La "velocità" del tempo

Aperto da Donalduck, 21 Dicembre 2019, 17:59:37 PM

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Ipazia

Citazione di: iano il 30 Dicembre 2019, 23:52:34 PM
Citazione di: Donalduck il 26 Dicembre 2019, 11:17:31 AM
Citazione di: iano il 26 Dicembre 2019, 01:52:10 AMCredo nella realtà sulla fiducia...
Mmmm.... Hai fatto un lungo discorso sulla realtà, dimenticandoti di dire cosa intendi con questo termine, e neppure si capisce da quello che scrivi. E' proprio il problema che ho enunciato e risolto, per quanto mi riguarda, nel modo che ho descritto. Non trovo invece nulla di intelligibile e neppure intuibile nel tuo modo di presentare la tua visione di questa fantomatica "realtà". Purtroppo non possiamo affatto contare su una intuizione comune, dato che da parte mia trovo decisamente fuorviante e fallimentare il modo in cui si usa generalmente questo termine in filosofia.
Semplicemente non c'è modo di dimostrare che una realtà fuori di noi esista , quindi siamo liberi di crederci o meno e io scelgo di crederci.
Non possiamo contare su una intuizione comune come prova di esistenza.
Non possiamo dire che il rosso esiste perché tutti lo percepiamo. Sappiamo che esiste una frequenza che corrisponde al rosso , ma il rosso ,oggetto comune della nostra percezione non esiste.
E come percepiamo il rosso così percepiamo il tempo.

Hai ragione a criticarmi . Spesso metto sulla tastiera i pensieri come vengono.

Sulle bufale "percepite" dal politicamente ed epistemologicamente "corretto" relative alla percezione forse è il caso di cominciare a fare debunking.

Che la percezione non sia illusoria basta a dimostrarlo la capacità di coordinare spazio, massa, tempo, onde luminose e operatore nella semplice manovra di posteggio di un'auto tra due auto parcheggiate. L'oggettività del risultato - fausto o infausto che sia - falsifica qualsiasi volo pindarico di tipo metafisico.

E poichè nell'operazione di sbufalamento non vogliamo farci mancare nulla, riusciamo anche a correggere i limiti percettivi di chi ha deficit visivi con artifici predisposti ad hoc, che non funzionerebbero minimamente se non avessimo compreso l'oggettività del processo visivo e le leggi naturali che lo regolano.

In definitiva, non solo la (cono)scienza non è illusoria, ma è così ben congegnata da potenziare millemilavolte i limiti evoluzionistici naturali della nostra percezione, liberandola pure dalle indebite attenzioni della metafisica.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

iano

#46
@Ipazia.
La percezione non è la realtà , ma neanche una bufala inaffidabile.Tuttaltro.
Anzi è il modello a cui la scienza deve ispirarsi, per poterlo integrare/superare ,laddove la scienza ci rende "diversamente percepienti".
Illusorietà non è il termine giusto da usare quindi.
L'unica illusione è quella di una realtà in se' conoscibile.
Certamente conoscere i meccanismi della percezione aiuta a correggere i deficit percettivi , cosa che il cervello in verità fa' da solo riorganizzando e ottimizzando le sue risorse in caso di accidentale menomazione sensoriale.
Il cervello è sempre "diversamente abile" perché capace con grande plasticità di modificarsi in base al contesto e alle risorse disponibili al momento.
Anche l'uso del termine deficit quindi è improprio.
Il cervello fa' quel che può con le risorse che ha e queste risorse , poche o tante che siano , integre o menomate che dir si voglia ,non sono mai infinite .
La percezione non usa metafisica , ma noi , quando parliamo di realtà in se' , senza saper dire di cosa stiamo parlando.
Quando osservo "cio' che mi sta intorno " mi pare un tale miracolo che non è pensabile , fino a prova contraria , che ciò che osservo non sia la realtà in se'.
La prova contraria pero' c'è.


Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Ipazia

Citazione di: iano il 31 Dicembre 2019, 21:56:22 PM
@Ipazia.
La percezione non è la realtà , ma neanche una bufala inaffidabile.Tuttaltro.
Anzi è il modello a cui la scienza deve ispirarsi, per poterlo integrare/superare ,laddove la scienza ci rende "diversamente percepienti".
Illusorietà non è il termine giusto da usare quindi.
L'unica illusione è quella di una realtà in se' conoscibile.

