La coscienza di sé da un punto di vista neurologico

Aperto da maral, 19 Maggio 2016, 10:09:01 AM

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Loris Bagnara

Citazione di: maral il 01 Giugno 2016, 23:58:52 PM
A meno che il Sé non sia appunto una mappa... capace di leggere se stessa.
In realtà mi pare che comunque Damasio instauri un dualismo per spiegare il Sé: nel tronco encefalico c'è la mappa, ma la rappresentazione avviene nella corteccia che la riceve e la riflette al corpo attraverso il tronco encefalico (dunque a ciò che la mappa rappresenta) come "me stesso" da mantenere. E' proprio questa continua interazione reiterata tra la mappa e la sua rappresentazione corticale che costituisce il me stesso. In questo senso il Sé non è un qualcosa di reificabile, ma una sorta di relazione continua e costante tra tronco e corteccia. Se questa costanza viene a cadere il corpo agisce per recuperarla (recuperare se stessi) e, se non ci riesce, l'organismo muore.

Gli scienziati seri comunque sanno sempre ben vedere e riconoscere i limiti delle loro discipline, a differenza degli apprendisti stregoni (anche se di successo) che si vogliono far credere scienziati, ma sono spesso solo scientisti.
Anche altre volte hai espresso chiaramente questo concetto, ossia che la coscienza possa sorgere dalle interazioni continue e reiterate delle diverse aree del cervello etc. Capisco che questa possa essere la migliore delle soluzioni congetturabili in un'ottica riduzionista, ma sinceramente non è che mi convinca molto. Faccio fatica a comprendere come dalla reiterazione di determinati processi fisici possa sorgere qualcosa di completamente diverso, come il fenomeno cosciente. Per dirla con una metafora, che non vuol essere irrisoria, sarebbe come mettere di fronte due specchi con un oggetto nel mezzo, e pensare che oltre alle infinite riflessioni di quell'oggetto possa spuntare qualche altra immagine...

Ma c'è un'altra questione irrisolta, ed è irrisolta non solo per la soluzione che proponi tu, ma anche per qualunque altra soluzione che preveda la nascita della coscienza dal nulla. Anche per la tradizionale concezione dell'anima creata da Dio.
Mi riferisco al mistero dell'individuazione. Immaginiamo gli esseri umani che escono dalla catena di montaggio della Natura (o di Dio): uno, due, tre... N... Ecco, arrivati a N, quello sono io. Non uno, o dieci o cento prima, e neanche dopo. Proprio N.
Non c'è nessun rapporto di necessità fra l'ennesimo corpo prodotto dalla natura e il mio io. Potevo nascere prima, o dopo, o in un corpo d'animale, o anche mai, che anzi sarebbe la cosa più "naturale". Eppure ci sono.
Ecco, è questa la domanda a cui io sento (tormentosamente) di dover rispondere. Tutto il resto, interessa ben poco.

sgiombo

CitazioneContrariamente a quanto sostiene Damasio (che fra l' altro secondo me confonde coscienza ed autocoscienza) il sé non è "dentro" la mente; invece dentro la mente ci sono (ovvero la mente è costituita da sensazioni interiori di) sentimenti, "stati d' animo, ricordi, pensieri, predicati, credenze, desideri, speranze, paure, ecc.
Tutte queste cose non sono il "sé" (me, nel caso della mia propria coscienza), ma invece esperienze mentali che possono essere considerate (non dimostrate) essere proprie del sé, essere esperite dal sè.

Il sé (l' io, nel caso della esperienza cosciente mia propria) come soggetto delle sensazioni "interiori" o mentali (e anche di quelle materiali o "esteriori") può essere (se c'è, come credo; ma non può essere dimostrato a partire dalle esperienze coscienti; né men che meno mostrato al loro "interno") un 'entità ulteriore non fenomenica (non costituita da sensazioni, mentali o materiali) e reale anche allorché sensazioni non accadono, non vi sono (nel sonno senza sogno non esiste la "mia propria" esperienza cosciente, ma se io esisto come suo soggetto, allora bisogna che continui ad esistere anche nel sonno senza sogni, perché altrimenti non esisterebbe l' esperienza cosciente "mia propria" in quanto un "unicum", per quanto "spezzettato" dal sonno senza sogni, bensì esisterebbero tante distinte, separate e incomunicanti, reciprocamente trascendenti esperienze coscienti quanti sono gli intervalli ininterrotti fra un sonno senza sogni e l' altro: se il "sé" fosse, come sostiene Damasio, contenuto nell' esperienza cosciente, allora ve ne sarebbero tanti reciprocamente separati e distinti -"sé Tizio", "sé Caio", sé Sempronio", ecc.- quanti sono tali intervalli coscienti.
 
L' omeostasi intorno a (non troppo lontano da) determinati valori medi di vari parametri fisici e chimici vitali, allontanandosi eccessivamente dai quali ci si ammala o addirittura si muore, regolata da certi determinati centri nervosi ubicati nel tronco encefalico, di cui parla Damasio identificandola con il sé é sostanzialmente identica in ogni persona umana (e in molti individui di tantissime altre specie animali), mentre il "sè" di ciascuno di noi è molto diverso da quello di ciascun altro: la sua spiegazione manca completamente il bersaglio!
 
Per la "chiusura causale del mondo fisico" la corteccia cerebrale (o il sistema tronco-corteccia considerato da Damasio), che è un oggetto fisico, è in interazione causale unicamente con il resto del mondo fisico e non esercita né subisce effetti in relazione alla (da o sulla) nostra mente (la quale corrisponde nel divenire suo proprio -mentale- al suo -cerebrale- funzionamento): è condizionata unicamente dagli eventi del mondo in cui viviamo tramite gli impulsi nervosi che le arrivano dagli organi di senso (e in parte da quelli che le derivano da essa stessa o da altre parti del cervello precedentemente "condizionati" dall' esperienza esterna: ricordi, abitudini, tendenze comportamentali, "vizi", "virtù", ecc.) e condiziona unicamente il nostro comportamento tramite gli impulsi nervosi che invia ai muscoli somatici (e in qualche caso alle ghiandole): non produce in alcun modo la nostra coscienza, ma solo movimenti muscolari (e secrezioni ghiandolari).
 
La neurologia può solo studiare il funzionamento del cervello e le correlazioni fra esso e l' esperienza cosciente: è molto, è interessante ed è importante per le ragioni illustrate da Damasio, ma non è la spiegazione della natura "ontologica" del nesso esistente fra mente cosciente e cervello; questo è un problema non scientifico (neurologico) bensì filosofico, "eccedente la scienze naturali", letteralmente "metafisico".
 
Infatti le interazioni da Damasio descritte fra tronco encefalico e corteccia (e fra essi e recettori sensoriali ed effettori muscolari), le "mappe" di cui parla sono tutt' altra cosa dall' esperienza cosciente (che pure non può accadere se non "in maniera determinatamente correlata ad esse", ma senza identificarvisi in alcun modo o in alcun senso).
Non può accadere il fatto che uno sia innamorato di una certa persona o che pensi alla dimostrazione di un teorema di geometria (nell' ambito della sua propria esperienza cosciente di potenziale o attuale, per lo più indirettamente, "osservato") senza che accadano certi determinati eventi neurologici (ben diversi in ciascuno dei due casi considerati) e solo quelli nel "suo" cervello (nell' ambito di altre esperienze coscienti diverse dalla sua, di "osservatori" almeno potenziali ed eventualmente attuali, per lo più indirettamente per il tramite dell' imaging neurologico funzionale di cui Damasio ha fornito qualche esemplificazione); ma si tratta di eventi ben diversi: l' amore o un ragionamento matematico (o filosofico) nell' ambito della coscienza di un innamorato o di un ragionatore sono certe "cose"; le attivazioni di determinate vie nervose percorse da potenziali d' azione e i determinati insiemi di trasmissioni trans-sinaptiche che vi corrispondono necessariamente nei cervelli (dell' innamorato e del ragionatore; esperiti nell' ambito di altre coscienze, di "osservatori") sono tutt' altre, diversissime "cose", che all' amore e al ragionamento rispettivamente non assomigliano manco per niente!
Quelle suggestive immagini di fRM mostrate da Damasio erano tutt' altra cosa da ciò che sentiva e/o pensava il soggetto scansionato: forse amore? Forse ricordi del suo passato? Forse un calcolo matematico o un altro ragionamento? Forse la soddisfazione per una recente vittoria del suo sportivo preferito? Forse una preoccupazione per il suo lavoro? Forse ecc.?)!

Loris Bagnara

Sono sostanzialmente d'accordo con le osservazioni contenute nell'ultimo intervento di Sgiombo.
L'unica cosa che mi differenzia, e sulla quale abbiamo già discusso "accanitamente" altrove (per cui non vale la pena tornarci sopra qui) è il Sé. Io ritengo che non si possano dare esperienze coscienti senza il Sé: io intendo il Sé come il substrato della coscienza su cui si proiettano le esperienze coscienti. Per usare un'immagine, il Sé è come un foglio bianco su cui si "scrivono" parole, simboli, disegni etc che sono appunto le esperienze coscienti. Senza quel foglio bianco, non ci sarebbe il supporto per il verificarsi delle esperienze coscienti.

