La Natura come fondamento e legittimazione

Aperto da Jacopus, 19 Maggio 2021, 08:01:32 AM

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iano

#15
Ciao Jacopus.
Non si può dire che sia tu che Phil facciate sfoggio di cultura, ma la incastrate quanto basta in un discorso che nella sua coerenza appare ancora come autonomo, ed è quindi un piacere leggervi.
Io costruisco il mio pensiero post dopo post facendo sponda al vostro, e così quella che ho provato ad esporre è una idea di cultura come collante funzionale di un uomo definito come animale diffuso, così come è maturato nella mia testa qualche post prima.
Se questo animale è diffuso, cioè fatto di parti fisicamente separate, allora il collante che le unisce funzionalmente rimane in bella vista, fuori dal più solito contenitore animale, ed è ciò che chiamiamo cultura .
Ciò che conta credo sia la funzione e non il modo in cui si realizza , e in quest'ultimo sembra esserci un salto nell'uomo, o forse è solo appunto che è posta in nella vista, da farci apparire un salto, quando di solito è celata dentro una superficie chiusa che basta diversamente a definirne genericamente a catalogo il contenuto.
La cultura rimane in via prioritaria quella relazione che unisce funzionalmente i diversi individui animati di una specie , escludendo le parti inanimate.
Ma le specie in se' hanno vera origine in una definizione libera e non univoca, seppur non perciò arbitraria.
Ne possiamo allargare ,individuandoli , i confini definitori fino a ridurci alle sole specie animata e  inanimata che sembrano separate da un confine ancor meno arbitrario, se possibile.
Ma dobbiamo ammettere che non sappiamo bene cosa sia anima e cosa materia e che specie nell'uomo il cercare di definire tale confine sembra risultare alienante.
E tuttavia, come quando alcuni paradossalmente affermano che siamo diventati schiavi di una tecnica che domina il pianeta, di fatto ammettiamo come di poter mettere a catalogo di Linneo, aggiornandolo, una nuova specie inanimata.
Le definizioni sono per gli uomini un po' come le favole peri bambini. Possono terrorizzarli popolandole di mostri cattivi, e questa è un po' la sorte toccata la tecnica in certe favole di oggi, quando invece appena ieri arriva come il principe azzurro sul cavallo bianco.
Per quanto beneficio porti a me la nuova tecnica, individuo adulto. restio ad adattarvisi, io volentieri l'abolirei, ma sarebbe l'acida vendetta di un vecchio giunto alla fine, abbastanza saggio però da sapere che ciò che lui è ed è stato, consapevole o meno di esserlo, risiede fisicamente, culturalmente ed eticamente in vecchie tecniche ormai inglobate e che non spaventano più nessuno.
Se guardò gli effetti che le nuove tecniche promettono di avere sull'umanità ne restò in effetti terrorizzato, perché ciò che vedo proiettarsi è un alieno.
Ma è l'evoluzione stessa ad essere una storia di alienazioni, e certamente noi siamo quei mostri di oggi che gli antichi paventavano, al pari di quel che noi oggi facciamo.
Peccato non siano ancora qui con noi, per poterci dire se è davvero così brutto quel che vedono, e se ciò  che temevano si è davvero realizzato.
Certo è inevitabile preoccuparsi della nostra sorte e non sembra facile rassegnarsi ad essere parte di una storia più grande di noi, ma in fondo, se le definizioni di specie e di individui hanno un senso, è proprio quello di esser unici e di voler restare tali, diversamente dai progetti che la natura ha su di noi e sulle altre specie, alla quale evidentemente non piace vincere facile, guadagnandosi con fatica e con ingegno ogni sua nuova specie.
Le specie competono fra loro nello spazio naturale, ma prima ancora con se stesse nel tempo.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Ipazia

