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"Le donne, i cavalier, ..."

Aperto da doxa, 02 Novembre 2020, 21:22:32 PM

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"Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto..." scrisse Ludovico Ariosto nel proemio dell'Orlando furioso (1, 1).

Questo prologo fa pensare ai castelli, alle storie
di cavalieri, principi e principesse. Ma in Europa il castello era altro: un'area fortificata, che a volte cingeva il villaggio con la chiesa.

All'interno della cinta muraria  c'erano edifici con diverse funzioni,  compreso quello riservato al feudatario e alla sua famiglia.

Elementi tipici del castello: la guarnigione dei soldati, le balestriere, le catapulte, le saracinesche, il cammino di ronda, i magazzini,  gli alloggi per la milizia e per la servitù,  torri e torrette. Il "mastio" o "maschio" era la torre più alta, serviva per l'estrema difesa in caso di invasione.


                   
Dal XIV secolo nel castello il palazzo signorile,  generalmente pianta quadrata o rettangolare con uno o più cortili,  cominciò ad avere un portico al piano terra e più scale che  permettevano di salire ai piani superiori.

Dal portico si accedeva ai  locali di servizio, come il corpo di guardia, la "sala di giustizia" col trono per il signore,  le scuderie, le cucine; nei sotterranei c'erano le prigioni e i magazzini; nei piani superiori le camere di abitazione, spesso ornate con affreschi, sculture, stemmi,  iscrizioni religiose o araldiche.
 
Dal basso Medioevo nei castelli dove  c'era spazio per un giardino, questo veniva delimitato da mura ed aveva al centro una fontana o un pozzo.  Era riservato alla famiglia del nobile signore, alle dame e ai cortigiani.




Nel viridarium venivano collocate piante ornamentali e fiorifere,  statue, panchine, voliere con uccelli canori, pergolati, piante  usate in cucina per aromatizzare  e quelle officinali per  curare alcune malattie,  come quelle delle vie respiratorie, oppure per cicatrizzare la pelle nel caso di lievi ferite superficiali,  ecc..

Nelle serate festive del periodo estivo nel giardino venivano allestiti spettacoli all'aperto con la partecipazione di musici, giocolieri, menestrelli, ecc.; dame e cavalieri si intrattenevano piacevolmente danzando, conversando, giocando, anche a scacchi.


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Il giardino curtense era anche uno dei luoghi  per manifestare l'amor cortese, simboleggiato dalla rosa, che  può rappresentare in modo ambivalente  sia l'amore passionale  sia la verginità, l'elevazione spirituale e la  vanità.


Ma chi è degno di amore ? Come amare ?


Lo scrittore e religioso francese André le Chapelain (1150 circa – 1220 circa) conosciuto in Italia con nome e cognome italianizzati "Andrea Cappellano", visse nel periodo in cui nasceva e veniva diffusa la lirica cortese.

Non si hanno notizie certe sulla sua vita. Gli studiosi ipotizzano che sia stato cappellano alla corte di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII e della regina Eleonora d'Aquitania.

Andrea fu autore del "De amore", un trattato scritto in latino medievale nel 1185 circa, suddiviso in tre volumi, in cui si indicano i precetti principali dell'amor cortese:

1. il vassallaggio nel rapporto d'amore e la relativa subordinazione del cavaliere alla sua dama.ù

2. Il vero rapporto amoroso è extramatrimoniale. L'amor cortese è superiore all'amore coniugale.

Scrisse il "De amore" su richiesta del suo amico Gualtieri,  che non sa "aconciamente direggiere li freni di quel cavallo".


Nella prima parte del suo trattato Cappellano affronta  i problemi amorosi da un punto di vista aristocratico e laico, cominciando col dire cos'è l'amore e le regole d'amore; nella seconda, sostiene  "che niuno dee ispendere male i suoi dì nell'amore" e che voler realizzare tutti i desideri del corpo porta "fuori della grazia di Dio e della compagnia e dell'amistà de' buoni uomini".

Nei primi due libri Andrea riteneva che l'amore coniugale fosse inferiore perché risentiva dei doveri e delle responsabilità del matrimonio e perché diventava scontato per i due coniugi.

Ma in quel tempo la sua opinione sull'amore (basata sulla sessualità) era pericolosa, perché distante dall'amore cortese, considerato spirituale. Perciò nel suo terzo libro del "De Amore" dovette fare uso della reprobatio amoris, con cui egli si pose contro l'amore e la donna,  indicata con parole "sconce". Forse ricevette minacce di morte per ciò che aveva scritto nei primi due libri e si convertì all'idea della superiorità dell'amore coniugale., che può essere valorizzato con il rispetto e quindi con concetti diversi dall'adulterio.