L'unica illusione (metafisica) è la realtà in sè.

CitazioneCertamente conoscere i meccanismi della percezione aiuta a correggere i deficit percettivi , cosa che il cervello in verità fa' da solo riorganizzando e ottimizzando le sue risorse in caso di accidentale menomazione sensoriale.
Il cervello è sempre "diversamente abile" perché capace con grande plasticità di modificarsi in base al contesto e alle risorse disponibili al momento.
Anche l'uso del termine deficit quindi è improprio.
Il cervello fa' quel che può con le risorse che ha e queste risorse , poche o tante che siano , integre o menomate che dir si voglia ,non sono mai infinite.

Il deficit è scientificamente circoscrivibile. L'occhio umano è sensibile ad un range di frequenze limitate. La biochimica del carbonio sopporta condizioni ambientali molto limitate rispetto ai range di temperatura, pressione e condizioni chimico-fisiche presenti nell'universo. E così via. Sono tutte cose che ci sono note senza scomodare la "cosa in sè" e tali deficit possono essere superati usando artifici tecnici scientificamente provati.

CitazioneLa percezione non usa metafisica , ma noi , quando parliamo di realtà in se' , senza saper dire di cosa stiamo parlando. Quando osservo "cio' che mi sta intorno " mi pare un tale miracolo che non è pensabile, fino a prova contraria , che ciò che osservo non sia la realtà in se'. La prova contraria pero' c'è.

E' un problema che la ricerca scientifica supera agevolmente sapendo quello che sa e quello che non sa. Quello che non sa, tipo la "cosa in sè", lo lascia volentieri alla metafisica e se ne occuperà solo quando ne saprà qualcosa, attraverso la ricerca. La realtà, per la scienza, è l'insieme dei fatti esperiti e le teorie non falsificate che questi fatti riescono a spiegare. Quando la teoria riesce a prevedere il risultato finale di una sequenza di fatti siamo in presenza di realtà. Non occorre nemmeno una laurea ad Harvard per produrre proposizioni reali: "tutti gli uomini sono mortali" ha piena corrispondenza con la realtà.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

viator

#48
Salve Ipazia. Comunque non se ne esce, quindi andiamo tranquillamente avanti a battibeccare. Ad esempio (citandoti) : "Il deficit è scientificamente circoscrivibile. L'occhio umano è sensibile ad un range di frequenze limitate"........afferma solamente che le frequenze impercepibili esistono solamente per la scienza, cioè per un punto di vista e "modo di (non) essere reale" che altro non è che una costruzione mentale, convenzionale, concettuale, immateriale che vorrebbe "descrivere" e "definire" la realtà stando - OVVIAMENTE E NECESSARIAMENTE - al di fuori della realtà stessa !. (Dal momento che tu sai benissimo che non è possibile descrivere oggettivamente qualcosa restando al suo interno). Buon anno.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

iano

#49
@Ipazia.
Con tutto il rispetto , mi pare che fai un uso disinvolto del termine realtà.
Però mi pare che nella sostanza siamo d'accordo.
Io credo nell'esistemza di una realtà in se' che assumo per ipotesi.
È ciò da cui si parte , non ciò a cui si arriva.
Le costruzioni della scienza e della percezione sono "utili" , ma non vere , cioè vere nel senso che sono sulla strada della conoscenza della realtà in se' , perché ciò non ha senso.
È un punto di vista il mio che può risultare deludente , ma ha risvolti positivi per chi affronta la professione scientifica , spazzando via ogni metafisica.
Per contro potrebbe essere un punto di vista che non incentiva a intraprendere la professione.
Ma non sono necessari incentivi.Basta preservare la libertà di scelta.E' sufficiente non creare disincentivi ad arte.
Chi non capisce la scienza deve sapere che non può capirla se non intraprendendo il mestiere.
È un problema tecnico e non di geniale illuminazione.
La divulgazione scientifica fa' parecchi danni perché parte dalla percezione per spiegare la scienza , dimenticando che nel pacchetto della percezione è incluso un "senso di realtà " che poi la gente si aspetta di ritrovare nel pacchetto scienza , restando disorientata perché quel senso continua a non trovarlo.
E finché non lo trova dirà che non ha capito.
Ma in effetti ci sono molte cose da sapere e da sperimentare , ma nulla da capire.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
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Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Ipazia