Nessuno contesta la specificità dell'evoluzione etica e il suo svincolarsi dall'evoluzione naturale tal quale. Solo che non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi (perchè hanno freddo prima che per pruderie post-etologiche). La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Citazione di: Ipazia il 22 Maggio 2021, 11:47:11 AM
La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Non sono sicuro di cosa tu intenda con «fallacia antinaturalistica», ma credo nessuno neghi che ci sia un rapporto/relazione fra etica e physis, in quanto l'etica si rivolge anche ai bisogni fisiologici primari. La questione è se si tratti o meno di fondamento/legittimazione (come da titolo del topic) o di appello argomentativo (v. esempio precedente sulla violenza) o campo d'applicazione (che è solitamente al capo opposto del fondamento, logicamente parlando).
La convinzione etica che «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»(cit.) non ha fondamento né nella natura né nella physis, ma in una morale che inevitabilmente si applica (non fonda) anche ad aspetti naturali e fisiologici. Concretizzando: se guardando la natura (umana o altro) riusciamo a dire «questo è bene» e «questo è male», è perché tali giudizi si fondano sulla natura che osserviamo o vi si applicano a posteriori? In sintesi: il bene/male etico è già negli occhi di chi guarda o si "scopre" guardando e studiando l'"oggetto naturale"?
Detto altrimenti (riformulo alla ricerca della domanda meno ambigua): casa nella natura o nella physis (di)mostra che sia bene «dar da mangiare agli affamati»? Il fatto che altrimenti muoiano è un male solo per un paradigma che già presuppone l'assioma «la vita è un bene», ma tale paradigma non si fonda sulla (ma di certo è in relazione con la) natura, essendo essa un contesto in cui vita/morte sono solo cambiamenti di stato, di attività organico/energetica, di interazione fra cellule, batteri, etc. senza che sia in gioco «bene» o «male» (categorie degli uomini per gli uomini), almeno  prima che l'uomo rivolga verso tali fenomeni naturali e fisiologici il suo sguardo già etico, di un'etica fondata altrove (e che, inevitabilmente, assegna alla vita umana un valore che, per natura, non ha; come ben ci spiegano i virus e le pandemie... per quanto riguarda l'istinto di sopravvivenza vale quanto già detto in precedenza sul non confondere etica ed istintività).

Per chiarire ho già usato altrove il parallelismo con il linguaggio (parallelismo in senso euclideo, ovvero che non confonde i due ambiti): il fondamento della lingua italiana è tutto ciò che può esser detto in italiano (nomi, concetti, frasi, etc.) o l'insieme delle sue regole sintattiche, grammaticali, etc.? Se è l'insieme di tali regole (e non i referenti a cui l'italiano si applica), esse sono fondate sulla physis della nostra natura cerebrale (area del linguaggio, etc.) o su altro? Quale "spicchio" di physis o natura fonda il congiuntivo in italiano e lo rende assente in altre lingue? Da notare che non sto parlando del linguaggio in generale, ma nello specifico della lingua italiana che ci fa scrivere queste stesse frasi (proprio come la nostra etica, volgendosi agli altri uomini, ci fa dire «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»).
Secondo me, non c'è niente di male (appunto) nel riconoscere che abbiamo bisogno di etica e morale per dare coesione alla nostra vita sociale e culturale, un bisogno tale che non importa (fondativamente parlando, non contenutisticamente parlando) se siano dettate dal cielo divino o radicate nell'"oggettività" della natura o approntate storicamente dagli uomini, resta il fatto che non possiamo farne a meno (la stessa immoralità non è altro che una morale differente).

viator

Salve phil. Sono completamente d'accordo con la chiarezza delle tue argomentazioni. Quando ci vuole, ci vuole. Saluti ed omaggi.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Ipazia

Citazione di: Phil il 22 Maggio 2021, 16:38:51 PM
Citazione di: Ipazia il 22 Maggio 2021, 11:47:11 AM
La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Non sono sicuro di cosa tu intenda con «fallacia antinaturalistica», ma credo nessuno neghi che ci sia un rapporto/relazione fra etica e physis, in quanto l'etica si rivolge anche ai bisogni fisiologici primari. La questione è se si tratti o meno di fondamento/legittimazione (come da titolo del topic) o di appello argomentativo (v. esempio precedente sulla violenza) o campo d'applicazione (che è solitamente al capo opposto del fondamento, logicamente parlando).
La convinzione etica che «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»(cit.) non ha fondamento né nella natura né nella physis, ma in una morale che inevitabilmente si applica (non fonda) anche ad aspetti naturali e fisiologici.

Il fondamento è fondamento. La legittimazione deriva da una presa d'atto razionale del fondamento. Il campo di applicazione è la comunità di umani che condividono fame, freddo, malattie e morte.

CitazioneConcretizzando: se guardando la natura (umana o altro) riusciamo a dire «questo è bene» e «questo è male», è perché tali giudizi si fondano sulla natura che osserviamo o vi si applicano a posteriori? In sintesi: il bene/male etico è già negli occhi di chi guarda o si "scopre" guardando e studiando l'"oggetto naturale"?

Studiando l'oggetto naturale umano se ne individuano i bisogni totalmente condivisi sui quali si può costituire, a posteriori, un'etica fortemente condivisa. I comuni denominatori delle diverse dottrine giuridiche ce ne danno esempi consistenti.

