migliore è morire il prima possibile" (Sofocle, Edipo a Colono).
Il che, peraltro, è confermato pure dalla BIBBIA, nella quale troviamo scritto: "Il giorno della morte è molto meglio del giorno della nascita" (Qoèlet 7:1-29).
Il mio punto di vista, quindi, non è poi così isolato! :)

viator

Salve. La mia personale interpretazione del suicidio è -come spesso mi e trovo ad esprimermi - del tutto cinica e distaccata.
Il suicida è colui che rinuncia alla coscienza, trovandola fonte di futura sofferenza poichè la propria prospettiva di vita, giunta a quel punto, appare negare la realizzazione del sè.

Inconsapevolmente, l'aspirante suicida sceglie la propettiva solipsistica (la negazione dell'esistenza degli altri), quindi passa a sopprimere l'unica esistenza concepita. La propria.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Sariputra

#10
Il che, peraltro, è confermato pure dalla BIBBIA, nella quale troviamo scritto: "Il giorno della morte è molto meglio del giorno della nascita" (Qoèlet 7:1-29).

Non sono d'accordo.
Il giorno della nascita tutti sono felici e , dopo l'iniziale piantino, anche il neonato è felice, manda gridolini di gioia, sbuffa, fa le boccacce, si diverte insomma...e , finchè non si 'solidifica' il senso dell'Io/mio che poi genererà tutti i problemi e le melanconie della vita, è la persona più felice del mondo: si mangia i piedini, ti piscia in faccia quando lo cambi, ride gorgogliando a crepapelle, tenta di mangiarsi di tutto, usa abilmente il pianto per succhiarsi delle belle tette grosse... ;D
Viceversa, il giorno della morte tutti sono infelici: piangono, sono depressi, si sentono abbandonati da chi li amava, provano pena e sgomento per lui e per se stessi, ne avvertono già l'assenza...
Visto così mi pare che il giorno della nascita sia molto migliore di quello della morte, checchè ne dicano Sofocle o quel corvaccio dell'autore del Qoelet.. :)
Di più, non conoscendo con assoluta sicurezza cosa c'è, e se c'è qualcosa dopo la morte non mi sbilancerei troppo, ché si potrebbe finire dalla padella nella brace...in mondi terribilmente più spaventosi di questo, dov'è pianto e stridor di denti (per es. essere costretti a spalar carbone nelle caldaie del solito messer Satanasso... :-X ).
Tu sei certo che non c'è nulla dopo la morte, mentre io non son certo di nulla e quindi...ti lascio la rivoltella!
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Eutidemo

Caro Sariputra,
tu dici che Il giorno della nascita tutti sono felici, eppure intere popolazioni avevano l'usanza:
- di fare lutto quando qualcuno sventuratamente veniva al mondo;
- di fare festa e darsi a manifestazioni di tripudio e giubilo quando qualcuno fortunatamente moriva. Lo racconta Erodoto (STORIE V 1-4).