Citazione di: viator il 01 Gennaio 2020, 20:57:07 PM
Salve Ipazia. Comunque non se ne esce, quindi andiamo tranquillamente avanti a battibeccare. Ad esempio (citandoti) : "Il deficit è scientificamente circoscrivibile. L'occhio umano è sensibile ad un range di frequenze limitate"........afferma solamente che le frequenze impercepibili esistono solamente per la scienza, cioè per un punto di vista e "modo di (non) essere reale" che altro non è che una costruzione mentale, convenzionale, concettuale, immateriale che vorrebbe "descrivere" e "definire" la realtà stando - OVVIAMENTE E NECESSARIAMENTE - al di fuori della realtà stessa !. (Dal momento che tu sai benissimo che non è possibile descrivere oggettivamente qualcosa restando al suo interno). Buon anno.

Manco per nulla. Significa che noi abbiamo intelligenza e strumenti per fare entrare nella realtà anche ciò che non ci è immediatamente percepibile. Per esempio: sappiamo tutto dell'aria, pur essendo essa invisibile, incolore, inodore, insapore. E la distinguiamo dall'ossido di carbonio che ha le stesse caratteristiche organolettiche, ma effetti del tutto opposti sul nostro organismo. La scienza ha dilatato la realtà oltre il livello del percepibile e l'ha fatto realmente, non farloccamente come la pseudoscienza, o convenzionalmente come se la realtà fosse una fiction.
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Donalduck

Citazione di: iano il 30 Dicembre 2019, 23:52:34 PM
Citazione di: Donalduck il 26 Dicembre 2019, 11:17:31 AM
Citazione di: iano il 26 Dicembre 2019, 01:52:10 AMCredo nella realtà sulla fiducia...
Mmmm.... Hai fatto un lungo discorso sulla realtà, dimenticandoti di dire cosa intendi con questo termine, e neppure si capisce da quello che scrivi. E' proprio il problema che ho enunciato e risolto, per quanto mi riguarda, nel modo che ho descritto. Non trovo invece nulla di intelligibile e neppure intuibile nel tuo modo di presentare la tua visione di questa fantomatica "realtà". Purtroppo non possiamo affatto contare su una intuizione comune, dato che da parte mia trovo decisamente fuorviante e fallimentare il modo in cui si usa generalmente questo termine in filosofia.
Semplicemente non c'è modo di dimostrare che una realtà fuori di noi esista , quindi siamo liberi di crederci o meno e io scelgo di crederci.
Non possiamo contare su una intuizione comune come prova di esistenza.
Non possiamo dire che il rosso esiste perché tutti lo percepiamo. Sappiamo che esiste una frequenza che corrisponde al rosso , ma il rosso ,oggetto comune della nostra percezione non esiste.
E come percepiamo il rosso così percepiamo il tempo.

Hai ragione a criticarmi . Spesso metto sulla tastiera i pensieri come vengono.

Il punto non è la critica, ma cercare di arrivare al nocciolo della questione, e mi pare che ancora non ci siamo. Per evitare fraintendimenti e cavilli, stabiliamo che "realtà" ed "esistenza" sono sinonimi, stanno a indicare che qualcosa "è". Quindi non vale dire che qualcosa è reale se esiste e non è reale se non esiste. Bisogna spiegare cose significano quel "esiste" e quel "non esiste". Definire rigorosamente l'esistenza è impossibile, ma si può cercare di capire cosa vogliamo dire se proviamo a spiegare cosa significa che qualcosa "non esiste". A mio parere è del tutto arbitrario, immotivato e in ultima analisi senza senso dire cose come "il rosso non esiste" o "il tempo non esiste" ma anche, più in generale, dire che qualsiasi cosa "non esiste", se non in riferimento a un ben definito contesto, quindi mai in senso assoluto. Ad esempio: Babbo Natale non esiste in quanto essere umano o superumano, ma esiste come prodotto dell'immaginazione, con tanto di raffigurazioni iconiche e mito (ossia descrizione di aspetto e comportamento). Quindi se come contesto scelgo l'insieme degli esseri umani, o degli esseri senzienti, Babbo Natale non esiste (non appartiene all'insieme preso in considerazione). Se prendo invece l'insieme delle entità mitiche Babbo Natale esiste. Bisogna sempre riferirsi a un preciso contesto, un insieme di entità e una "dimensione o modalità di esistenza" un certo "spazio" a cui l'insieme fa riferimento (una pietra e un pensiero non non appartengono alla stessa "dimensione di esistenza", allo stesso "spazio" in senso lato) per affermare che qualcosa esiste o non esiste senza che questa asserzione resti sospesa nel vuoto dell'insignificante. E, ripeto, non c'è nulla di cui si possa dire "non esiste" in assoluto.
Ancora più privo di significato mi appare il pensiero "credere che la realtà esista". Come si può credere a qualcosa se non si sa cosa questo qualcosa significa? E che differenza farebbe credere o non credere nella realtà in generale?