CitazioneDetto altrimenti (riformulo alla ricerca della domanda meno ambigua): casa nella natura o nella physis (di)mostra che sia bene «dar da mangiare agli affamati»? Il fatto che altrimenti muoiano è un male solo per un paradigma che già presuppone l'assioma «la vita è un bene», ma tale paradigma non si fonda sulla (ma di certo è in relazione con la) natura, essendo essa un contesto in cui vita/morte sono solo cambiamenti di stato, di attività organico/energetica, di interazione fra cellule, batteri, etc. senza che sia in gioco «bene» o «male» (categorie degli uomini per gli uomini), almeno  prima che l'uomo rivolga verso tali fenomeni naturali e fisiologici il suo sguardo già etico, di un'etica fondata altrove (e che, inevitabilmente, assegna alla vita umana un valore che, per natura, non ha; come ben ci spiegano i virus e le pandemie... per quanto riguarda l'istinto di sopravvivenza vale quanto già detto in precedenza sul non confondere etica ed istintività).

Infatti l'etica razionale non si costituisce su un fallace giusnaturalismo che trae belli e pronti i suoi precetti da quello che fa la natura, ma da come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali, a priori di ogni elaborazione e postulazione etica.

CitazionePer chiarire ho già usato altrove il parallelismo con il linguaggio (parallelismo in senso euclideo, ovvero che non confonde i due ambiti): il fondamento della lingua italiana è tutto ciò che può esser detto in italiano (nomi, concetti, frasi, etc.) o l'insieme delle sue regole sintattiche, grammaticali, etc.? Se è l'insieme di tali regole (e non i referenti a cui l'italiano si applica), esse sono fondate sulla physis della nostra natura cerebrale (area del linguaggio, etc.) o su altro? Quale "spicchio" di physis o natura fonda il congiuntivo in italiano e lo rende assente in altre lingue? Da notare che non sto parlando del linguaggio in generale, ma nello specifico della lingua italiana che ci fa scrivere queste stesse frasi (proprio come la nostra etica, volgendosi agli altri uomini, ci fa dire «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»).
Secondo me, non c'è niente di male (appunto) nel riconoscere che abbiamo bisogno di etica e morale per dare coesione alla nostra vita sociale e culturale, un bisogno tale che non importa (fondativamente parlando, non contenutisticamente parlando) se siano dettate dal cielo divino o radicate nell'"oggettività" della natura o approntate storicamente dagli uomini, resta il fatto che non possiamo farne a meno (la stessa immoralità non è altro che una morale differente).

Qui il discorso è già molto a posteriori e poco physis trattandosi di sviluppo del linguaggio grammaticale.
Piuttosto sarebbe da approfondire se l'immoralità/no-etica è davvero una moralità/etica alternativamente opzionale o se non sia il caso di approfondire il campo di applicazione etico, prima di posizionare ogni oggetto sullo stesso piano.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

@Ipazia

Non vorrei che l'"accanimento maieutico" diventasse sconveniente, quindi proverò ad essere sintetico (per i miei canoni): affermare che «il fondamento è fondamento»(cit.) è un po' come rispondere alla domanda «perché?» con «perché sì»: un dogmatismo che è la tomba di ogni analisi ed indagine (filosofica o meno). Riguardo i "comuni denominatori" delle dottrine giuridiche: essi hanno da sempre lo scopo di tenere coesa e funzionale le società; se si consente di uccidere a piacimento, la società si sfalda, quindi si vieta l'omicidio con una legge che si basa sull'instaurazione del contratto sociale (altrimenti non ha senso parlare di legge), non sulla natura o sul valore della vita (valore che è infatti stabilito, utilmente ed arbitrariamente, a posteriori dal diritto). La natura non ha valori, né esistenziali né etici, ma, come detto, solo meccanismi, cambiamenti di stato, istinti, etc. sui quali fondare un'etica è frutto di interpretazione a posteriori; tutti i dibattiti etici sul fine vita assistito, sulla pena di morte, sul come dare la vita, etc. lo dimostrano, senza che il chiamare in causa il "fondamento della natura" risolva inappellabilmente le questioni etiche connesse.
Il «come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali»(cit.) non è l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) ma è il campo d'applicazione dell'etica: ad esempio, di fronte all'immigrato affamato (che per "come è la sua natura" ha urgente bisogno di cibo) si può decidere se respingerlo in mare, o accoglierlo, o riportarlo dove morirà di fame, etc. senza che (v. sopra) si possa fare appello al "fondamento naturale" per falsificare eventuali posizioni etiche "malfondate" (il che dimostra che il fondamento è altrove e i bisogni naturali sono ciò su cui l'etica "legifera", o almeno giudica, ma non si fonda).
Direi che l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) è, fino a prova contraria, la dicotomia bene/male, e andarli a rintracciare a posteriori nella natura comporta darne una lettura umanizzata: come già spiegato in precedenza, il bene è negli occhi di chi guarda, non nella natura, negli istinti, nei bisogni, etc. D'altronde se bastasse appellarsi ai bisogni primari per individuare o "dedurne" il Bene, allora l'etica sarebbe solo la versione poetica o la formalizzazione pre-giuridica della biologia; tuttavia, da quando sono nate le prime società sino alla complessità e la plurivocità delle questioni etiche contemporanee, si può anche sospettare che non sia troppo credibile rovesciare campo d'applicazione e fondamento, neppur per amore di "solidità".