A mio avviso la coscienza è un substrato che pervade l'intero universo (forse potremmo dire che è la vera e propria "materia prima" dell'universo) e che si individualizza in maniera diversa a seconda dei diversi corpi materiali in cui si "incarna". L'individualizzazione è molto spinta nel caso dell'uomo, e lo è molto meno nel caso degli animali, e sempre meno via via che si scende nella gerarchia. Per gli animali inferiori (insetti, ad esempio) l'individualizzazione è pressoché nulla, ma esiste una sorta di coscienza collettiva di specie o di gruppo; e nell'uomo, l'ancestrale coscienza di gruppo si manifesta come inconscio collettivo.

sgiombo

Citazione di: Loris Bagnara il 06 Giugno 2016, 11:21:54 AM
Sono sostanzialmente d'accordo con le osservazioni contenute nell'ultimo intervento di Sgiombo.
L'unica cosa che mi differenzia, e sulla quale abbiamo già discusso "accanitamente" altrove (per cui non vale la pena tornarci sopra qui) è il Sé. Io ritengo che non si possano dare esperienze coscienti senza il Sé: io intendo il Sé come il substrato della coscienza su cui si proiettano le esperienze coscienti. Per usare un'immagine, il Sé è come un foglio bianco su cui si "scrivono" parole, simboli, disegni etc che sono appunto le esperienze coscienti. Senza quel foglio bianco, non ci sarebbe il supporto per il verificarsi delle esperienze coscienti.

CitazioneCredo anch' io che concordiamo almeno su gran parte della "pars destruens" (destruens dell' "ideologia corrente", come la potremmo considerare, del materialismo della stragrande maggioranza dei neurologi e cultori di scienze cognitive, nonché di non pochi filosofi della mente).
Per precisare meglio le mie convinzioni devo dire che anch' io ritengo reale il "sè", soggetto delle sensazioni fenomeniche coscienti (sia esteriori o materiali che interiori o mentali; ed insieme anche oggetto di quelle mentali), nonché gli oggetti di esse (diversi dal "sé" nel caso di quelle materiali), entrambi in quanto "cose in sé" o "noumeno".
Solo ci tengo a precisare che la loro esistenza reale la si può credere immotivatamente, per fede e non dimostrare né tantomeno mostrare.


Colgo l' occasione per fare un' altra precisazione.
Nel precedente intervento scrivevo:

Infatti le interazioni da Damasio descritte fra tronco encefalico e corteccia (e fra essi e recettori sensoriali ed effettori muscolari), le "mappe" di cui parla sono tutt' altra cosa dall' esperienza cosciente (che pure non può accadere se non "in maniera determinatamente correlata ad esse", ma senza identificarvisi).
Non può accadere il fatto che uno sia innamorato di una certa persona o che pensi alla dimostrazione di un teorema di geometria (nell' ambito della sua propria esperienza cosciente di potenziale o attuale, per lo più indirettamente, "osservato") senza che accadano certi determinati eventi neurologici (ben diversi in ciascuno dei due casi considerati) e solo quelli nel "suo" cervello (nell' ambito di altre esperienze coscienti diverse dalla sua, di "osservatori" almeno potenziali ed eventualmente attuali, per lo più indirettamente per il tramite dell' imaging neurologico funzionale di cui Damasio ha fornito qualche esemplificazione); ma si tratta di eventi ben diversi: l' amore o un ragionamento matematico (o filosofico) nell' ambito della coscienza di un innamorato o di un ragionatore sono certe "cose"; le attivazioni di determinate vie nervose percorse da potenziali d' azione e i determinati insiemi di trasmissioni trans-sinaptiche che vi corrispondono necessariamente nei cervelli (dell' innamorato e del ragionatore; esperiti nell' ambito di altre coscienze, di "osservatori") sono tutt' altre, diversissime "cose", che all' amore e al ragionamento rispettivamente non assomigliano manco per niente!
Quelle suggestive immagini di fRM mostrate da Damasio erano tutt' altra cosa da ciò che sentiva e/o pensava il soggetto scansionato: forse amore? Forse ricordi del suo passato? Forse un calcolo matematico o un altro ragionamento? Forse la soddisfazione per una recente vittoria del suo sportivo preferito? Forse una preoccupazione per il suo lavoro? Forse ecc.?)!

Ad affermazioni come questa qualcuno ha obiettato che mente e cervello sarebbero la stessa cosa conosciuta "rozzamente" (secondo il "senso comune") e "con raffinatezza scientifica" rispettivamente, nello stesso senso nel quale sono la stessa cosa fulmini e scariche elettriche.

In realtà l' obiezione non é pertinente.

Infatti:

a) nell' ambito della realtà fisica - materiale non può darsi scarica elettrica nell' atmosfera senza che si dia (essendo la stessa cosa) un fulmine (o un lampo), mentre nell' ambito della realtà fisica si dà cervello senza mente (che dalla realtà fisica "esula", non ne fa parte per la chiusura causale del mondo fisico): la scienza fisica sarebbe falsa se ogni fulmine non coincidesse, non si identificasse con una scarica elettrica, mentre sarebbe perfettamente vera se -per assurdo- qualcuno di noi fosse una sorta di zombi privo di coscienza, cioé se ci fossero cervelli senza che ci siano esperienze coscienti ad essi correlate;

b) mentre fulmini e scariche elettriche nell' atmosfera, essendo "la stessa cosa", accadono come oggetti di sensazione nell' ambito delle medesime esperienze fenomeniche coscienti (tutte le volte che chiunque vede un fulmine, egli vede una scarica elettrica nell' atmosfera), 
invece cervelli ed esperienze fenomeniche coscienti, essendo "cose diverse", avvengono nell' ambito di esperienze fenomeniche coscienti diverse: il mio cervello nell' ambito della tua esperienza cosciente, le mie sensazioni al mio cervello puntualmente ed univocamente corrispondenti (n.b.: e non identiche), come dimostrato dalle neuroscienze, nell' ambito della mia esperienza cosciente.


maral

#19
Citazione di: Loris Bagnara il 02 Giugno 2016, 14:53:33 PM
Ma c'è un'altra questione irrisolta, ed è irrisolta non solo per la soluzione che proponi tu, ma anche per qualunque altra soluzione che preveda la nascita della coscienza dal nulla. Anche per la tradizionale concezione dell'anima creata da Dio.
Mi riferisco al mistero dell'individuazione. Immaginiamo gli esseri umani che escono dalla catena di montaggio della Natura (o di Dio): uno, due, tre... N... Ecco, arrivati a N, quello sono io. Non uno, o dieci o cento prima, e neanche dopo. Proprio N.
Non c'è nessun rapporto di necessità fra l'ennesimo corpo prodotto dalla natura e il mio io. Potevo nascere prima, o dopo, o in un corpo d'animale, o anche mai, che anzi sarebbe la cosa più "naturale". Eppure ci sono.
Ecco, è questa la domanda a cui io sento (tormentosamente) di dover rispondere. Tutto il resto, interessa ben poco.
Io questa domanda la metterei in un altro modo, non perché io in questo corpo, ma semplicemente perché io. Infatti se io fossi in un altro degli innumerevoli esistenti di questo mondo, semplicemente non sarei io. Dunque la vera domanda è perché invece io ci sono e, per quanto si possa tentare di farsene una ragione, temo che, proprio in quanto ci sono, la risposta non posso vederla. La mia esistenza è il punto da cui mi muovo, non posso mai essere fuori di essa da poterla vedere e se la considero è solo dal punto di vista della mia esistenza dalla quale, per sapere il perché c'è dovrei esserne fuori.

CitazioneL' omeostasi intorno a (non troppo lontano da) determinati valori medi di vari parametri fisici e chimici vitali, allontanandosi eccessivamente dai quali ci si ammala o addirittura si muore, regolata da certi determinati centri nervosi ubicati nel tronco encefalico, di cui parla Damasio identificandola con il sé é sostanzialmente identica in ogni persona umana (e in molti individui di tantissime altre specie animali), mentre il "sè" di ciascuno di noi è molto diverso da quello di ciascun altro: la sua spiegazione manca completamente il bersaglio!
Non mi trovo d'accordo con questa obiezione: perché mai la coscienza dovrebbe essere identica nell'ipotesi di Damasio? E' identica nel meccanismo generale e di base in cui si attua, ma è ben diversa nel contenuto specifico e concreto, dato che diversa è sempre la situazione e la condizione biochimica di quel corpo (afferito come informazione nel tronco encefalico), come sempre diversa è la condizione in cui si trova la corteccia nel contesto biochimico in cui quel corpo la esprime. E' cioè diverso sia il modo di allontanarsi dal punto di equilibrio omeostatico, sia di riflettere questo allontanamento in ogni particolare situazione per tentare diversamente di recuperarlo, mentre è identica solo la necessità di doverlo mantenere. Dire che dovrebbe essere sempre identica è come dire che tutte le fotografie dovrebbero essere identiche giacché in fin dei conti il modo per scattare una foto è sempre quello.