Riguardo al rosso: "rosso" e "onda elettromagnetica di una certa frequenza e intensità" non sono affatto la stessa cosa. Sono due fenomeni legati, in stretta relazione, ma non coincidono. Colore e frequenza (o lunghezza d'onda) della luce sono legati da precise relazioni, ma non vanno confusi l'uno con l'altro, cosa che invece viene fatta comunemente. Si può dire che la sensazione del rosso è generata dall'elaborazione da parte del sistema biopsichico "organismo umano" delle onde luminose (o meglio dell'informazione che portano con sé) ed è legata a una certa fascia di frequenze, ma sarebbe un grosso errore dire che "luce di frequenza compresa tra x e y" e "rosso" indicano la stessa cosa. Tra l'altro è possibile che la sensazione del rosso compaia in sogni o allucinazioni, o anche semplici immaginazioni, quindi anche senza la percezione ed elaborazione di segnali luminosi. Che senso avrebbe dire che "il rosso come oggetto della nostra percezione non esiste"? Esiste appunto come oggetto della nostra percezione, e, tra l'altro, per noi non c'è nessun riferimento più immediato e fondamentale della nostra percezione, tutte le nostre conoscenze si basano su di essa. Ribadisco, che senso ha dire che "non esiste", cosa vorrebbe dire?

Ipazia

Concordo con l'ultimo post di "paperino" e mi pare possa anche completare la mia sintetica risposta a viator.

Sull'aspetto epistemologico delle cui affermazioni trovo un paio di inesattezze:

1) Il fatto che gli strumenti ci permettano di accedere ad aspetti della realtà non percepibili ad occhio nudo non fonda una realtà "convenzionale" ma dilata la realtà "reale". I microbi visti al microscopio o gli anelli di saturno visti al telescopio sono reali, ed erano tali anche prima che li vedessimo e pure se non li avessimo visti mai.

2) Vedere la realtà "da dentro" o "da fuori" mi pare un inutile tormentone metafisico. La conoscenza del pianeta Terra non è certo più completa vista da una sonda spaziale che da una miniera o batiscafo. Sono modi diversi e complementari di conoscere che cosa è il pianeta Terra. Da dentro e da fuori.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
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viator

Salve. Per donalduck ed Ipazia : "Bisogna spiegare cose significano quel "esiste" e quel "non esiste". Definire rigorosamente l'esistenza è impossibile".
Beh, certo, quasi tutti devono arrestarsi di fronte all'ostacolo tautologico. Io ci ho provato qui dentro già diverse volte, formulando sempre : "l'Essere : la condizione per la quale le cause producono i loro effetti" e senza mai leggere commenti, contestazioni, rettifiche, alternative da parte di altri utenti.

D'altra parte ciò dimostra che è possibilissimo continuare a vivere ignorando cosa l'essere possa essere.

Quando Ipazia afferma che la scienza provvede ad includere nuova realtà a quella sino a quel monento nota e percepibile, sta solo facendo confusione tra i concetti di "osservabilità" e "percezione", i quali possono anche sovrapporsi ma non coincidono, in quanto l'osservabilità include la percezione ma va oltre, occupandosi e consistendo anche della interpretazione - in modi immateriali, convenzionali, mentali, come già detto a proposito della scienza - di ciò che entra all'interno DEL SOGGETTO OSSERVANTE ED ESTRANEO A CIO' CHE STA OSSERVANDO.