Ipazia

Citazione di: Phil il 23 Maggio 2021, 00:01:14 AM
@Ipazia

Non vorrei che l'"accanimento maieutico" diventasse sconveniente, quindi proverò ad essere sintetico (per i miei canoni): affermare che «il fondamento è fondamento»(cit.) è un po' come rispondere alla domanda «perché?» con «perché sì»: un dogmatismo che è la tomba di ogni analisi ed indagine (filosofica o meno). Riguardo i "comuni denominatori" delle dottrine giuridiche: essi hanno da sempre lo scopo di tenere coesa e funzionale le società; se si consente di uccidere a piacimento, la società si sfalda, quindi si vieta l'omicidio con una legge che si basa sull'instaurazione del contratto sociale (altrimenti non ha senso parlare di legge), non sulla natura o sul valore della vita (valore che è infatti stabilito, utilmente ed arbitrariamente, a posteriori dal diritto). La natura non ha valori, né esistenziali né etici, ma, come detto, solo meccanismi, cambiamenti di stato, istinti, etc. sui quali fondare un'etica è frutto di interpretazione a posteriori; tutti i dibattiti etici sul fine vita assistito, sulla pena di morte, sul come dare la vita, etc. lo dimostrano, senza che il chiamare in causa il "fondamento della natura" risolva inappellabilmente le questioni etiche connesse.

Il "perchè sì" oppure "perchè è così" non è dogmatico quando si riveli l'unica risposta sensata alla fine, ovvero all'inizio, di un lungo percorso causale. E' vero che la natura non ha valori, ma i valori che noi decidiamo a posteriori sono, per i bisogni fondamentali, dipendenti dalla evoluzione naturale che ci ha resi così come siamo. La nostra etica riguardo i bisogni fondamentali è il campo di applicazione di condizioni biologiche che sono così perchè sono così. Fossimo immortali, erbivori, ermafroditi, tutta la nostra impalcatura etica e giuridica sarebbe diversa. Non ci sarebbe l'omicidio, gli animalisti e il patriarcato. Il campo correttamente giusnaturalista è quello in cui l' a posteriori non è opzionale, ma è indotto con zero gradi di libertà dall'animale umano così come si è formato in natura.

Ci sarebbe tra l'altro da capire come mai anche in una dottrina giuridica così intrisa di proprietà privata come quella borghese-capitalistica il furto sia ritenuto meno "sfaldante della coesione sociale" dell'omicidio.

CitazioneIl «come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali»(cit.) non è l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) ma è il campo d'applicazione dell'etica: ad esempio, di fronte all'immigrato affamato (che per "come è la sua natura" ha urgente bisogno di cibo) si può decidere se respingerlo in mare, o accoglierlo, o riportarlo dove morirà di fame, etc. senza che (v. sopra) si possa fare appello al "fondamento naturale" per falsificare eventuali posizioni etiche "malfondate" (il che dimostra che il fondamento è altrove e i bisogni naturali sono ciò su cui l'etica "legifera", o almeno giudica, ma non si fonda).

Sulla necessità di garantire la sopravvivenza a popolazioni inconsultamente prolificanti non ci piove, nella pia speranza che alfine si diano una regolata giusnaturalisticamente compatibile con il loro impatto prolificante. Ma il come farlo lo decide chi le soccorre, non chi ha bisogno di essere soccorso. Se la fame è di welfare e non di cibo non siamo più in ambito giusnaturalistico "fame". E ancor meno lo siamo se la fame di welfare si trasforma in invasione. La quale sposta il campo di applicazione del naturalismo etico al piano decisamente meno solidaristico della difesa delle risorse sociali del branco che si sente minacciato.