Le ragioni della contraddizione ? Il timore di essere condannato come eretico. La contraddizione svela "le inquietudini di una cultura che era insieme laica e clericale, spregiudicata e rispettosa dell'ordine sociale".

Nel De Amore  c'è anche il tentativo di Andrea separare il sacro dal profano (i capitoli XIX e XX sono  rispettivamente dedicati all'amore dei chierici e all'amore delle monache) e di voler "amaestrare con iscrittura"; pone il saper bene parlare come uno dei modi più importanti - insieme alla bellezza e "ai belli costumi".
 
Ma nel 1277, "il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, facendo seguito a una bolla di papa Giovanni XXI, pronunciò contro il libro di Andrea Cappellano una solenne condanna;  la Chiesa  capiva l'influenza sociale del "De Amore",  considerato la codificazione dei rapporti non solo amorosi ma etici e sociali della società aristocratica "progressista" francese, che ebbe notevole influenza sulla formazione ideologica della nascente borghesia.

Nel 1215 durante il IV Concilio lateranense la Chiesa regolamentò il sacramento della penitenza e  rese obbligatoria la confessione annuale per sapere la "verità" dei peccatori e, al contempo, facendo del sesso la "materia privilegiata di confessione".

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L'amor cortese, capace di elevare spiritualmente l'uomo e renderlo ... "schiavo" della donna.




L'amor cortese aveva le sue regole. Veniva espresso dai "trovatori",  poeti provenzali,  autori e compositori, da non confondere con i giullari che erano gli esecutori, due funzioni nettamente distinte e stimate anche in modo differente. Comunque anche i compositori potevano declamare i loro versi.

Tra di essi,  c'erano pure le donne, poetesse e compositrici di melodie, donne colte, appartenenti all'aristocrazia, altamente considerate, abili nella conversazione arguta, padrone delle regole della poesia, della musica e della danza.


Immaginate dunque queste corti: ogni castello ha la sua signora che domina sulla schiera di cavalieri, scudieri, vassalli; su di lei si polarizzano i sogni, gli omaggi fervidi ma sempre deferenti, a volte sono in codice.

Nell'amor cortese c'è erotismo e concezione spirituale della donna amata.

Il culto della donna, vista dall'amante come un essere sublime. Il poeta con i suoi versi ne esalta la dolcezza del viso e della voce, ne loda le virtù, osserva ogni atteggiamento e comportamento che diviene simbolo di grazia, eleganza, superiorità.

La femminilità è esaltata come forza morale, spirituale e nobilitante.

Rispetto alla donna amata l'uomo si sente inferiore, e a lei si sottomette come umile servitore. Il  rapporto fra i due sessi è definito "servizio d'amore" e si attua  con l'obbedienza ai voleri della donna.

Si tratta dunque di un amore in cui il rapporto tra l'uomo e la donna è simile a quello intercorrente tra il vassallo e il suo signore. I valori di lealtà, fedeltà, onore, merito, valore, debbono esserci anche nel rapporto tra il cavaliere e la dama.

Il desiderio che tiene viva la fiamma dell'amor cortese è un desiderio inestinguibile, persino la gelosia viene lodata come "nutrice dell'amore".

Il desiderio di unione fisica con l'amata non è  soltanto desiderio di piacere voluttuoso, anche se nelle poesie trobadoriche ci sono quelle  sensuali, a volte oscene, e altre spirituali.

Anche se non  soddisfatto, il desiderio sessuale è sempre piacevole perché esso si nutre di sé stesso. L'erotismo è presente nel gioco degli  sguardi o nello sfiorarsi le mani.

La mente del poeta, come quella di alcuni dei protagonisti dei romanzi cavallereschi, è sempre occupata dall'immagine di lei, il cuore è palpitante di gioia all'idea del prossimo incontro, o è invaso dal timore di non rivederla.

Gli studiosi hanno individuato un susseguirsi di fasi che scandiscono il ritmo delle emozioni e dei sentimenti: si comincia con l'attrazione che colpisce come un dardo; il tramite privilegiato sono gli occhi e il loro sguardo; il poeta-amante adora la donna, ma cela  la sua infatuazione,  fin quando non trova il coraggio di dichiarare la sua devozione all'amata. Lei inizialmente rifiuta sdegnosa, ma lui non si scoraggia e continua a corteggiarla giurandole eterna fedeltà, così finalmente lei, colpita dalla sua tenacia, si degna d'ascoltarlo. E' un inizio, lui desidera il rapporto sessuale, ma il suo desiderio rimane insoddisfatto, si lamenta, soffre del mal d'amore,  si "distrae" compiendo gesta eroiche e di valore per vincere la ritrosia dell'amata che in alcuni casi ricambia l'amante, e allora iniziano avventure e sotterfugi  per evitare di essere scoperti.