***
Quanto ai piccoli, pare che siano in grado di sorridere ben prima di quanto si pensi, addirittura già nell'utero; si tratta, però di sorrisi non intenzionali, che non rispondono a nessuno stimolo, una sorta di riflesso, un po' come muovere gambe e braccia per testare tutto "l'armamentario" di cui sono dotati.
Quanto al parto:
"Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato."
(Leopardi. CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA"
Dopodichè i bambini appena nati, come purtroppo mi rammento sin troppo bene bene, in genere non fanno altro che piangere come disperati, togliendo il sonno notturno ai poveri genitori.
Indubbiamente a volte sorridono pure (soprattutto nel sonno), però non è ancora del tutto chiaro il perchè, in quanto: 
- secondo alcuni psicologhi dell'età evolutiva, potrebbe trattarsi di meri stimoli muscolari "meccanici";
- secondo altri, invece, potrebbe trattarsi di un gesto involontario, dovuto all'istinto evolutivo di sopravvivenza poiché, quando sorridono, i bambini vengono percepiti come più "piacevoli", creando un maggiore istinto di protezione in chi gli sta attorno (ovviamente quest'ultima ipotesi fa riferimento a un istinto sviluppato centinaia di migliaia di anni fa quando i piccoli correvano un maggior rischio di essere lasciati a se stessi, sebbene a volte la cosa accada ancora).
Quando, poi, si sviluppa il senso dell'Io/mio, il sorriso diventa consapevole, è può essere provocato da un'infinità di motivi: soprattuto imputabili a:
- soddisfazione personale;
- interazione sociale. 
***
Quanto al giorno della morte, mi pare una ardita generalizzazione dire tutti sono infelici: dipende!
Per esempio, quando morì mia madre, io, essendo figlio unico di madre vedova, pur dispiacendomi un po' del fatto che non l'avrei più rivista, per un altro verso provai un intenso senso di SOLLIEVO, ed un immenso senso di CONFORTO, per due ordini di ragioni:
- in primo luogo, ero felice del fatto che fosse morta prima di me, evitandosi così l'immenso dolore, in vita, di perdere l'unico figlio da lei generato (sua madre ne perse due ancora bambini);
- in secondo luogo, poi, ero felice del fatto che avesse smesso di soffrire.
Ed in genere, nel caso di morte di altre persone care, il secondo pensiero mi ha sempre ENORMEMENTE consolato e spesso addirittura rallegrato.
***
Io paragono la vita ad una crociera di lusso, su una nave dove viaggiano passeggeri di prima, seconda e terza classe, oltre ad un numeroso equipaggio che si fa in quattro ad assisterli; a seconda della classe, c'è chi se la spassa di più e chi di meno, mentre, in genere l'equipaggio e quello che se la passa peggio. 
Però, nella stiva, sono nascosti misteriosi esseri "incappuciati d'ombra", i quali, senza che nessuno possa minimamente prevederne le mosse o contrastarli, in modo del tutto casuale e imprevedibile salgono sul ponte, e catturano a caso uno o più passeggeri; dopodichè li trascinano nella stiva e li torturano, in modo più o meno crudele (malattie e sventure varie).
Dopodichè, quando si stufano delle sevizie, li riportano malconci sul ponte, affinchè -se ancora ci riescono- continuino a godersi la crociera secondo la classe di appartenenza, oppure a sgobbare nelle cucine.
Successivamente, sempre in modo casuale, catturano di nuovo lo stesso sventurato...finchè, stanchi del gioco crudele, dopo averlo torturato nei modi più diversi lo buttano definitivamente a mare; destino che, comunque, riguarderà prima o poi inesorabilmente TUTTI!
Cioè, come diceva Belli: "L'ommini de sto monno sò ll'istesso che grani de caffè nner mascinino;  ch'uno prima, uno doppo, e un antro appresso, tutti cuanti, però, vvanno a uno destino."
Non dubito che, specie chi viaggia in prima classe, non si renda ben conto della situazione, e trovi la vita tutto sommato divertente (nuotando in piscina e giocando a bridge), ma questo solo a condizione che, in lui, ricorrano le tre seguenti condizioni:
- essere in buona salute;
- essere egoista;
- essere imbecille.
Se manca l'ultima condizione, però, secondo me le altre due non sono assolutamente sufficienti!
***
In conclusione, però, devo darti ragione su un punto, cioè quando scrivi che, suicidandosi: "... si potrebbe finire dalla padella nella brace...in mondi terribilmente più spaventosi di questo, dov'è pianto e stridor di denti".
Finendo, cioè, a far compagnia a Pier Delle Vigne, e con lui a lamentarsi:
"L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto."
(Dante Alighieri, Inferno XIII, 70-72)
Al riguardo, dopo aver precisato che io non ho MAI detto che "non c'è nulla dopo la morte", ma ho solo detto che, qualunque cosa ci sia, non può corrispondere alla nostra "identità individuale", anche a tale ultimo riguardo, credo che non sia affatto insensato fare un ragionamento di tipo "pascaliano" (mi riferisco alla famosa "scommessa di Pascal").
Ed infatti io ritengo l'eventualità che esista un "inferno", in cui il mio "ego" individuale possa essere punito per essersi suicidato, ad un livello di probabilità pari ad UNO (1) contro un MILIARDO alla TRILIARDESIMA POTENZA; cioè, lo stesso livello di probabilità che una scimmia bendata messa davanti ad una tastiera, battendo i tasti a casaccio, per puro caso possa scrivere i tre canti completi della Divina Commedia.
Per cui, se si trattasse di rischiare "pianto e stridor di denti" solo per mille o diecimila anni, essendo tale rischio -secondo me- ESTREMAMENTE improbabile, l'azzardo potrebbe anche valere la pena di essere osato; ma, visto che secondo alcuni, in realtà,si tratta di rischiare "pianto e stridor di denti" <<PER SEMPRE>>, il discorso cambia un po' prospettiva.
Ed infatti, come i criminali ben sanno, la convenienza ad arrischiare una determinata operazione illecita:
- è direttamente proporzionale alla improbabilità di essere catturati (cioè, più è difficile che si sia catturati, e più conviene provarci);
- ma è inversamente proporzionale all'entità della pena in cui si incorrerebbe se si venisse catturati.
Per cui, sotto il profilo logico-matematico, a mio avviso, il rischio di una DANNAZIONE <<ETERNA>>, rende "pericolosa" anche una scommessa da 1 ad MILIARDO alla TRILIARDESIMA POTENZA di probabilità.
Su questo hai indubbiamente RAGIONE!
Ed infatti, devo ammettere che questo è "uno" dei motivi (anche se non il principale) per i quali resto un po' in dubbio circa l'opportunità di suicidarsi; salvo la ricorrenza di casi estremi.
Perché, in effetti, come pure rifletteva Amleto
"Chi mai sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell'oppressore, l'ingiuria dell'uomo superbo, gli spasimi dell'amore disprezzato, il ritardo della legge, l'insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice pugnale? 
Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?"
***
Quanto alla rivoltella, pur essendo io abbastanza esperto nell'uso delle armi (visto l'impiego intensivo che ne feci tanti anni fa), non penso proprio che arrischierei ad usarne una delle mie per togliermi la vita; e questo proprio perchè, a suo tempo, oltre ad usarle, mi sono occupato un po' anche di "balistica terminale".
E, da varie risultanze balistiche che ho esaminato, ho avuto modo di constatare che non è affatto da escludere che, sparandosi in testa, invece di morire, si rischia di sopravvivere e di restare o paralizzati o cerebralmente menomati.
Per esempio, pochi riflettono che, senza mettere un freno di volata all'arma, se la canna non è "perfettamente" parallela alla tempia, la "vampa di bocca" (cioè il gas che esce dalla canna, in parte anticipando il proiettile) può spostare l'assetto della testa, di modo che il proiettile ferisce soltanto di striscio il bersaglio; ma una ferita più o meno di striscio alla tempia, può comportare comunque gravissimi danni, anche cerebrali.
Per cui, sarebbe comunque più sicuro spararsi in bocca ma il rischio di fallire c'è sempre, a causa del tipo di munizione usato, in quanto:
- calibri troppo leggeri (ad es.il cal.22) rischiano di penetrare troppo poco;
- calibri troppo performanti (ad es.il cal.357 MAGNUM) rischiano -anzi, è certo- di penetrare troppo, e, fuoriuscendo dal bersaglio, di scaricare OLTRE tutta la loro energia cinetica.
Il calibro migliore, forse, sarebbe il 38 SPECIAL (wadcutter, secondo me); ma non è detto che il risultato sia assicurato.
Intendiamoci bene, nel 97% dei casi, in qualsiasi modo ti spari in testa, ci resti secco sul colpo; ma è quel 3% residuo che mi preoccupa (come nel caso dell'inferno), perchè se fallisci il primo colpo, non sei in grado di rettificare l'errore con un secondo.
Ci sono modi migliori per togliersi la vita, tutto sommato; però tutti presentano qualche inconveniente.
Altro motivo per pensarci due volte (ed anche tre o quattro) prima di provarci "SUL SERIO"!
***