CitazioneDirei che l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) è, fino a prova contraria, la dicotomia bene/male, e andarli a rintracciare a posteriori nella natura comporta darne una lettura umanizzata: come già spiegato in precedenza, il bene è negli occhi di chi guarda, non nella natura, negli istinti, nei bisogni, etc. D'altronde se bastasse appellarsi ai bisogni primari per individuare o "dedurne" il Bene, allora l'etica sarebbe solo la versione poetica o la formalizzazione pre-giuridica della biologia; tuttavia, da quando sono nate le prime società sino alla complessità e la plurivocità delle questioni etiche contemporanee, si può anche sospettare che non sia troppo credibile rovesciare campo d'applicazione e fondamento, neppur per amore di "solidità".

La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola. Del tipo che la morte diventa accettabile se in cambio ottieni la vita eterna. Che il sacrificio della vita è giustificato se permette la sopravvivenza di altre vite, ecc. Per quanto la scansi, la natura irrompe da ogni buca scavata nelle sovrastrutture etiche più apparentemente arbitrarie, appena ci si accinga ad una indagine ermeneutica accurata. Non certo facile, vista la complessità dell'etologia umana e i numerosi piani di bisogni e desideri in cui essa si articola. Tale complessità si ripercuote anche sulla "deducibilità" dei principi etici: la stessa acqua che nel deserto è un/il bene preziosissimo, poco di fianco può significare malaria, alluvione, quindi un/il male. Non solo il fondamento, ma anche il campo di applicazione esige un'ermeneutica accurata.

Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato. L'etica non solo ha fondamenti solidi nella natura ma, falsificando le metaetiche arbitrarie, ha pure un senso di marcia non reversibile.  Il che dà indubbiamente "solidità" al discorso etico.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Premettendo che l'«è cosi» applicato alla ricerca/legittimazione di fondamento non è comparabile con l'«è così» applicato alla constatazione della realtà (che potrebbe anche essere spiegata valicando il fatalismo di quell'«è così», ma non divaghiamo), pongo solo alcune domande per assicurarmi di aver ben capito la tua posizione:
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola.
quindi la natura (im)pone bene/male nella dicotomia vita/morte, ovvero la morte per la natura è male, non è solo un processo di trasformazione? Non ricadiamo in una anacronistica teodicea applicata alla natura ("come può la natura alimentare il proprio male")?
Non è che si sta leggendo con categorie culturali umane quello che in natura è solo un istinto di sopravvivenza (tanto quanto l'aggressività, solo che questa viene interpretata e giudicata moralmente, non a caso, diversamente dall'uomo)? Verrebbe quasi da chiedere dove tale "natura moraleggiante" (e antropomorfizzata in quanto persino filosofeggiante) fondi il suo bene/male... ma è di certo un'altra storia o un altro troncante «è così».
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato.
Dunque, stando a tale "dimostrazione" basata su ciò che l'uomo "naturalmente" non ama (senza voler sviluppare il pericoloso piano inclinato che lega ciò che il singolo vuole/ama e il bene della società, questione per nulla "naturale"), la natura fonda anche la proprietà privata come bene (il cui furto è male), la correttezza morale del non truffare, etc.?
Non è che rovesciando fondamento e campo di applicazione possiamo farle fondare, ad libitum, anche tutto ciò che invece è sembrerebbe fondato piuttosto sulla cultura (v. diritti individuali, umani e altre convenzioni contrattualmente stabilite, senza voler entrare nel merito, che presuppone appunto la comprensione dei fondamenti da cui si parte)?