Il "principio di indeterminazione" dice qualcosa a qualcuno circa il presente argomento ?. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Donalduck

#54
Citazione di: viator"Bisogna spiegare cose significano quel "esiste" e quel "non esiste". Definire rigorosamente l'esistenza è impossibile".
Beh, certo, quasi tutti devono arrestarsi di fronte all'ostacolo tautologico. Io ci ho provato qui dentro già diverse volte, formulando sempre : "l'Essere : la condizione per la quale le cause producono i loro effetti" e senza mai leggere commenti, contestazioni, rettifiche, alternative da parte di altri utenti.
Una definizione alquanto sibillina, che comunque presuppone che "causa" ed "effetto" siano più fondamentali dell'essere stesso, dal momento che servono a definirlo.

Citazione di: viatorD'altra parte ciò dimostra che è possibilissimo continuare a vivere ignorando cosa l'essere possa essere.
Se è per questo si può continuare a vivere benissimo anche senza saper né leggere né scrivere. Del resto ho affermato che definire rigorosamente l'essere è impossibile, quindi se quel che dici fosse falso saremmo tutti morti, o non saremmo mai esistiti. Invece, riflettere sul significato che diamo all'"essere", senza la velleità di arrivare a conclusioni definitive, serve soprattutto a sbarazzarci di pregiudizi e semplicistici luoghi comuni.

Citazione di: viatorIl "principio di indeterminazione" dice qualcosa a qualcuno circa il presente argomento?
Immagino che ti riferisca al principio della fisica quantistica. Per quanto mi riguarda è solo una conferma che ogni ontologia dipende dal punto di vista, che non esiste un punto di vista assoluto e che niente può fare a meno del concetto di relazione e di conseguenza ogni tentativo di definire, concettualizzare una "realtà in sé" indipendente da un soggetto interpretante è destinata per sua natura al fallimento.

iano

#55
Citazione di: Donalduck il 02 Gennaio 2020, 11:24:11 AM
Citazione di: iano il 30 Dicembre 2019, 23:52:34 PM
Citazione di: Donalduck il 26 Dicembre 2019, 11:17:31 AM
Citazione di: iano il 26 Dicembre 2019, 01:52:10 AMCredo nella realtà sulla fiducia...
Mmmm.... Hai fatto un lungo discorso sulla realtà, dimenticandoti di dire cosa intendi con questo termine, e neppure si capisce da quello che scrivi. E' proprio il problema che ho enunciato e risolto, per quanto mi riguarda, nel modo che ho descritto. Non trovo invece nulla di intelligibile e neppure intuibile nel tuo modo di presentare la tua visione di questa fantomatica "realtà". Purtroppo non possiamo affatto contare su una intuizione comune, dato che da parte mia trovo decisamente fuorviante e fallimentare il modo in cui si usa generalmente questo termine in filosofia.
Semplicemente non c'è modo di dimostrare che una realtà fuori di noi esista , quindi siamo liberi di crederci o meno e io scelgo di crederci.
Non possiamo contare su una intuizione comune come prova di esistenza.
Non possiamo dire che il rosso esiste perché tutti lo percepiamo. Sappiamo che esiste una frequenza che corrisponde al rosso , ma il rosso ,oggetto comune della nostra percezione non esiste.
E come percepiamo il rosso così percepiamo il tempo.

Hai ragione a criticarmi . Spesso metto sulla tastiera i pensieri come vengono.

Il punto non è la critica, ma cercare di arrivare al nocciolo della questione, e mi pare che ancora non ci siamo. Per evitare fraintendimenti e cavilli, stabiliamo che "realtà" ed "esistenza" sono sinonimi, stanno a indicare che qualcosa "è". Quindi non vale dire che qualcosa è reale se esiste e non è reale se non esiste. Bisogna spiegare cose significano quel "esiste" e quel "non esiste". Definire rigorosamente l'esistenza è impossibile, ma si può cercare di capire cosa vogliamo dire se proviamo a spiegare cosa significa che qualcosa "non esiste". A mio parere è del tutto arbitrario, immotivato e in ultima analisi senza senso dire cose come "il rosso non esiste" o "il tempo non esiste" ma anche, più in generale, dire che qualsiasi cosa "non esiste", se non in riferimento a un ben definito contesto, quindi mai in senso assoluto. Ad esempio: Babbo Natale non esiste in quanto essere umano o superumano, ma esiste come prodotto dell'immaginazione, con tanto di raffigurazioni iconiche e mito (ossia descrizione di aspetto e comportamento). Quindi se come contesto scelgo l'insieme degli esseri umani, o degli esseri senzienti, Babbo Natale non esiste (non appartiene all'insieme preso in considerazione). Se prendo invece l'insieme delle entità mitiche Babbo Natale esiste. Bisogna sempre riferirsi a un preciso contesto, un insieme di entità e una "dimensione o modalità di esistenza" un certo "spazio" a cui l'insieme fa riferimento (una pietra e un pensiero non non appartengono alla stessa "dimensione di esistenza", allo stesso "spazio" in senso lato) per affermare che qualcosa esiste o non esiste senza che questa asserzione resti sospesa nel vuoto dell'insignificante. E, ripeto, non c'è nulla di cui si possa dire "non esiste" in assoluto.
Ancora più privo di significato mi appare il pensiero "credere che la realtà esista". Come si può credere a qualcosa se non si sa cosa questo qualcosa significa? E che differenza farebbe credere o non credere nella realtà in generale?