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L'amore "clandestino" tra il cavaliere o il poeta e la domina era sempre asimmetrico,  anche dopo il coitus, perché  la donna era di rango più elevato.

Nella poesia trobadorica la donna ideale era di solito la moglie del sovrano o del feudatario, la ricca e potente padrona del castello.

Così scrive un trovatore: "Desiderio ne ho, come nessuno mai ne ebbe più grande, ma il suo magnifico pregio mi incute spavento".
 
L'amor cortese non può che essere allora un amore extra-coniugale, anzi, esso è considerato superiore al vincolo coniugale, è il vero amore contrapposto al matrimonio proprio perché al di fuori di ogni considerazione utilitaristica.

Infatti  nel passato il più delle volte le unioni matrimoniali  dell'aristocrazia  non avvenivano per amore ma erano basate   su calcoli politici e di successione dinastica.

Il "matrimonio combinato" necessitava poi di sbocchi emotivi...

La libertà d'amare non poteva che realizzarsi al di fuori di matrimonio, al punto che il citato Andrea Cappellano  nel "De amore" scrisse  che nel matrimonio non c'è  "amor fino",  perché il vincolo matrimoniale elimina la trepidazione che nasce dal desiderio ostacolato, ed essendo il matrimonio un contratto stipulato per ragioni dinastiche o economiche,  manca di  un requisito indispensabile dell'amore: la gratuità.

L'adulterio acquisiva una sua eticità nel momento in cui diveniva itinerario di perfezionamento morale per gli amanti, ed era questo il viaggio più importante dell'amore trobadorico, che potenzialmente abbatteva le barriere fra le classi sociali: solo chi possedeva nobiltà d'animo poteva cimentarsi nell'amore cortese, indipendentemente dal rango e la ricchezza, che non erano garanzia di nobiltà d'animo.

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i trovatori


Maestro del Codex Manesse, "Poeti trovatori" miniatura (1305-1340), Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

Il più noto fra i cosiddetti "trovatori" italiani è Sordello da Goito (prov. di Mantova). Nacque nel XIII secolo da famiglia nobile ma decaduta. Da giovane frequentò la corte del conte Riccardo di San Bonifacio, in quel tempo signore di Verona.


Sordello s'innamorò di Cunizza (moglie del conte Riccardo e sorella di Ezzelino da Romano), e  la celebrò nelle sue poesie.

Questo poeta frequentò varie corti in Italia poi  andò in Provenza alla corte del conte Raimondo Berengario IV. In seguito passò al servizio del re Carlo I d'Angiò, col quale tornò in Italia, dove ebbe da lui in dono alcuni feudi in Abruzzo.

Dante Alighieri nella Commedia incluse Sordello tra le anime del secondo balzo  dell'Antipurgatorio. Compare nei Canti VI, VII e VIII del Purgatorio.

La più antica poesia d'amore in lingua italiana, che serba memoria di letture trobadoriche,  è titolata "Quando eu stava in le tu' cathene", scritta tra il 1180 e il 1220 da un autore anonimo.

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Fra trovatori e giullari spesso c'era un rapporto di collaborazione nella realizzazione di spettacoli nelle corti nobiliari. Il trovatore offriva la sua prestazione artistica come poeta, il giullare accompagnava questa attività con il testo della canzone elaborato dal trovatore.


C'erano giullari stabili presso le corti e giullari  meno fortunati che per vivere erano costretti a girovagare di castello in castello e di villaggio in villaggio per presentare il loro spettacolo sulla piazza, di solito davanti la chiesa o sul sagrato della chiesa.  C'erano cantastorie e  musicanti, danzatori e mimi di umile condizione economica. 




Simone Martini, dettaglio dall'affresco della Vestizione di San Martino, Basilica inferiore di San Francesco, Assisi


Questi  artisti involontariamente avevano  anche un'importante funzione di collegamento: nelle corti e nei villaggi  oltre agli spettacoli  comunicavano le notizie di avvenimenti in altre località.

Prima che prevalesse il termine generico "giullare" tali attori venivano chiamati con appellativi specifici che indicavano la loro "specialità": i saltatores (saltimbanchi), i balatrones (ballerini) i bufones (comici) e persino i divini (gli indovini), trampolisti e acrobati.

Nel Medioevo quegli artisti di "strada" per le esibizioni  non potevano vestire secondo il loro gradimento, ma dovevano indossare abiti secondo disposizioni delle autorità locali. Di solito l'abito del giullare era considerato diabolico e simbolo del disordine: doveva essere multiforme e colorato, ma di due soli colori, con strisce verticali alternate.




La Chiesa li considerava con sospetto, ne condannava la vita e i canti, li sopportava fin quando possibile.