Ipazia

Citazione di: Phil il 24 Maggio 2021, 11:24:08 AM
Premettendo che l'«è cosi» applicato alla ricerca/legittimazione di fondamento non è comparabile con l'«è così» applicato alla constatazione della realtà (che potrebbe anche essere spiegata valicando il fatalismo di quell'«è così», ma non divaghiamo),
Vi è un processo ermeneutico a legittimazione di quel "è così" che sto cercando di esplicitare.
Citazione...pongo solo alcune domande per assicurarmi di aver ben capito la tua posizione:
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola.
quindi la natura (im)pone bene/male nella dicotomia vita/morte, ovvero la morte per la natura è male, non è solo un processo di trasformazione? Non ricadiamo in una anacronistica teodicea applicata alla natura ("come può la natura alimentare il proprio male")?
Non è che si sta leggendo con categorie culturali umane quello che in natura è solo un istinto di sopravvivenza (tanto quanto l'aggressività, solo che questa viene interpretata e giudicata moralmente, non a caso, diversamente dall'uomo)? Verrebbe quasi da chiedere dove tale "natura moraleggiante" (e antropomorfizzata in quanto persino filosofeggiante) fondi il suo bene/male... ma è di certo un'altra storia o un altro troncante «è così».
Si sta leggendo l'istinto di sopravvivenza come fondamento di un elaborato culturale di tipo etico. Non arbitrariamente, ma in quanto elemento ontologico sine qua non. Il bigbang della condizione biologica. Bigbang che funziona come Dio nell'immaginario moderno. Se non radichiamo lì l'etica, dove altro potremmo farlo. Neppure la cultura nasce nell'iperuranio. Dalla mia parte vi è pure la causalità aristotelica: no marmo, no statua. La causa materiale funziona anche nell'artefatto etico, nell'etica/morale che è arte della convivenza umana. Con le sue propaggini sociali e individuali. Se parliamo di causalità non è più "perchè è così", ma si spiega pure "perchè è così".
Citazione
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato.
Dunque, stando a tale "dimostrazione" basata su ciò che l'uomo "naturalmente" non ama (senza voler sviluppare il pericoloso piano inclinato che lega ciò che il singolo vuole/ama e il bene della società, questione per nulla "naturale"), la natura fonda anche la proprietà privata come bene (il cui furto è male), la correttezza morale del non truffare, etc.?
Non è che rovesciando fondamento e campo di applicazione possiamo farle fondare, ad libitum, anche tutto ciò che invece è sembrerebbe fondato piuttosto sulla cultura (v. diritti individuali, umani e altre convenzioni contrattualmente stabilite, senza voler entrare nel merito, che presuppone appunto la comprensione dei fondamenti da cui si parte)?
Anche la proprietà privata ha una legittimità naturalistica prima che l'organizzazione statale classista la faccia divenire strumento "culturale" di espropriazione e oppressione umana. Il furto di cibo tra animali non mi pare cosa gradita, pur in assenza di codici positivi umani. L'inganno non è coesivo del branco nemmeno dove regna la legge naturale. L'etologia animale mostra i presupposti naturalistici della stessa etologia umana su cui si evolve la sovrastruttura etica in concordanza con gli aspetti che promuovono la socialità e in superamento di quelli che la minano, altrettanto presenti in natura. Il piano inclinato si supera da solo nella coincidenza tra individuale e sociale, negli esempi da me riportati. Fatte salve patologie gravi sempre possibili. Da indagarsi medicalmente nella loro causalità, in quanto atipiche e autolesive.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Altre note sintetiche: la "causalità" dell'istinto di sopravvivenza, proprio in quanto istinto, spiega l'etologia, non l'etica: l'istinto non ci dice di dover sopravvivere perché è bene (come viene letto a posteriori dai paradigmi etici), ma solo che siamo "programmati" per sopravvivere (e non solo per quello). Dove altro potremmo fondare l'etica? In qualcosa che consenta di fondare la dicotomia a priori dell'etica, bene/male, che risulta assente nella natura in sé: non c'è causa materiale che preveda bene/male (ammesso e non concesso che l'etica, immateriale, abbia una causa materiale). La causalità spiega genealogicamente il «perché è così» dei valori (storia della morale), senza tuttavia arrivare fino alla natura, che ai valori non garantisce appoggio: il cane non ama che gli si rubi l'osso, non perché è un gesto immorale o perché abbia il concetto di proprietà privata, ma perché istintivamente vuole avere cibo, sapendo che ne ha/avrà bisogno. La "sovrastruttura etica" si basa, storicamente parlando, su un grado minimo di autonomia comportamentale dell'uomo rispetto alla natura e agli istinti, si rivolge alla gestione dei bisogni primari in una società, non vi si fonda: il fatto che si ritenga giusto (e bene) che il cibo non sia gratis per tutti, è un "bene" eloquente riguardo il fondamento dell'etica sui bisogni primari. Ricorrendo alla cultura (da declinare al plurale, chiaramente), invece, la spiegazione mi sembra piuttosto scorrevole. Sul rapporto fra singolo e comunità: gli esempi da te fatti dimostrano quanto la vicinanza alla natura degli istinti (e, talvolta, ai bisogni primari) comporti divergenza dal bene etico (comunemente inteso): il violento usa violenza senza amare riceverla, l'affamatore non ama morire di fame, il ladro ruba ma non ama essere derubato, etc, proprio perché il rapporto fra l'individuo e la società fa nascere problemi di convivenza, pragmatica e morale, che non "si superano da soli", né appellandosi al fondamento etico della natura ("spoilerando": messi in secondo piano ma non eliminati, la natura, gli istinti e l'universalità dei bisogni primari, è qui, di fronte alla suddetta dialettica singolo/società, che nasce l'etica).