La questione fondamentale che entrambi ponete resta comunque il rapporto mente (intesa come facoltà di pensarsi) - corpo (inteso come funzionalità biologica). E' certamente un problema, ma si può non vederlo come un problema, come fa Searle (con il quale per certi versi mi trovo abbastanza d'accordo) che dice che il problema mente - corpo è come quello della liquidità dell'acqua, ossia lo si risolve pensandolo come un'emergenza dei fenomeni neuronici e in fondo mente e corpo sono lo stesso fenomeno descritto in due modi diversi, dunque non c'è nessuna difficoltà ad ammettere che la coscienza è un fenomeno assolutamente irriducibile e del tutto biologico. Ovviamente a questo punto il filosofo (e forse anche il neurologo) dovrebbe chiedersi perché mai c'è questa duplicità descrittiva e non solo come accade (cosa di cui la scienza si occupa, senza avere ancora comunque del tutto risolto). Ossia dovrebbe chiedersi perché e in base a che cosa un fenomeno del tutto biologico può vedere (immaginare) se stesso, come se fosse in grado di porsi fuori da se stesso, dal suo reale biologico accadere. Da dove salta fuori l'osservatore che osserva la sua biologia a partire da nient'altro che la sua biologia e fermo restando che è la sua biologia (perché se fosse qualcos'altro, tipo anima immateriale, sarebbe sicuramente, sono d'accordo, una faccenda paradossale)?
E' questo mi suona sconvolgente e su questo mi sembra che Searle, vittima forse del suo punto di vista pragmatico, passi troppo tranquillamente oltre, non vedendolo per nulla come un problema.
Comunque lascio parlare il filosofo, che così si esprime sulla coscienza nel suo intervento a TED:
http://www.ted.com/talks/john_searle_our_shared_condition_consciousness
Anche questo intervento è molto interessante (e pure brillante, come sanno sempre essere i pragmatisti).

sgiombo

Citazione di: maral il 07 Giugno 2016, 22:46:21 PM
Citazione di: Loris Bagnara il 02 Giugno 2016, 14:53:33 PM
Ma c'è un'altra questione irrisolta, ed è irrisolta non solo per la soluzione che proponi tu, ma anche per qualunque altra soluzione che preveda la nascita della coscienza dal nulla. Anche per la tradizionale concezione dell'anima creata da Dio.
Mi riferisco al mistero dell'individuazione. Immaginiamo gli esseri umani che escono dalla catena di montaggio della Natura (o di Dio): uno, due, tre... N... Ecco, arrivati a N, quello sono io. Non uno, o dieci o cento prima, e neanche dopo. Proprio N.
Non c'è nessun rapporto di necessità fra l'ennesimo corpo prodotto dalla natura e il mio io. Potevo nascere prima, o dopo, o in un corpo d'animale, o anche mai, che anzi sarebbe la cosa più "naturale". Eppure ci sono.
Ecco, è questa la domanda a cui io sento (tormentosamente) di dover rispondere. Tutto il resto, interessa ben poco.
Io questa domanda la metterei in un altro modo, non perché io in questo corpo, ma semplicemente perché io. Infatti se io fossi in un altro degli innumerevoli esistenti di questo mondo, semplicemente non sarei io. Dunque la vera domanda è perché invece io ci sono e, per quanto si possa tentare di farsene una ragione, temo che, proprio in quanto ci sono, la risposta non posso vederla. La mia esistenza è il punto da cui mi muovo, non posso mai essere fuori di essa da poterla vedere e se la considero è solo dal punto di vista della mia esistenza dalla quale, per sapere il perché c'è dovrei esserne fuori.

CitazioneL' omeostasi intorno a (non troppo lontano da) determinati valori medi di vari parametri fisici e chimici vitali, allontanandosi eccessivamente dai quali ci si ammala o addirittura si muore, regolata da certi determinati centri nervosi ubicati nel tronco encefalico, di cui parla Damasio identificandola con il sé é sostanzialmente identica in ogni persona umana (e in molti individui di tantissime altre specie animali), mentre il "sè" di ciascuno di noi è molto diverso da quello di ciascun altro: la sua spiegazione manca completamente il bersaglio!
Non mi trovo d'accordo con questa obiezione: perché mai la coscienza dovrebbe essere identica nell'ipotesi di Damasio? E' identica nel meccanismo generale e di base in cui si attua, ma è ben diversa nel contenuto specifico e concreto, dato che diversa è sempre la situazione e la condizione biochimica di quel corpo (afferito come informazione nel tronco encefalico), come sempre diversa è la condizione in cui si trova la corteccia nel contesto biochimico in cui quel corpo la esprime. E' cioè diverso sia il modo di allontanarsi dal punto di equilibrio omeostatico, sia di riflettere questo allontanamento in ogni particolare situazione per tentare diversamente di recuperarlo, mentre è identica solo la necessità di doverlo mantenere. Dire che dovrebbe essere sempre identica è come dire che tutte le fotografie dovrebbero essere identiche giacché in fin dei conti il modo per scattare una foto è sempre quello.

La questione fondamentale che entrambi ponete resta comunque il rapporto mente (intesa come facoltà di pensarsi) - corpo (inteso come funzionalità biologica). E' certamente un problema, ma si può non vederlo come un problema, come fa Searle (con il quale per certi versi mi trovo abbastanza d'accordo) che dice che il problema mente - corpo è come quello della liquidità dell'acqua, ossia lo si risolve pensandolo come un'emergenza dei fenomeni neuronici e in fondo mente e corpo sono lo stesso fenomeno descritto in due modi diversi, dunque non c'è nessuna difficoltà ad ammettere che la coscienza è un fenomeno assolutamente irriducibile e del tutto biologico. Ovviamente a questo punto il filosofo (e forse anche il neurologo) dovrebbe chiedersi perché mai c'è questa duplicità descrittiva e non solo come accade (cosa di cui la scienza si occupa, senza avere ancora comunque del tutto risolto). Ossia dovrebbe chiedersi perché e in base a che cosa un fenomeno del tutto biologico può vedere (immaginare) se stesso, come se fosse in grado di porsi fuori da se stesso, dal suo reale biologico accadere. Da dove salta fuori l'osservatore che osserva la sua biologia a partire da nient'altro che la sua biologia e fermo restando che è la sua biologia (perché se fosse qualcos'altro, tipo anima immateriale, sarebbe sicuramente, sono d'accordo, una faccenda paradossale)?
E' questo mi suona sconvolgente e su questo mi sembra che Searle, vittima forse del suo punto di vista pragmatico, passi troppo tranquillamente oltre, non vedendolo per nulla come un problema.
Comunque lascio parlare il filosofo, che così si esprime sulla coscienza nel suo intervento a TED:
http://www.ted.com/talks/john_searle_our_shared_condition_consciousness
Anche questo intervento è molto interessante (e pure brillante, come sanno sempre essere i pragmatisti).
Citazione
Forse ho capito male Damasio attribuendogli la tesi che la coscienza si identificerebbe con i valori dei parametri fisico-chimici vitali che l' omeostasi organica regolata (anche) dal tronco dell' encefalo tende a preservare (e che sono gli stessi in tutti gli uomini e animali simili vivi); forse intende invece determinati eventi neurofisiologici coinvolgenti tronco dell' encefalo e corteccia dipendentemente dall' oscillare dei valori di tali parametri fisico-chimici nell' intervallo compatibile con la sopravvivenza dell' organismo (eventi neurofisiologici che invece variano fra i diversi individui e nel corso delle esperienze coscienti dei singoli individui).

MI convincono comunque di più quei neurologi che la identificano unicamente con eventi neurofisiologici corticali o al massimo coinvolgenti corteccia e nuclei della base e talamici (che l' imaging neurologico dimostra essere necessariamente correlati con gli eventi di coscienza, mentre i nuclei bulbari regolanti l' omeostasi, la respirazione e l' attività cardiocircolatoria possono funzionare regolarmente anche in stato di incoscienza -coma- se la corteccia non funziona regolarmente; il regolare funzionamento del tronco encefalico è condizione necessaria e sufficiente dell' omeostasi e dunque della vita ma non è condizione sufficiente, contrariamente al regolare funzionamento della corteccia e probabilmente dei nuclei della base e talamici, della coscienza).