Sariputra

Mah!...Io però non ne farei una specie di riflessione statistica. La stessa sofferenza e malattia si presenta ed è diversa nella capacità di sopportazione da individuo ad individuo. C'è chi convive da quasi 50 anni con la sclerosi multipla e con gli ultimi 10 da completamente paralizzato, senza inveire contro la vita ( mia zia Luigina...), e chi corre dal dottore  per un attacco di emorroidi, che  ritiene insopportabile... :(
Pertanto, essendo così variabile e soggettiva la sensazione del soffrire, lo è inevitabilmente anche quella di valutarla come sopportabile oppure insopportabile e degna dell'intenzione di darsi la morte per questo... 
La poesia del Leopardi è bella ma:
Nessuno nasce a fatica . La fatica la prova la madre...
Si è a rischio di morte sì... ma non si è affatto consapevoli di questo...
Prova pena e tormento per prima cosa. Leopardi per caso ricordava di aver provato pena e tormento? Io no...
In sul principio lo prendon a consolar dell'essere nato. In realtà lo attacchi alla tetta per farlo smettere di piangere...e, anche qui, non mi sovvien di ricordar d'esser stato tanto infelice al momento...anzi, ancora adesso , di fronte ad una bella t.... una strana e piacevole "tensione verso" m'incatena... :) ;D
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Eutidemo

Caro Sariputra,
replico come segue:
1)
E' senz'altro vero che, sia la soglia del dolore sia quella sopportazione, variano da individuo ad individuo, e che non è possibile fare una statistica generale; però, almeno per la mia esperienza personale, posso garantirti che -nelle situazioni più gravi e disperate- ho visto quasi tutti invocare che la morte arrivasse al più presto...sebbene i medici facessero di tutto per tardarla (sembrava che tenessero più alla malattia, che al malato).
Tra costoro, c'erano due miei amici che, quando stavano bene, la pensavano esattamente come te.
2)
Quanto al fatto che tu non ricordi di aver sofferto al momento della nascia, questo non dimostra assolutamente niente; ed infatti, in media non ricordiamo nulla di ciò che ci è successo prima dei tre anni e mezzo di vita...e SICURAMENTE, nessuno è in grado di ricordare il "trauma" della nascita (sebbene, talvolta, ne continuiamo a risentire gli effetti psicofisici anche in seguito).
Ed invero, secondo l'unanime parere degli "addetti ai lavori", il parto può essere considerato un momento davvero traumatico per il bambino:
- sia su un piano emotivo e comportamentale;
- sia sul piano fisico, poichè il momento della nascita è chiaramente un evento fisicamente traumatico.
Ed infatti, il "nascituro":
a) è avvezzo a galleggiare in un gradevole ambiente liquido, in quanto si sviluppa e scresce nel liquido amniotico;
b) è al riparo da forti rumori, i suoni che arrivano sono tutti ovattati, ed è quindi al riparo dagli stress acustici;
c) è in un ambiente in cui non c'è praticamente nessuna luce, ed è quindi abituato a stare in una condizione di placido buio;
d) la temperatura è piuttosto elevata, corrisponde cioè alla temperatura corporea interna della madre;
e) si nutre e respira attraverso il cordone ombelicale, quindi non solo non è abituato al "contatto" con l'aria stando nel liquido amniotico, ma neppure i suoi polmoni sono abituati ad incamerare aria, tanto che sono pieni di acqua.
Se invece adesso facciamo riferimento a quello che è l'ambiente in cui il bambino viene al mondo nel 90 % accertato dei casi, vediamo che questo è totalmente diverso da quello in cui si è sviluppato.
Ed infatti:
- lascia il contatto con il liquido e si ritrova bruscamente a contatto con l'aria e soprattutto ad una temperatura molto inferiore rispetto a quella a cui era abituato; 
- l'ambiente in cui si ritrova è sicuramente molto luminoso rispetto al precedente, ed anche i rumori non sono più ovattati, ma sonori e diretti; 
- oltre al taglio spesso troppo repentino del cordone ombelicale, i polmoni del bambino si ritrovano per la prima volta a "respirare", ad incamerare aria, che (sebbene quasi nessuno lo sappia) al primo impatto BRUCIA terribilmente.
Per cui è OVVIO che urli...e non certo di gioia! :'(
Occorre peraltro considerare che tutti questi sgradevolissimi stravolgimenti di condizioni ambientali per il bambino avvengono "improvvisamente", in un lasso di tempo molto breve; dopo nove mesi passati tranquillamente in un ambiente "protetto" si ritrova, bruscamente, in un ambiente completamente opposto...il che aggrava lo "stress", che, in taluni casi, continua a produrre i suoi effetti anche nell'età adulta.
Per cui, secondo taluni, non di rado la sofferenza che si prova alla nascita è superiore addirittura a quella che si prova al momento della morte!
Questo, sinceramente, almeno per la maggior parte dei casi, mi sembra un po' eccessivo; però, almeno secondo me, non c'è dubbio alcuno che il neonato vada incontro ad una sorte ben più ardua del moribondo.
Non che nella vita non ci siano momenti piacevoli, ed anche di estrema felicità, ma, a mio parere, non bilanciano quasi mai quelli negativi; soprattutto se pensiamo alle condizioni in cui vivono nel terzo mondo centinaia di milioni di persone. :'(