Riguardo al rosso: "rosso" e "onda elettromagnetica di una certa frequenza e intensità" non sono affatto la stessa cosa. Sono due fenomeni legati, in stretta relazione, ma non coincidono. Colore e frequenza (o lunghezza d'onda) della luce sono legati da precise relazioni, ma non vanno confusi l'uno con l'altro, cosa che invece viene fatta comunemente. Si può dire che la sensazione del rosso è generata dall'elaborazione da parte del sistema biopsichico "organismo umano" delle onde luminose (o meglio dell'informazione che portano con sé) ed è legata a una certa fascia di frequenze, ma sarebbe un grosso errore dire che "luce di frequenza compresa tra x e y" e "rosso" indicano la stessa cosa. Tra l'altro è possibile che la sensazione del rosso compaia in sogni o allucinazioni, o anche semplici immaginazioni, quindi anche senza la percezione ed elaborazione di segnali luminosi. Che senso avrebbe dire che "il rosso come oggetto della nostra percezione non esiste"? Esiste appunto come oggetto della nostra percezione, e, tra l'altro, per noi non c'è nessun riferimento più immediato e fondamentale della nostra percezione, tutte le nostre conoscenze si basano su di essa. Ribadisco, che senso ha dire che "non esiste", cosa vorrebbe dire?
Giusta critica.Ho peccato di omissione.
Ok.Realta' ed esistenza sono sinonimi.
Ma alla fine non ho capito se sei soddisfatto delle risposte ai tuoi quesiti?
I sistemi inerziali , il rosso , lo spazio e il tempo esistono , ma limitatamente alla nostra percezione , che è parte della realtà, mentre io semplificando escludevo il campo percettivo da quello della realtà.
È una semplificazione che ha il suo motivo però.
Ogni volta che dico che i sistemi inerziali esistono , devo specificare solo nella mia immaginazione , al pari del rosso , dello spazio e del tempo.
Eppero' tutte queste costruzioni del cervello hanno una importante funzione che ci permette di rapportarci con la presunta realtà posta fuori dal campo della percezione.
Anche la geometria Euclidea che postula uno spazio omogeneo ( dove un punto vale l'altro ) esiste solo nella nostra immaginazione , mentre nella considerazione comune fino a ....ieri... essa descriveva la realtà dello spazio.
Fino a ....ieri ....ciò che era dentro di noi sembrava coincidere almeno in parte con ciò che si suppone sia fuori di noi.
Immagino il tuo quesito nasca dall'essere rimasto invischiato in una vecchia concezione di spazio.
Quello Newtoniano assoluto.
Nello spazio "attuale" , cioè come lo immaginiamo oggi , un orologio posto sul pavimento e uno posto sul tavolo segnano un tempo diverso .
Se ci riferiamo alle velocità sembra strano.Infatti sono entrambi fermi uno rispetto all'altro.
Ma questi orologi stanno descrivendo orbite diverse attorno a una massa che è la terra , quindi sono sottoposti a diverse accelerazioni , trovandosi su orbite non coincidenti.
Il tuo quesito era anche il mio da un po'  , e proprio in questa discussione io ho trovato la risposta.
E tu?
È la massa che fa' la differenza e relega lo spazio assoluto , dove un sistema di riferimento vale l'altro , solo dentro la nostra immaginazione .
Spero di essere stato sufficientemente chiaro , anche se è inevitabile una certa approssimazione , voluta o meno , nel linguaggio.😊
Il linguaggio è imperfetto per natura , perché parte della nostra immaginazione  , ma è questa imperfezione che lo rende utile in quanto malleabile , e adattabile alla nostra evoluzione nel rapportarci con la realtà fuori di noi , che per contro possiamo immaginare perfetta , cioè immutabile nella sua essenza.
In effetti possiamo immaginarla come ci pare , posto che non potremo mai descriverla col nostro imperfetto linguaggio.
Per assurdo se acquisissimo l'essenza della realtà fuori di noi , non potremmo comunicarla ad altri.
Basterebbe ciò per certificare che la possibilità di conoscere la realtà in se' è una fantasia.
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Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Donalduck