Ma il punto per me fondamentale è che non di identificazione si tratta (gli eventi neurofisiologici pertinenti, quali che siano, non sono gli eventi di coscienza, ma solo sono inevitabilmente presenti (però in altre esperienze coscienti, di "osservatori") perché accadano gli eventi di coscienza (di "osservati"): gli eventi fenomenici della mia coscienza (per esempio: ragionare, amare, vedere una rosa rossa) sono una cosa molto diversa da quegli eventi nel mio cervello che tu o altri diversi da me, nell' ambito della vostra -non della mia- coscienza, dovete poter vedere, rilevare, constatare (potenziali di azione lungo fasci di neuroni, trasmissioni trans-sinaptiche, ecc.), che non possono non accadere se accadono i miei stati coscienti e viceversa: non si danno gli uni senza gli altri, ma gli uni non sono gli altri, gli uni non si identificano con gli altri, e viceversa (al contrario di fulmini e scariche elettriche nell' atmosfera o liquidità dell' acqua e legami fisico-chimici fra le molecole di H2O, tutti accadenti nell' ambito delle medesime esperienze coscienti: le stesse cose -queste ultime- descritte in due modi diversi, l' uno più rozzo e superficiale, l' altro con maggiore discernimento scientifico; e questo è anche affermato con forza da Searle a un certo punto dell' intervento da da te proposto; anche se poi afferma che invece lo stesso evento ha due diversi "livelli di descrizione", uno biologica e l' altro mentale; però attribuendo la cosa all' inadeguatezza od obsolescenza del linguaggio che comunemente usiamo; in questo secondo punto del discorso mi sembra un po' oscuro).
Searle mi sembra, anche nei non pochi libri tradotti in italiano che ne ho letto, decisamente condivisibile "nella pars destruens" nel demolire i miti "scientisti-materialisti" così come quelli "spiritualisti-soprannaturalisti".
 
Un fenomeno del tutto biologico, come quelli neurofisiologici, non vede nulla: può essere visto (non nell' ambito dell' esperienza cosciente a cui necessariamente corrispondono determinati eventi neurofisiologici bensì di altre, diverse esperienze coscienti), ed è necessario che, almeno potenzialmente siano constati determinati eventi neurofisiologici perché accada un' esperienza cosciente ad essi corrispondente, ma l' unica cosa che "fa" un fenomeno del tutto biologico (gli unici affetti che può determinare) sono effetti fisico-chimici, come contrazioni muscolari o secrezioni ghiandolari (nelle esperienze coscienti di attuali o per lo meno potenziali osservatori, e non in quella "dell' osservato" ad essi necessariamente correlata o corrispondente.

Dalla "biologia (e in generale dalla fisica)" può "saltar fuori" unicamente biologia (e in generale fisica)", contenute attualmente o potenzialmente in esperienze fenomeniche coscienti (esse est percipi), e non un' (altra, ulteriore) esperienza fenomenica cosciente, anche se non può darsi (per lo meno potenzialmente) l' una senza che si dia l' altra e viceversa.

sgiombo

Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 18:36:46 PM

Piccola correzoione al precedente intervento:

Un fenomeno del tutto biologico, come quelli neurofisiologici, non vede nulla: può essere visto (non nell' ambito dell' esperienza cosciente a cui necessariamente corrispondono determinati eventi neurofisiologici bensì di altre, diverse esperienze coscienti), ed è necessario che, almeno potenzialmente siano constati determinati eventi neurofisiologici perché accada un' esperienza cosciente ad essi corrispondente, ma l' unica cosa che "fa" un fenomeno del tutto biologico (gli unici affetti che può determinare) sono effetti fisico-chimici, come contrazioni muscolari o secrezioni ghiandolari (nelle esperienze coscienti di attuali o per lo meno potenziali osservatori ED ANCHE IN QUELLA DELL' OSSERVATO, IL QUALE NON PUO' VEDERE, PER LO MENO DIRETTAMENTE, IL PRPRIO CERVELLO, MA VEDE BENE DIRETTAMENTE I PROPRI MOVIMENTI CORPOREI DALL' ATTIVITA' DEL PROPRIO CERVELLO CAUSATI).

Loris Bagnara

CitazioneIo questa domanda la metterei in un altro modo, non perché io in questo corpo, ma semplicemente perché io. Infatti se io fossi in un altro degli innumerevoli esistenti di questo mondo, semplicemente non sarei io. Dunque la vera domanda è perché invece io ci sono e, per quanto si possa tentare di farsene una ragione, temo che, proprio in quanto ci sono, la risposta non posso vederla. La mia esistenza è il punto da cui mi muovo, non posso mai essere fuori di essa da poterla vedere e se la considero è solo dal punto di vista della mia esistenza dalla quale, per sapere il perché c'è dovrei esserne fuori.
Si certo, la prima domanda è perché "io esisto". Ma la seconda è, posto che esisto, "perché esisto in questo modo". Infatti, non c'è solo un modo in cui posso esistere. Se intendo l'io-sono come puro soggetto auto-senziente, senza alcuno specifico contenuto, è chiaro che io potrei esistere in infinite altre forme concrete diverse da quella presente.

Ma a parte questo, non sono d'accordo sul fatto che a queste domande non sia possibile rispondere, e che sia legittimo sentirsi esentati dal rispondervi.
il punto è questo: ammettere o meno la validità del principio di causalità. Se non il principio "forte" (assoluto determininismo), almeno il principio "debole" lo si deve ammettere, altrimenti abbiamo già finito di fare scienza e filosofia. Altrimenti basterebbe dire "le cose sono come sono", e saremmo già a posto...
Una formulazione del principio di causalità "debole" potrebbe essere questa: ogni fenomeno rappresenta uno stato che è condizionato da un altro fenomeno (stato) localmente contiguo e preesistente.
La mia esistenza soggettiva è indubbiamente un fenomeno, e se il principio di causalità è valido, deve esistere un fenomeno preesistente e contiguo che ha condizionato la mia esistenza soggettiva. Questo fenomeno preesistente e contiguo, che sto cercando, è la "causa" della mia esistenza come soggetto autocosciente.
Dove si trova questa causa?
Se credo nell'esistenza della realtà oggettiva, materiale, allora si deve trovare lì: si deve trovare in questo universo, e quindi la posso trovare come posso trovare la causa di qualunque altro fenomeno.
Se invece non credo nell'esistenza della realtà oggettiva, allora la causa della mia esistenza soggettiva si trova all'interno della mia stessa coscienza. Non devo uscire da me, pormi in una prospettiva esterna, per trovarla: si trova dentro di me, dunque è alla mia portata.
in definitiva, qualunque sia la posizione assunta non credo sia legittimo sentirsi esentati dal rispondere alle domande di cui sopra.
Anche perché la risposta c'è, ed è semplicissima.
Una volta constatato che è impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente, ogni difficoltà sparisce se ammetto che la coscienza NON sorge dal nulla, ma è irriducibile, increata, eterna, e che assume infinite manifestazioni soggettive.

Aggiungo che le stesse considerazioni fatte per la coscienza, si possono applicare anche alle domande: perché esiste qualcosa anziché niente? E posto che qualcosa esiste, perchè si manifesta in questo modo (universo) anziché in un altro modo?
Queste sono domande che mettono in imbarazzo molti scienziati, quelli che vanno alla ricerca del cosiddetto "principio unico", cioè quel principio che, rendendo innanzitutto conto di se stesso, è capace di rendere conto di tutte le leggi e caratteristiche dell'universo osservato. E dove si troverebbe questo principio? Ma dentro l'universo stesso, è ovvio, perché se fosse fuori dell'universo allora l'universo non sarebbe tale, ci sarebbe un altrove che condiziona l'universo osservato. Se non si vuole ammettere questo altrove, bisogna ammettere che il principio unico è dentro, e se è dentro, lo si può trovare, e se lo si può trovare, quelle domande di cui sopra possono avere una risposta.
Quindi, anche in questo caso, quelle domande non possono essere eluse, perché solo rispondendovi posso considerare l'universo completamente "spiegato"; diversamente, l'universo sarebbe zoppo, puntellato da qualcosa che sta altrove...

Ora, per me è chiaro che il principio unico, come lo stanno cercando ora, non lo troveranno mai. Sarebbe come dire che il nostro universo è l'unico universo possibile. Ma è ovvio che questo non è l'unico universo possibile: oltre agli infiniti universi diversi che potremmo pensare, ci sarebbero ancora tutti quelli che nemmeno riusciamo a immaginare...
L'unica soluzione, il solo principio unico, allora, è questo: esiste TUTTO. L'universo osservabile è solo l'infinitesima parte di un TUTTO infinito. Perché solo l'infinito può includere tutte le cause, e dunque anche le cause di tutto. Viceversa, ciò che è finito è necessariamente contingente, incompleto incapace di rendere conto della propria esistenza.

HollyFabius

#23
Mi intrometto in questa interessante discussione con qualche osservazione.

Citazione di: Loris Bagnara il 09 Giugno 2016, 12:22:20 PM
Si certo, la prima domanda è perché "io esisto". Ma la seconda è, posto che esisto, "perché esisto in questo modo". Infatti, non c'è solo un modo in cui posso esistere. Se intendo l'io-sono come puro soggetto auto-senziente, senza alcuno specifico contenuto, è chiaro che io potrei esistere in infinite altre forme concrete diverse da quella presente.