Ipazia

#25
Phil, mi pare che ci sia nella tua visione del mondo un elemento aureolare, idealistico, delle culture, che porta ad una cesura netta tra la "materia" umana e il suo pensiero. Posizione legittima, per carità, ma altrettanto infondata del giusnaturalismo più integrale. Cesura che si manifesta nella negazione della relazione esistente tra etologia ed etica. Più pragmaticamente, io prendo atto che senza la pietra non vi sarebbe la scultura e che allo spirito umano rimane lo spazio autonomo della differente genialità tra Prassitele e l'anonimo scultore di Veneri neolitiche. Spazio che tornerebbe a svuotarsi per entrambi se quella pietra non fosse esistita. Col che se ne certifica anche la sua condizione antropologica di valore, di bene (la duplicità semantica di "bene" inteso in senso materiale ed etico/spirituale non è casuale). La mia visione è più olistica e non scinde le pulsioni originarie, istintive, animali, dalle invenzioni ed elucubrazioni dello spirito. Garantendo con ciò a ciascuna parte dell'ontologia umana la sua relativa autonomia dal tutto e il suo relativo campo di applicazione. Senza isolare tale campo di applicazione da quello più comprensivo dell'evoluzione umana. Tale approccio ha anche un carattere di prassi filosofica ed etica più proficuo in termini persuasivi (Parmenide) rispetto all'isolare nell'individuo l'universo etico. Operazione peraltro epistemicamente dubbia nel voler prescindere dai denominatori comuni sociali dell'evoluzione etica. La quale non è fissa su principi immutabili, ma quando muta non lo fa a caso.

P.S. Quando mai i fondamenti hanno determinato il comportamento delle loro creature ? Solo nella fantasia sillogistica degli idealisti. Basti pensare agli esiti delle avventure genitoriali. Ma hanno comunque un'autorevolezza epistemica ed etica per poterci impostare sopra dei progetti umanistici razionali.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Giurerei (seppur da ateo) di aver una visione del mondo all'opposto dell'idealismo, almeno quando si parla di culture: finora le ho focalizzate, correggimi se sbaglio, come un gruppo di persone che si organizza in itinere per il quieto vivere, senza ideali assoluti o fondamenti forti inoppugnabili, proprio perché l'uomo è "materia" (biologia, istinto, etc.) che avendo la capacità di astrarre concetti può inventarsi un'etica, chiamando «bene» (questa sì operazione idealistica e fondativa) ciò che sembra funzionare per tenere assieme il branco (ciò che è utile al branco). Tuttavia quando gli si chiede di presentarne il fondamento, allora non resta che appellarsi agli dei (infalsificabili), alla natura (interpretata a posteriori secondo l'etica che già si preferisce, v. discorsi gender che si litigano la natura selettivamente) o, proprio fuori da ogni idealismo, constatare il ruolo dinamico, documentato e tracciabile, della storia delle differenti culture (anche se ciò rende un po' debole ogni affermazione del tipo «questo è bene, quello è male»).
Riconoscere ad esempio che non è un bene né un male restare vivi o nutrirsi, ma solo una pulsione istintiva a cui si è aggiunto nei secoli un plusvalore sociale, quello appunto etico (canonizzato in leggi e convenzioni sul "valore" della vita), non credo comporti una cesura fra l'essere umano e il suo pensiero, anzi direi che riconduce il pensiero dell'uomo, proprio quando si fa troppo "idealistico", alla sua umanità corporea e disincantata (essendo una constatazione basata su ciò che è stato e tuttora è storia, non su giudizi di valore).
La cesura fra etologia ed etica è dunque la "doverosa" (metodologicamente parlando) cesura fra constatazione e valutazione, fra analisi e giudizio di valore, fra, come detto, «quegli animali si riproducono» e «quegli animali devono riprodursi perché ciò è bene», oppure «quell'animale è stato ucciso» ed «è un bene che quell'animale sia stato ucciso o scacciato dal branco poiché ne aveva trasgredito le regole», etc. Ciò non significa idealizzare l'uomo, anzi, è l'antidoto ad ogni idealizzazione che l'uomo fa di sé in quanto "animale speciale"; l'etica si rivela allora nient'altro che un modo, sociale e culturale, di adattamento all'ambiente, fondato (stavolta direi di sì) sulla capacità di concettualizzazione tipica dell'uomo, che egli ha immesso nella sua storia, dai miti per spiegare i fulmini, ai testi sacri, al valore morale della tradizione (di cui uno del lasciti è il concetto di Bene ereditato dalle religioni), tutto ciò senza avvedersi che la sua etica, con cui vuole e può giudicare l'umanità, non ha fondamento più saldo della grammatica della lingua che parla: entrambe culturalmente denotanti il suo esser-uomo, sebbene, mi pare, nulla di eccessivamente univoco o incontrovertibilmente fondato su una qualche "oggettività a priori".