#56
Citazione di: Ipazia
Citazione di: Donalduck
La scienza ha assai poco da dire sui fondamenti dell'essere e della conoscenza, in sostanza sul mistero dell'esistenza che, pur essendo impenetrabile alla razionalità, ha molto da insegnare nel cammino che si compie nel cercare di svelarlo.

Opinabile. Le scienze cognitive hanno molto da dire sulla conoscenza e la conoscenza stessa è sinonimo di scienza. Per quanto riguarda i "fondamenti" ...

CitazioneE' chiaro che non si può arrivare a "fondamenti ultimi" perché non possiamo concepire nulla che non richieda a sua volta una spiegazione (quindi anche le "teorie del tutto" non possono che essere velleitarie). Ma una cosa che si può fare in questo cammino è sbarazzarsi di tutti i miti e i pregiudizi che riguardano tali fondamenti. Come che la scienza abbia qualche risposta in proposito. Non ce l'ha. La scienza si occupa di costruire modelli e applicarli al mondo dell'esperienza.

... la filosofia ha tentato una resistenza da parte dell'ultimo giapponese della metafisica ontologica che teorizzò la cosa in sè (das Ding an sich), il noumeno, contrapponendola alla sua manifestazione fenomenica. Tale strategia si è rivelata fallace e già Schopenauer si rese conto che tutto il nostro sapere, e non solo quello della scienza naturale, "si occupa di costruire modelli e applicarli al mondo dell'esperienza"

CitazioneMa stabilire le relazioni tra i modelli e il mondo dell'esperienza è affar suo solo per quanto riguarda le applicazioni pratiche, la tecnologia. Stabilire le relazioni concettuali è compito della filosofia, ossia richiede lo spostamento su un altro piano, su un altro contesto, un'altra dimensione del pensiero.

Anche qui direi che le scienze umane hanno eroso non poco del terreno filosofico puro: logica e semantica sono discipline già abbondantemente emancipate dall'approccio metafisico classico al loro oggetto di studio.

Che le scienze cognitive abbiano qualcosa da dire sul processo di conoscenza non lo metto in dubbio, anche se è tutto da stabilire quanto siano o possano essere effettivamente utili e in quali contesti. Idem per le cosiddette scienze umane. Bisogna comunque precisare che man mano che ci si muove dalle scienze "hard" a quelle "soft", il metodo scientifico empirico-sperimentale-matematico ha sempre meno presa sugli ambiti d'indagine delle scienze stesse, quindi esse risultano tanto più vaghe, imprecise e opinabili quanto più "soft".

Comunque, non ho negato tutto questo, parlavo dei fondamenti, che ricadono in ambito filosofico, al di fuori del dominio di qualunque scienza. Tu stessa, mi pare, hai ammesso che l'epistemologia ha un senso e una ragion d'essere e non può essere inglobata nella scienza (cosa che certe tendenze in ambito scientifico rivendicano).
Quello che non mi risulta è che i progressi nelle scienze, in tempi recenti, ossia dopo che la filosofia si è sbarazzata, con l'aiuto della stessa scienza, di pregiudizi e tabù fideistici, abbiano "sottratto terreno" alla filosofia, in particolare all'ontologia-metafisica (che trovo preferibile considerare come un tutt'uno). Sarebbe utile qualche esempio.