La prima cosa da chiedersi non è perché "io esisto" bensì se esiste un perché "io esisto". La mia esistenza è un fatto generato causalmente e casualmente da mia madre e mio padre, se fosse questo l'unico perché?
Non credo poi che si possa chiedersi neppure "perché esisto in questo modo" perché non esiste un modo persistente di me, in ogni momento cambio e il nostro essere persone non è mai definitivo. E' esistito un me in molte altre forme concrete diverse da quella presente ed esisterà in molte altre forme.

Citazione di: Loris Bagnara il 09 Giugno 2016, 12:22:20 PM

il punto è questo: ammettere o meno la validità del principio di causalità. Se non il principio "forte" (assoluto determininismo), almeno il principio "debole" lo si deve ammettere, altrimenti abbiamo già finito di fare scienza e filosofia. Altrimenti basterebbe dire "le cose sono come sono", e saremmo già a posto...
Una formulazione del principio di causalità "debole" potrebbe essere questa: ogni fenomeno rappresenta uno stato che è condizionato da un altro fenomeno (stato) localmente contiguo e preesistente.
La mia esistenza soggettiva è indubbiamente un fenomeno, e se il principio di causalità è valido, deve esistere un fenomeno preesistente e contiguo che ha condizionato la mia esistenza soggettiva. Questo fenomeno preesistente e contiguo, che sto cercando, è la "causa" della mia esistenza come soggetto autocosciente.
Dove si trova questa causa?
Se credo nell'esistenza della realtà oggettiva, materiale, allora si deve trovare lì: si deve trovare in questo universo, e quindi la posso trovare come posso trovare la causa di qualunque altro fenomeno.
Se invece non credo nell'esistenza della realtà oggettiva, allora la causa della mia esistenza soggettiva si trova all'interno della mia stessa coscienza. Non devo uscire da me, pormi in una prospettiva esterna, per trovarla: si trova dentro di me, dunque è alla mia portata.
in definitiva, qualunque sia la posizione assunta non credo sia legittimo sentirsi esentati dal rispondere alle domande di cui sopra.

Sembrerebbe che un principio di causalità non si possa negare. La stessa intuizione del tempo è una nostra categoria mentale generata dalla causalità.


Citazione di: Loris Bagnara il 09 Giugno 2016, 12:22:20 PM

Anche perché la risposta c'è, ed è semplicissima.
Una volta constatato che è impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente, ogni difficoltà sparisce se ammetto che la coscienza NON sorge dal nulla, ma è irriducibile, increata, eterna, e che assume infinite manifestazioni soggettive.

Aggiungo che le stesse considerazioni fatte per la coscienza, si possono applicare anche alle domande: perché esiste qualcosa anziché niente? E posto che qualcosa esiste, perchè si manifesta in questo modo (universo) anziché in un altro modo?
Queste sono domande che mettono in imbarazzo molti scienziati, quelli che vanno alla ricerca del cosiddetto "principio unico", cioè quel principio che, rendendo innanzitutto conto di se stesso, è capace di rendere conto di tutte le leggi e caratteristiche dell'universo osservato. E dove si troverebbe questo principio? Ma dentro l'universo stesso, è ovvio, perché se fosse fuori dell'universo allora l'universo non sarebbe tale, ci sarebbe un altrove che condiziona l'universo osservato. Se non si vuole ammettere questo altrove, bisogna ammettere che il principio unico è dentro, e se è dentro, lo si può trovare, e se lo si può trovare, quelle domande di cui sopra possono avere una risposta.
Quindi, anche in questo caso, quelle domande non possono essere eluse, perché solo rispondendovi posso considerare l'universo completamente "spiegato"; diversamente, l'universo sarebbe zoppo, puntellato da qualcosa che sta altrove...

Ora, per me è chiaro che il principio unico, come lo stanno cercando ora, non lo troveranno mai. Sarebbe come dire che il nostro universo è l'unico universo possibile. Ma è ovvio che questo non è l'unico universo possibile: oltre agli infiniti universi diversi che potremmo pensare, ci sarebbero ancora tutti quelli che nemmeno riusciamo a immaginare...
L'unica soluzione, il solo principio unico, allora, è questo: esiste TUTTO. L'universo osservabile è solo l'infinitesima parte di un TUTTO infinito. Perché solo l'infinito può includere tutte le cause, e dunque anche le cause di tutto. Viceversa, ciò che è finito è necessariamente contingente, incompleto incapace di rendere conto della propria esistenza.

Certo o esiste il divenire o esiste l'eternità di qualcosa, non esiste una terza via.
L'esistenza del TUTTO come principio è senza senso, è auto-contradditorio. Non puoi abbracciare il tutto perché mancheresti sempre tu che dall'esterno lo abbracci. Non può esistere un linguaggio che descriva se stesso, occorre operare ad un livello di sovra-linguaggio ma non si può uscire da questa contraddizione.
Sono piuttosto convinto che esista l'eternità di qualcosa, le forme però, le intenzionalità di questo qualcosa non sono accessibili alla mente umana. Dal mio piccolo cantuccio la definitiva irrazionalità del qualcosa di eterno è palese: lo stesso principio di causalità potrebbe dissolversi per ragioni misteriose.
Il qualcosa di eterno però deve garantire la molteplicità, deve appoggiarsi almeno al suo contrasto, è forse l'eterna lotta tra una parvenza di yin e yang.

sgiombo

Citazione
OBIEZIONI RADICALI A LORIS BAGNARA (su una questione che forse meriterebbe una discussione a parte)

Analizziamo le domande che poni:

Perché io esisto ed esisto in questo modo?
Perché esiste qualcosa anziché niente? E posto che qualcosa esiste, perchè si manifesta in questo modo (universo) anziché in un altro modo?


Si può considerare il problema del perché qualcosa (per esempio io o l' universo intero) accade realmente solo se si presuppone che sia possibile e non necessario (solo ciò che é possibile abbisogna di un "motivo" per passare, per "trasformarsi" o "tradursi" da "possibile" a "reale"; invece ciò che é necessariorio non abbisogna di nient' altro -che sè e la prorpia necessità- per esssere reale).
Ma che significa "possibile"?
Non sono d' accordo che "Sarebbe come dire che il nostro universo è l'unico universo possibile. Ma è ovvio che questo non è l'unico universo possibile: oltre agli infiniti universi diversi che potremmo pensare, ci sarebbero ancora tutti quelli che nemmeno riusciamo a immaginare".
Tutti questi universi "ci sono", esistono unicamente nei nostri pensieri, nella nostra immaginazione.
Poiché per definizione (di "negazione", di "essere", "non essere", "accadere" e "non accadere") ciò che é reale (o accade realmente) non può non essere reale (o non accadere realmente) e ciò che non é reale non può non essere reale (o non accadere realmente), il contrario essendo autocontraddttorio, insensato, nulla é possibile (essere o accadere realmente o non essere o non accadere realmente), ma tutto é necessario (essere o accadere realmente o non essere o non accadere realmente:
tutto é necessario in quanto é reale o in quanto non é reale.
"Possibile" può significare unicamente "pensabile correttamente, coerentemente, non autocontraddittoriamente, sensatamente".
"Questo" universo, poiché é reale, non può non essere reale (per il significato di "negazione", "realtà", "irrealtà); e qualsiasi altro universo immaginabile che non sia reale non può essere reale (quanto a quelli inimmaginabili, anche ammesso che le parole che ne parlano o meglio pretendono di parlarne significhino qualcosa, non credo valga la pena prenderli in considerazione).
Al massimo si può correttamente, sensatamente pensare all' ipotesi teorica, al "dato di pensiero" (o di immaginazione) della non realtà di questo universo di fatto reale  e/o della realtà di altri da esso diversi di fatto non reali: questo é l' unico significato sensato, logicamente corretto del concetto, della nozione di "possibilità".
E dunque non si pone il problema del perché di noi stessi e dell' universo intero dal momento che tutto ciò, giacché accade, non può che accadere, non richede alcuna motivazione per farlo passare da "possibile" a "reale".
Si pone casomai il problema della -mera- pensabilità dell' essere reale di ciò che non é reale e del non essere reale di cò che lo é.
Ma questa spiegazione sta semplicemente nel concetto di "pensare" (o "essere pensato", "essere pensabile"), il quale non si identifica necessariamente con quello di "accadere realmente" (o "accadente realmente") ma si estende a, si può applicare anche a (include anche) il "non accadere realmente" (o "non accadente realmente"): questo semplicemente é ciò che di fatto si intende con tali ternmini, per tali concetti.