In Italia uno degli esponenti  rappresentativi della poesia popolare giullaresca del XIII secolo fu Cielo (Ciullo) d'Alcamo, poeta e drammaturgo della scuola siciliana, detta anche "Scuola poetica siciliana", movimento letterario nato  a Palermo tra il 1220 e il 1266 nella corte dell'imperatore Federico II di Svevia.

La poesia della Scuola siciliana fu la prima in "volgare" italiano. Era ispirata dalla lirica amorosa dei trovatori provenzali, basata sull'amor cortese.

"Contrasto
" è il titolo del più noto componimento poetico di Cielo d'Alcamo, un personaggio colto che così comincia la sua poesia:  "Rosa fresca aulentissima..."): è un  "contrasto" dialogato tra uno spasimante di origine popolare e una giovane donna che all'inizio fa la ritrosa e finge di rifiutare il corteggiamento dell'uomo, per poi cedere gradualmente e alla fine  si concede.

Il testo è un tipico esempio della poesia comica e giullaresca nell'Italia del Due-Trecento, destinato forse alla recitazione a più voci di fronte a un pubblico di illetterati, come forma di "teatro di strada". La lingua presenta una commistione di termini aulici e tipici della letteratura "alta" con espressioni popolari e gergali, per cui non è da escludere un intento parodistico verso la poesia lirica amorosa.

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Un altro esponente della Scuola poetica siciliana fu Jacopo da Lentini (1210 circa – 1260 circa), considerato l'ideatore del sonetto: è un  breve componimento poetico musicato. Il nome "sonetto" deriva dal provenzale "sonet", diminutivo di "son" (= suono).


"Jacobus de Lentini domini imperatoris notarius": così si firma in un documento messinese del 1240 il funzionario della corte di  Federico II che  Dante poi cita come il "Notaro", nel Canto XXIV del Purgatorio, verso 56.


L'Alighieri lo cita anche nel "De vulgari eloquentia" per una canzone che considera esempio di stile limpido e ornato.
 
Si conoscono altri atti firmati da Jacopo  in varie città  del Regno di Sicilia.

Egli visse tra Lentini e il palazzo reale di Palermo, in cui era notaio di corte. Morì intorno al 1260 all'età di cinquant'anni.

Fu probabilmente lo "Iacobus de Lentino" comandante del castello di Garsiliato (Mazzarino), nominato in un documento dell'aprile 1240.


resti del castello di Mazzarino

La produzione letteraria di Iacopo e dei poeti della Scuola Siciliana è basata sulla lirica cortese  provenzale con temi amorosi. Ma a differenza di questa, i poeti siciliani eliminavano i riferimenti a vicende concrete, alla cronaca della vita cortigiana e a persone identificabili.  I loro componimenti erano su un piano più astratto e letterario.  La donna è cantata come la nobile signora e padrona da servire con dedizione.

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Un altro personaggio dell'epica cavalleresca fu il menestrello: questo nome deriva dal provenzale "menestrals" (= "servo di casa"). In epoca feudale spesso era l'artista di corte, incaricato dell'intrattenimento della famiglia del feudatario e dei cortigiani.  Suonavano, cantavano, recitavano


I menestrelli erano anche cronisti, confidenti, messaggeri segreti, venivano pure utilizzati  come ambasciatori.




Menestrelli con viella e liuto – miniatura dalle "Cantigas de Santa Maria" di Alfonso X di Castiglia – 1280

Essi non erano né poeti né compositori, cantavano esuonavano brani composti da altri, o presi dal repertorio della musica popolare del tempo.
 
Al centro della loro produzione era la Chanson de geste che pur essendo prevalentemente letteraria, non fu senza influsso sulla musica del XII e XIII secolo.

La canzone di gesta era una cronaca epica, nata per celebrare le prodezze di Carlo Magno, di Rolando e di altri famosi eroi.

Anche i villaggi ingaggiavano i menestrelli  girovaghi per animare fiere, tornei e mercati.


the end

Ipazia

L'amor cortese è un momento importante nella rappresentazione del femminile all'interno della cultura dominante patriarcale. Un risarcimento ideale, non scevro di ipocrisia, ma autentico nelle sue aspirazioni che giungeranno fino agli imbarchi per l'isola di Venere, Citera, del settecento lussureggiante di Watteau. Fino alle Citere (anti)romantiche di Baudelaire e Gauguin, mentre il romanticismo bigotto partoriva i suoi restaurati Tannhäuser, trovatore (Minnesänger) traviato dall'amore carnale del Venusberg.

In questo dilemma tra amore spirituale e carnale, i risultati migliori, sul piano artistico e antropologico, sono le sintesi tra i due (Paolo e Francesca, tra i mitici esempi), nel lungo cammino spirituale della bellezza, che forse un giorno, se non diventeremo bot, ci salverà, saldando alfine etica ed estetica nello stesso Logos.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

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