Sariputra

#14
cit.Eutidemo
Non che nella vita non ci siano momenti piacevoli, ed anche di estrema felicità, ma, a mio parere, non bilanciano quasi mai quelli negativi; soprattutto se pensiamo alle condizioni in cui vivono nel terzo mondo centinaia di milioni di persone.

Secondo me invece è sempre una questione soggettiva. Nel mio caso, nonostante la vita non sia stata generosa dal lato salute fisica ( tralasciando l'altrettanto doloroso capitolo economico... :-[ ), vista la mia precocissima esperienza con la sofferenza vera, che ha poi però permesso lo sviluppo del mio interesse verso forme filosofiche  che mettono al centro proprio quest'esperienza, l'"estasi" che mi danno i momenti di percezione della Bellezza della vita sovrastano enormente quelli negativi. E mi rendo conto che, proprio perché ho vissuto molti momenti spiacevoli, apprezzo maggiormente quelli piacevoli. Anche durante i lunghi periodi spiacevoli fisicamente, mi ricordo che provavo un'emozione così forte e una così intensa capacità d'abbandono tale quasi da trovare, se così si può dire, del "piacevole nello spiacevole", e, in ogni caso, pur anelando ovviamente alla guarigione, furono i momenti più fecondi della mia misera esperienza 'spirituale'...

E' senz'altro vero che, sia la soglia del dolore sia quella sopportazione, variano da individuo ad individuo, e che non è possibile fare una statistica generale; però, almeno per la mia esperienza personale, posso garantirti che -nelle situazioni più gravi e disperate- ho visto quasi tutti invocare che la morte arrivasse al più presto...sebbene i medici facessero di tutto per tardarla (sembrava che tenessero più alla malattia, che al malato).

Sì, la sofferenza estrema può portarti ad invocare la morte. Ne ho fatto esperienza nei lunghi anni passati negli ospizi, che ormai sono diventati, per i tagli alla sanità, dei veri reparti di lungodegenza . In quei momenti, ovviamente, non fai ricordo degli innumerevoli momenti di gioia, serenità, pace e bellezza di cui hai goduto nel corso dell'esistenza. Spesso, per bimbi nati con gravi malattie per esempio, questi momenti possono essere stati pochissimi. La consapevolezza di questa possibilità mi spinge ad apprezzare maggiormente il fatto che, senza alcun merito, io ne abbia potuto gioire in abbondanza. Non imputo alla vita materiale alcuna colpa, visto che si tratta solo del prodotto di cause e condizioni il fatto di essere più o meno in salute, né ad alcuna divinità ritenuta più o meno ingiusta. Mi sforzo di "stare" con ciò che è. "Questo" è ciò che abbiamo come prodotto, anche noi, di cause e condizion...
Ciao  :)

P.S. Sembra che il numero di suicidi non sia determinato dalle condizioni economiche in cui si versa. Infatti uno dei pesi più ricchi e agiati del mondo, il Giappone, si trova al settimo posto nel ranking internazionale e il Belgio al 18esimo. In generale, nelle prime dieci posizioni, non troviamo nessun paese povero africano ( addirittura, ad una veloce lettura, mi sembra nemmeno nei primi cento...). Però, onestamente, bisogna dire che le statistiche in quei paesi non credo siano molto affidabili e che non si vada troppo a cavillare sul perché uno è morto... :(

P.S.II.  Spero si sia capito che i miei precedenti interventi erano tra il serio e il faceto...

Lascio un aforisma di James Joyce:
La vita è come un'eco: se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Discussioni simili (5)