D' altra parte (in un altro senso di spiegazione) una spiegazione di un ente o evento può darsi solo relativamente, nell' ambito di un insieme di enti o eventi, se questo insieme é ordinato secondo regole (universali e costanti) del' essere o del divenire; ed é costituiita per l' apunto dall' applicazione delle regole universali e costanti a una "condizione particolare data" ("condizione iniziale"; iniziale in senso logico, non ontologico o cronologico).
Ma ogni insieme "totale" di enti o eventi che si consideri, in qualto tale non può essere spiegato, dal momento che oltre ad esso per definizione non può darsi alcunché che lo possa spiegare.
In altre parole un "perché" si può sensatamente cercare (ed eventualmente trovare) di uno o più enti od eventi particolari in un insieme ordinato, ma non dell' insieme "totalità", per quanto ordinato possa essere. Per esempio si può spiegare con le leggi della gravità -che ne é il "perché"- la rivoluzione dei pianeti intorno alle stelle; ma non si possono spiegare -non ha senso chiedersene il "perché- le leggi della gravità. E infatti il grande Newton in proposito affermò "Hypoheses non fingo [in sede scientifica, fisica, cioé nel campo in cui si manifestò pienamente il suo genio; mentre ne cercò vanamente ed erroneamete in sede metafisica, teologica, perfino alchemica e astrologica, campi nei quali mi permetto di affermare non si dimostrò affatto altrettanto geniale]".

Inoltre mi sembra che le risposte che in concreto dai a queste domande siano fondate su un presupposto infondato e infondabile (indimostrabile logicamente, né mostrabile empiricamente), quello di un determinismo o causalismo per lo meno "debole": come genialmente rilevato da David Hume, nulla dimostra che le regolarità finora rilevate negli eventi non siano semplicemente apparenti, mere coincidenze fortuite, che i mutamenti della realtà non siano in verità casuali (e che questo non possa anche palesemente manifestarsi alla prossima osservazione empirica del reale: sempre alla "prossima", quante che siano state le precedenti che suggeriscano una invero apparente, fortuita regolarità causale dei mutamenti della realtà stessa).

Parli inoltre di "principio unico, cioè quel principio che, rendendo innanzitutto conto di se stesso, è capace di rendere conto di tutte le leggi e caratteristiche dell'universo osservato", ma logicamente di ogni evento o sequenza di eventi si può trovare una spiegazione (una dimostrazione logica), e ontologicamente ogni concatenazione causale di eventi (indimostrabile) può essere fondata:
o su una circolarità (B spiega logicamente o causa ontologicamente A; C spiega o causa B; A spiega o causa C);
oppure su un regresso all' infinito.
Qualsiasi spiegazione logica o causazione ontologica "iniziale" (di quel che le consegue logicamente o le segue ontologicamente nel tempo) sarebbe per definizione a sua volta inspiegata o incausata, e dunque non sarebbe la risposta adeguata alla domanda della spiegazione logica o della causazione ontologica: rappresenterebbe semplicemente un inutile, assolutamente irrilevate spostamento e non una effettiva soluzione del problema posto (quello della speigazione logica o della causabione ontologica del fatto che io esisto ed esisto in questo modo e che esiste qualcosa anziché niente: se la pretesa spiegazione a sua volta non é spiegata tanto vale farne a meno e lasciare direttamente, immediatamente inspiegata l' esistenza).
La soluzione del problema da te proposta, "L'universo osservabile è solo l'infinitesima parte di un TUTTO infinito. Perché solo l'infinito può includere tutte le cause, e dunque anche le cause di tutto. Viceversa, ciò che è finito è necessariamente contingente, incompleto incapace di rendere conto della propria esistenza" mi sembra identificarsi con quella del regresso all' infinito: l' infinito può effettivamente includere tutte le cause (e le spiegazioni e dimostrazioni logiche).
Ma regredendo all' infinito non si raggiunge mai alcun "fondamento causale" di quanto si postula essere causato (ovvero, sul piano logico, alcuna dimostrazione di quanto si pretenderebbe dedotto, dimostrato, spiegato ma invece é un ultima analisi arbitrariamente postulato).

Ultima obiezione (non é per un insensato "accanimento polemico"; è che i problemi che poni sono realmenrte stimolanti e assai degni di essere affrontati; fra l' atro me li sono posti da sempre anch' io).
 Non sono d' accordo che sia "impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente", che "la coscienza NON sorga dal nulla, ma sia irriducibile, increata, eterna, e che assuma infinite manifestazioni soggettive": non vi é nulla di contraddittorio, ovvero assurdo, nell' ipotesi che io e chiunque altro come soggetto autocosciente non sia esistente per sempre, che inizi ad esistere (appaia dal nulla), e anche che finisca completamente, definitivamente di esistere (ritorni nel nulla); e dunque é correttamente pensabilissima come ipotesi alternativa e altrettanto plausibile a quella dell' eternità della coscienza e dell' autocoscienza.
E d' altra parte non vi é alcuna evidenza empirica in tal senso: i ricordi dell' esperienza di ciascuno risalgono fino alla prima infanzia e non vanno oltre a ritroso nel tempo.





maral

Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 18:36:46 PM
Forse ho capito male Damasio attribuendogli la tesi che la coscienza si identificerebbe con i valori dei parametri fisico-chimici vitali che l' omeostasi organica regolata (anche) dal tronco dell' encefalo tende a preservare (e che sono gli stessi in tutti gli uomini e animali simili vivi); forse intende invece determinati eventi neurofisiologici coinvolgenti tronco dell' encefalo e corteccia dipendentemente dall' oscillare dei valori di tali parametri fisico-chimici nell' intervallo compatibile con la sopravvivenza dell' organismo (eventi neurofisiologici che invece variano fra i diversi individui e nel corso delle esperienze coscienti dei singoli individui).[/font][/color]
MI convincono comunque di più quei neurologi che la identificano unicamente con eventi neurofisiologici corticali o al massimo coinvolgenti corteccia e nuclei della base e talamici (che l' imaging neurologico dimostra essere necessariamente correlati con gli eventi di coscienza, mentre i nuclei bulbari regolanti l' omeostasi, la respirazione e l' attività cardiocircolatoria possono funzionare regolarmente anche in stato di incoscienza -coma- se la corteccia non funziona regolarmente; il regolare funzionamento del tronco encefalico è condizione necessaria e sufficiente dell' omeostasi e dunque della vita ma non è condizione sufficiente, contrariamente al regolare funzionamento della corteccia e probabilmente dei nuclei della base e talamici, della coscienza).
Anche Damasio intende la coscienza come eventi neurofisiologici corticali evidenziabili da tecniche di imaging, il discorso del tronco encefalico entra un ballo per spiegare l'autocoscienza (che pertanto Damasio distingue chiaramente nell'ambito del fenomeno coscienza). L'autocoscienza presuppone il "sé": da dove salta fuori questo sé, si chiede Damasio. Ipotizza allora che salti fuori appunto dall'attività del tronco encefalico da dove passano tutte le afferenze nervose del corpo che trasmettono tutte le attività che servono a mantenere l'omeostasi (e non chiaramente i valori di omeostasi, ma le attività, comprese quelle che avvengono in automatico). Questo complesso di attività, preso nella sua unità funzionale, mediato dal cervello limbico ché dà luogo alle reazioni emotive che ne danno la qualità di ente profondamente emozionale, dà luogo a una situazione corticale rappresentativa unitaria che la corteccia rappresenta come "io", più o meno come i pixel danno luogo a un'immagine sul computer. L'io sarebbe quindi l'insieme unitario, rappresentato a livello corticale, dei segnali di tutte le attività corporee finalizzate a mantenere l'omeostasi per come esse si trovano tutte trasmesse nel tronco encefalico.
Quando lessi la prima volta il libro di Damasio "Emozione e coscienza" ricordo che rimasi piuttosto deluso, perché in realtà lui non spiega per nulla perché quell'insieme di attività neurofisiologiche diano luogo ai significati di noi stessi e del mondo che conosciamo, spiega solo da dove si può ipotizzare il senso unitario del sé in termini neurofisiologici. Non solo, ma sembra ignorare il fatto che, come tu rilevi, anche la lettura fisiologica della coscienza è ancora solo una rappresentazione cosciente del fenomeno. Il fatto che alterando in modo chimico o fisico certi parametri fisiologici si verifichino alterazioni di coscienza abbastanza riproducibili, non spiega ancora nulla, semplicemente mostra qualcosa del come e non del perché quel fenomeno accade.
Searle passa oltre al problema, in sostanza ci dice che non c'è alcun perché, solo funziona così e solo questo ha rilevanza (come si dice che l'acqua appare liquida pur non essendoci nulla che restituisca il senso della sua liquidità in una descrizione molecolare dell'acqua): gli eventi della coscienza (e in particolare dell'autocoscienza) e l'attività neurofisiologica sono la stessa cosa vista e descritta con linguaggi diversi, dice Searle. Ma , ad esempio, perché esistono questi due linguaggi diversi che dicono la stessa cosa, in cosa consiste questa stessa cosa e soprattutto il fatto che anche il linguaggio scientifico è frutto di una rappresentazione della coscienza (e dunque perché questa particolare rappresentazione dovrebbe avere di per sé sempre un fondamento maggiore), pare non lo tenga minimamente in considerazione. 
Il punto è che noi possiamo vedere sempre e solo il risultato finale dell'evento coscienza e ci spieghiamo questo evento sempre e solo in ragione del risultato finale che esso produce, ponendo uno di questi risultati finali come causa determinante per l'evento stesso.
Come vedi in questo discorso mi pare di essere perfettamente d'accordo con te.