P.s.
Se il fondamento è davvero tale, non può non determinare, nel senso di influenzare, il comportamento di ciò che viene fondato: la dicotomia bene/male determina il "comportamento" di ogni etica (nel suo strutturarsi), la grammatica determina il "comportamento" di ogni discorso, etc. e anche qui non riscontro idealismi, quanto piuttosto constatazioni. Riguardo i genitori: essi non fondano(?) la morale dei figli, sono solo uno dei fattori culturali dell'imprinting che caratterizzerà gli attributi della morale dei figli, assieme agli amici, ai social, alle letture, ai vissuti, etc. per questo spesso «la mela è caduta lontano dall'albero»(cit.) senza che si tratti di un miracolo. La morale dei figli sarà fondata sulla dicotomia bene/male, come ogni morale prevede, mentre il contenuto esatto di tali due categorie non sarà necessariamente il risultato di un prevedibile e calcolabile "copia e incolla" della cultura in cui crescono (potrebbero esserci buddisti anche in Congo).

Ipazia

Non mi convince la cesura tra etologia ed etica. Come ho già detto: se fossimo immortali, erbivori e ermafroditi anche le etiche sarebbero completamente diverse. Se noi dissociamo etologia da etica possiamo inventarci tutte le etiche che vogliamo, ma poi il fondamento materiale reclama i suoi diritti e si ritorna sempre al centro di gravità permanente dei bisogni saldamente radicati nell'ethos ed in physis.

Esistono anche piani morali più lontani dal fondamento naturale, dotati di un maggiore grado di libertà nei comportamenti (più o meno altruistici, socializzanti, laboriosi, artistici, edonistici, mistici,...), ma quelli contigui ai bisogni naturali continuano a pesare finché dovremo sottostare alla biologia di cui siamo fatti. Quei piani in cui il bene e il male fisici e morali si toccano da vicino.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Alexander

#28
Buongiorno a tutti


Il male fa male (fa soffrire) e il bene fa bene (fa gioire). Naturalmente si preferisce gioire che soffrire. Sembra un'ovvietà ma è la base dell'etica. Gli antichi si accorsero presto che il male , anche se può far godere momentaneamente, alla fine porta sofferenza e viceversa il bene, anche se non sembra far gioire subito, fa gioire sé  e gli altri nel tempo. Se ne accorsero "naturalmente":  se si comportavano bene con un figlio , per esempio, quasi sempre il figlio ricambiava nel tempo. Se trattavano bene il compagno/a (senza far soffrire) quasi sempre venivano trattati bene. Insomma la regola aurea. Non vedo molto di culturale in questo, ma un atteggiamento intelligente e naturalmente empatico applicato alla prassi esistenziale. Trasversale ad ogni cultura, salvo aberrazioni  che sorgono come cancri devastanti, se non rimossi in tempo. Essendo infatti la natura una forza cieca ci sono sempre individui che, spinti dal desiderio immediato o dall'ignoranza (che il male fa male) non applicano questa regola e seguono un'altra strada. Sorge così la storia del mondo, con tutti i drammi e le tragedie che conosciamo, ma anche con l'affermarsi nella consapevolezza , sempre provvisoria e in bilico, che il bene fa bene ( a sé e agli altri). In questo processo di consapevolezza le grandi religioni hanno avuto storicamente un ruolo fondamentale. La riflessione spirituale però sviluppa l'etica naturale già presente : non serviva certo che Mosè mettesse su pietra che non si doveva uccidere. era un codice già presente nel popolo ebraico, visto che quasi ognuno aveva caro il "prossimo", spesso anche colui che pensava che il bene non fa bene. La religione lo fa diventare legge, a volte sacrificando l'autenticità  e la spontaneità di questa intuizione, ma portando (nello sviluppo) all'estensione del principio oltre il piccolo gruppo d'appartenenza, il clan, la tribù e cercando quindi di superare la dicotomia amico-nemico (universalismo religioso). La natura è l'imprescindibile punto di partenza e anche la riflessione spirituale, intellettuale e quindi morale non può che svolgersi nel suo alveo, dando coscienza e consapevolezza a questa forza cieca, "nobilitandola" si potrebbe dire.

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