maral

Citazione di: Loris Bagnara il 09 Giugno 2016, 12:22:20 PM
Si certo, la prima domanda è perché "io esisto". Ma la seconda è, posto che esisto, "perché esisto in questo modo". Infatti, non c'è solo un modo in cui posso esistere. Se intendo l'io-sono come puro soggetto auto-senziente, senza alcuno specifico contenuto, è chiaro che io potrei esistere in infinite altre forme concrete diverse da quella presente.
Ma questa seconda domanda non ha senso, non ha senso in quanto se io non fossi questo che sono, non sarei questo io che sono, sarei qualcos'altro. A meno appunto di ammettere che io ci sia prima di essere io e questo è assurdo. Io sono io perché sono questa forma, se fossi ad esempio un cane, non sarei io, ma quel cane.
CitazioneMa a parte questo, non sono d'accordo sul fatto che a queste domande non sia possibile rispondere, e che sia legittimo sentirsi esentati dal rispondervi.
Non è che possiamo sentirci esentati dal rispondere, ma che pur cercando in tutti i modi di rispondere alla domanda "perché io", non è possibile avere risposta, perché io lo siamo sempre. Come dice anche Searle nel video, nella coscienza ci siamo sempre, dunque non possiamo in alcun modo uscirne per guardarla da fuori e dire cos'è, non possiamo accedervi, perché ci siamo sempre dentro e qualsiasi spiegazione ne diamo, anche la più profonda e obiettiva possibile non può rendere la coscienza per come è. Non posso spiegare il mio esserci, proprio perché ci sono.
Mi ricordo una metafora che lessi tempo fa che mostra bene la faccenda: è come se un pittore fosse incaricato di rappresentare una stanza dipingendola da dentro la stanza. Per quanto esattamente la volesse riprodurre, mancherebbe poi nel quadro il pittore (lui stesso) mentre disegna la stanza, e se anche si raffigurasse nella stanza mentre la disegna, nel quadro mancherebbe ancora lui nella stanza che rappresenta se stesso mentre la disegna e così via all'infinito. Per rappresentare com'è veramente la stanza al suo interno il pittore dovrebbe uscire e guardarla da fuori, ma per la coscienza, come per la nostra esistenza, questo non è possibile: se usciamo per vedere com'è la cosa che ci comprende sempre, non ci siamo più e nulla possiamo rappresentare. Il "perché ci sono" rientra in quel tipo di domande della cui risposta Wittgenstein diceva che è necessario tacere, anche se comunque non possiamo non volerla cercare (come sempre Wittgenstein riconosceva). Cerchiamo sempre la risposta definitiva e sicura senza poterla mai trovare per cui forse, si potrebbe pensare, che la risposta è appunto nel cercare questa risposta passando da una risposta inadeguata a un'altra ancora inadeguata. E per questo, nonostante l'impossibilità di una risposta definitiva (o forse proprio per questa impossibilità), non finiremo mai di fare scienza o filosofia: non possono essere concluse, proprio in quanto la risposta che le terminerebbe è impossibile.
Per dire in concreto (e non come una postulazione astratta da prendere in termini generalissimi) che esiste una coscienza universale che ci comprende bisognerebbe uscire da questa coscienza, ma se essa ci dà la coscienza in quanto ne siamo parti, non potremo mai effettivamente trovarla. Tutto ciò che possiamo dire è che è il nostro significato individuale che sempre ci accompagna in ogni nostro sentire e descrivere (anche quando descriviamo uno stato di non coscienza) siamo sempre, eternamente, irriducibilmente presenti.



sgiombo

#27
Maral ha scritto:

Searle passa oltre al problema, in sostanza ci dice che non c'è alcun perché, solo funziona così e solo questo ha rilevanza (come si dice che l'acqua appare liquida pur non essendoci nulla che restituisca il senso della sua liquidità in una descrizione molecolare dell'acqua): gli eventi della coscienza (e in particolare dell'autocoscienza) e l'attività neurofisiologica sono la stessa cosa vista e descritta con linguaggi diversi, dice Searle. Ma , ad esempio, perché esistono questi due linguaggi diversi che dicono la stessa cosa, in cosa consiste questa stessa cosa e soprattutto il fatto che anche il linguaggio scientifico è frutto di una rappresentazione della coscienza (e dunque perché questa particolare rappresentazione dovrebbe avere di per sé sempre un fondamento maggiore), pare non lo tenga minimamente in considerazione.  
Il punto è che noi possiamo vedere sempre e solo il risultato finale dell'evento coscienza e ci spieghiamo questo evento sempre e solo in ragione del risultato finale che esso produce, ponendo uno di questi risultati finali come causa determinante per l'evento stesso.
Come vedi in questo discorso mi pare di essere perfettamente d'accordo con te.


RISPONDO:

Secondo me non si tratta della stessa cosa detta con parole diverse ma di due diverse cose, reciprocamente altre, anche se non può esistere/accedere l' una se non esiste/accade l' altra e viceversa (sono reciprocamente conditiones sine qua non l' una adell' altra).

Liquidità dell' acqua alle temperature e pressioni atmosferiche correnti (alle nostre latitudini) e disposizione e certe determinate interazioni (e non altre) delle molecole dell' acqua sono la stessa cosa detta in modi diversi.
Ma il mio cervello funzionante in un certo determinato modo (certi determinari perocessi neurofisiologici nel mio cervello) come possono accadere nell' ambito della tua esperienza fenomenica cosciente (e non nella mia) sono altre, diverse cose che la mia (e non la tua) esperienza fenomenica cosciente, che pure ad essi necessariamente coesiste ed é correlata biunivocamente, anche se non può esistere/accedere l' una se non esistono/accadono anche gli altri e viceversa (sono reciprocamente conditiones sine qua non l' una degli altri).
Nel mondo fisico (fenomenico) non potrebbe esistere acqua liquida senza che esistano le molecole di H2O in deternìminati rapporti: se non c' é l' una non c' é l' altra e il mondo fisico é diverso nei due casi (di esistenza o non esistenza delle molecole di H2O in determinate condizioni: nel primo caso comprende l' acqua, nel secondo no).
Ma invece il mondo fisico (fenomenico), come può ad esempio essere esperito da te (compreso il mio cervello), potrebbe benissimo continuare ad essere esattamente lo stesso, senza alcuna diferenza (nel mondo fisico stesso) anche se la mia esperienza cosciente, che del mondo fisico non fa parte (al contrario, ne può casomai far parte il mondo fisico), non esistesse, anche se io fossi uno zombi del tutto privo di coscienza.

Quindi, alcontrario della liquidità dell' acqua e dei rapporti e interazioni fra le sue molecole, non si tratta delle "stesse cose dette con parole diverse", bensì di "cose diverse"; casomai in un certo senso delle "stesse cose viste da prospettive diverse".

In che senso?

Nel senso che esse possono essere (e senza poterlo dimostrale lo credo, in quanto mi sembra l' unica spiegazione sensata dei fatti osservabili) diverse manifestazioni fenomeniche coscienti (nell' ambito di diverse esperienze fenomeniche) delle stesse entità/eventualità in sé (di un unico, del medesimo ente/evento o insieme di enti/eventi nell' ambito del noumeno): gli stessi determinati eventi "in sé" in quanto si manifestano fenomenicamente nella mia esperienza cosciente si manifestano come ("sono") certe mie determinate sensazioni (interiori o mentali ed esteriori o materiali), proprio e solo quelle, mentre in quanto si manifestano nell' esperienza fenomenica cosciente di altri soggetti di sensazioni (per esempio nella tua) si manifestano come ("sono") certe loro (per esempio tue) determinate sensazioni (esteriori o meteriali), proprio e solo quelle, di determinati eventi neurofisiologici nell' ambito del mio cervello, proprio e solo di quelli.
Senza gli uni fenomeni ("miei") non si danno gli altri ("altrui", ad esempio "tuoi"), ma ciononostante non sono gli stessi enti/eventi bensì enti/eventi diversi, reciprocamente altri (come il polo positivo e il polo negativo di un magnete non possono darsi se non entrambi insieme e non l' uno senza l' altro, ma non per questo sono la medesima cosa, bensì invece sono due diverse, reciprocamente altre cose).

Loris Bagnara

#28
@Hollyfabius
CitazioneNon credo poi che si possa chiedersi neppure "perché esisto in questo modo" perché non esiste un modo persistente di me, in ogni momento cambio e il nostro essere persone non è mai definitivo. E' esistito un me in molte altre forme concrete diverse da quella presente ed esisterà in molte altre forme.
@maral
CitazioneMa questa seconda domanda non ha senso, non ha senso in quanto se io non fossi questo che sono, non sarei questo io che sono, sarei qualcos'altro. A meno appunto di ammettere che io ci sia prima di essere io e questo è assurdo. Io sono io perché sono questa forma, se fossi ad esempio un cane, non sarei io, ma quel cane.
Hollyfabius propone una concezione più "indefinita" dell'esistere, mentre maral una più "definita". Non abbiate da ridire su questa mia inevitabile schematizzazione, è solo per intenderci.
Io rispondo a entrambi invitandovi a cogliere un concetto un po' più sottile.
Immaginate, come accade nella fantascienza, un'apparecchiatura che trasferisca la coscienza da una persona all'altra. Supponiamo così che io-maral si trasferisca in corpo-hollyfabius, e io-hollyfabius in corpo-maral: ciascuno di voi due sentirà di essere sempre se stesso, soggettivamente, ma si troverà in una condizione differente da prima, oggettivamente. Non so dirlo altrimenti. Cercate di cogliere il fatto che il vostro io-sono avrebbe potuto manifestarsi entro condizioni differenti da quelle attuali, pur voi restando voi stessi. E attenzione alla parola "manifestarsi", perché ci tornerò sopra in seguito.

@hollyfabius
CitazioneL'esistenza del TUTTO come principio è senza senso, è auto-contradditorio. Non puoi abbracciare il tutto perché mancheresti sempre tu che dall'esterno lo abbracci. Non può esistere un linguaggio che descriva se stesso, occorre operare ad un livello di sovra-linguaggio ma non si può uscire da questa contraddizione.
Nessuno pretende, infatti, di comprendere o descrivere l'infinito, o assoluto, o il TUTTO: tre sinonimi a cui potremmo affiancarne un quarto, cioé Dio, termine che invece io preferisco evitare perché richiama troppo il Dio personale delle religioni storiche.
Per conoscere il TUTTO dovremmo essere il TUTTO, cosa evidentemente impossibile per una creatura che è solo parte del TUTTO. Ma non è questo che si chiede.
Il TUTTO lo si postula come necessità logica e ontologica, come condizione affinché esista un senso; ma non vi è nessuna pretesa di cogliere analiticamente e razionalmente questo senso. E' sufficiente sapere che esiste, e fa già una bella differenza dal sapere che non esiste un senso. E ciò che è finito, limitato, un senso non ce l'ha, non è autosufficiente. Questo la filosofia l'ha già stabilito da qualche migliaio di anni.
Semmai, il TUTTO lo si può rappresentare, anche se molto parzialmente, solo in negativo, dicendo ciò che non è; oppure lo si può intuire utilizzando facoltà sovrarazionali. Ma certamente non comprenderlo, su questo siamo d'accordo.

@maral
CitazionePer dire in concreto (e non come una postulazione astratta da prendere in termini generalissimi) che esiste una coscienza universale che ci comprende bisognerebbe uscire da questa coscienza, ma se essa ci dà la coscienza in quanto ne siamo parti, non potremo mai effettivamente trovarla.
Vedi sopra, la risposta è identica. Non c'è bisogno di descrivere la coscienza universale, che ovviamente resta inaccessibile ad ogni coscienza limitata come siamo noi esseri umani. Ma è sufficiente sapere che esiste, che essa è la sorgente di ogni coscienza particolare, perché se non postulassi una coscienza universale ed eterna non vi sarebbe alcuna possibile spiegazione per la mia (vostra) presenza qui, ora.
E' già una grandissima differenza, rispetto al non-senso che deriva dal non postularla.
E' la differenza che vi è fra sapere che la risposta non esiste, oppure sapere che la risposta invece esiste, anche se non la conosciamo.

Aggancio a questo punto anche una risposta a Sgiombo:
CitazioneNon sono d' accordo che sia "impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente", che "la coscienza NON sorga dal nulla, ma sia irriducibile, increata, eterna, e che assuma infinite manifestazioni soggettive": non vi é nulla di contraddittorio, ovvero assurdo, nell' ipotesi che io e chiunque altro come soggetto autocosciente non sia esistente per sempre, che inizi ad esistere (appaia dal nulla), e anche che finisca completamente, definitivamente di esistere (ritorni nel nulla); e dunque é correttamente pensabilissima come ipotesi alternativa e altrettanto plausibile a quella dell' eternità della coscienza e dell' autocoscienza.
Cerco di farti capire la difficoltà che avverto io.
Immagina il sacchetto con i 90 numeri della tombola, e un persona che estrae i numeri ad uno ad uno. Quei numeri sono individui autocoscienti. Tu, supponiamo, sei il numero 3. Ad un certo punto esce proprio il 3, e la tua coscienza "apre gli occhi": si manifesta. Nel sacchetto, era solo una possibilità; ora, è una manifestazione.
Immagina ora che il sacchetto sia vuoto: dentro non c'è neanche un numero. Però arriva un mago, prende il sacchetto, ci mette la mano dentro, la tira fuori, e cos'ha in mano? Il numero 3.
E nemmeno esisteva come possibilità!
A me, questo secondo caso, prova un fortissimo disagio intellettuale. Ti prego di coglierlo (non dico di accettarlo) perché non saprei spiegarlo con altre parole.

@hollyfabius
CitazioneSono piuttosto convinto che esista l'eternità di qualcosa, le forme però, le intenzionalità di questo qualcosa non sono accessibili alla mente umana. Dal mio piccolo cantuccio la definitiva irrazionalità del qualcosa di eterno è palese: lo stesso principio di causalità potrebbe dissolversi per ragioni misteriose.
Il qualcosa di eterno però deve garantire la molteplicità, deve appoggiarsi almeno al suo contrasto, è forse l'eterna lotta tra una parvenza di yin e yang.
E' così, quell'eternità inaccessibile di cui parli è quel che intendo per il TUTTO.
E nel TUTTO è compreso il passato, il presente e il futuro di tutte le infinite manifestazioni. Il TUTTO non evolve, perché dovrebbe evolvere in qualcosa di diverso da se stesso, ma allora non sarebbe il TUTTO. Dunque il TUTTO è in una sorta di eterno presente senza tempo, e se non c'è tempo, non c'è causalità. Come tu dici, nell'infinito il principio di causalità si dissolve perché ogni causa è compresente con i suoi effetti.
Ma il TUTTO, in sé, non è manifestato (ecco il concetto di "manifestazione"): solo delle parzializzazioni del TUTTO possono manifestarsi.
Immaginiamo un database infinito da cui posso estrarre infiniti differenti insiemi di dati, ordinati in un'infinità di modi differenti: questi insiemi sono come gli universi osservabili, mentre il database, in sé, resta inaccessibile e incomprensibile.
Ecco gli infiniti possibili universi che possono derivare dal TUTTO. In tal modo, il TUTTO è al tempo stesso assolutamente inaccessibile e trascendente rispetto alle manifestazioni, ma al tempo stesso è immanente ad esse essendone la "radice", benché inattingibile e inconoscibile.

sgiombo

Citazione di: Loris Bagnara il 11 Giugno 2016, 14:21:15 PM
CitazioneLoris Bagnara:
Il TUTTO lo si postula come necessità logica e ontologica, come condizione affinché esista un senso; ma non vi è nessuna pretesa di cogliere analiticamente e razionalmente questo senso. E' sufficiente sapere che esiste, e fa già una bella differenza dal sapere che non esiste un senso. E ciò che è finito, limitato, un senso non ce l'ha, non è autosufficiente. Questo la filosofia l'ha già stabilito da qualche migliaio di anni.
CitazioneSgiombo:
Per me è vero proprio il contrario: in un tutto in divenire ordinato una parte (un evento particolare, singolare) può avere un senso (= il suo accadere si spiega per dei motivi, costituiti dalle condizioni "iniziali" precedenti-circostanti la parte considerata -ovvero il singolo evento- e dalle leggi generali astratte, universali e costanti del divenire); mentre il tutto per definizione non è incluso in qualcosa di più ampio di cui possa costituire una parte analogamente dotata di senso (= il cui accadere si spiega per dei motivi).

CitazioneLoris Bagnara:
Immagina il sacchetto con i 90 numeri della tombola, e un persona che estrae i numeri ad uno ad uno. Quei numeri sono individui autocoscienti. Tu, supponiamo, sei il numero 3. Ad un certo punto esce proprio il 3, e la tua coscienza "apre gli occhi": si manifesta. Nel sacchetto, era solo una possibilità; ora, è una manifestazione.
Immagina ora che il sacchetto sia vuoto: dentro non c'è neanche un numero. Però arriva un mago, prende il sacchetto, ci mette la mano dentro, la tira fuori, e cos'ha in mano? Il numero 3.
E nemmeno esisteva come possibilità!
A me, questo secondo caso, prova un fortissimo disagio intellettuale. Ti prego di coglierlo (non dico di accettarlo) perché non saprei spiegarlo con altre parole.
CitazioneSgiombo:
La vita è bella perché è diversa: a me il fatto che come Sgiombo dotato di una sua esperienza cosciente ho cominciato ad esistere (prima non c' ero) e finirò di esistere (dopo non ci sarò) non da proprio nessun disagio intellettuale (per cui mi è anche difficile immaginarmi il tuo; che peraltro non dubito esistere e che non mi permetto di giudicare: non pretendo certo di essere migliore di te, anche se sono contento di me stesso come lo sarai certamente anche tu).


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