Non è che la scienza costruisca modelli e la filosofia no, ma in ogni caso bisogna costantemente tener presente la distinzione tra modello e referente del modello, che invece certi scienziati e divulgatori tendono a confondere. Il compito della filosofia della scienza è stabilire le relazioni tra il modello scientifico e il modello esperienziale (o altro modello, eventualmente). In alcuni casi queste relazioni sono pressoché implicite nel modello scientifico stesso. Ad esempio se ho una distanza e una velocità media di un veicolo posso calcolare il tempo di percorrenza (e posso verificarlo sperimentalmente), quindi in questo ambito e a questo fine posso applicare il modello, ossia considerare certi elementi della realtà esperienziale come elementi del modello scientifico. In altri casi, come quelli dei concetti di spazio e tempo, la mappatura è assai più problematica, ci si imbatte in paradossi ed è necessaria una visione più ampia (trascendente) di quella fornita dal modello. E' necessaria, in particolare, anche una profonda riflessione su cosa sia (come viene vissuto, considerato e usato) il referente esperienziale del modello scientifico (ad esempio il tempo esperienziale).

La "cosa in sé" non trova posto in questa discussione. Ho già chiarito che considero la ricerca di "fondamenti ultimi" o "realtà ultime" una missione impossibile sia per la scienza che per la filosofia, anche se la ricerca a domande che non avranno mai una risposta definitiva stimola la riflessione e ci aiuta soprattutto a sbarazzarci di credenze infondate, pregiudizi e superficiali luoghi comuni.

Se uno scienziato mi venisse a raccontare (come accade che si faccia) che "il tempo non esiste" o il tempo e lo spazio hanno avuto un "inizio" e addirittura mi fornisse approssimativamente la data di nascita, pretendendo di trasferire pari pari questa narrazione dal contesto in cui è nata (la teoria scientifica) al mondo dell'esperienza, gli farei osservare:
1) Che sta sconfinando dal suo ambito scientifico in cui è un esperto, a un ambito filosofico che è, per come la penso, di "pubblico dominio" e di pubblica competenza, in cui ha voce in capitolo, in linea di principio, quanto chiunque altro.
2) Che il concetto di inizio presuppone senza possibilità di elusione un preesistente contesto spaziotemporale, quindi sta dicendo in partenza cose senza senso. Qualsiasi cosa che abbia un inizio sta già in uno spaziotempo. Impossibile definire e dare un senso al concetto di inizio senza appoggiarsi ai concetti di spazio e tempo. Se vuole applicare la teoria al mondo dell'esperienza, dovrà trovare altri concetti e altri termini. Come ad esempio uno spaziotempo che ne contiene un altro. Non che questo concetto non sia problematico, ma almeno permette un possibile aggancio col mondo dell'esperienza, nel quale lo spazio non può avere confini, il tempo non può avere limiti né inferiori (passato) né superiori, il passato non può tornare e neppure possiamo tornare nel passato. Se il tempo e lo spazio della scienza non hanno queste caratteristiche, non si tratta di modificare le concezioni del tempo e dello spazio esperienziale (che sono elementi primari dell'esperienza), ma di stabilire i nessi tra il tempo e lo spazio della fisica e il tempo e lo spazio dell'esperienza. Io direi che lo spaziotempo dell'esperienza si potrebbe configurare come una sorta di metaspaziotempo rispetto a quello della fisica, che ammette una finitezza e regole non compatibili con quelle "incorporate" nella comune percezione-concezione di questi elementi primari. Lo spaziotempo è trattato dalla fisica come una sorta di oggetto, ha una sua "materialità" che non c'è affatto nello spaziotempo dell'esperienza.

Insomma la scienza non ha e non può avere l'ultima parola sull'applicazione dei concetti della disciplina a quelli dell'esperienza generica, e qualunque scienziato che si esprima in merito sta dismettendo le vesti dello scienziato per indossare quelle del filosofo. C'è invece una preoccupante tendenza, in ambito scientifico, a ritenere di poter sostituire la filosofia con la scienza impadronendosi di tutta la "filiera" del sapere e in sostanza spacciando il suo punto di vista per "il" punto di vista, quello "vero", e non "un" punto di vista, aprendo la strada al pensiero unico fondato su una Scienza divinizzata (che piace tanto anche ai potentati economici e politici, quando non abbiano una religione a cui appoggiarsi per affermare la loro indiscutibile autorità).

Un'altra considerazione che va fatta è che la scienza, come la conoscenza in generale, è ben lontana dall'essere unitaria. E' invece frammentaria e si fatica a mettere in relazione i vari ambiti o addirittura le diverse teorie negli stessi ambiti. Quindi risulta ancora più arduo, da parte della scienza, il compito di attuare questa unificazione, che per ora non riesce ad attuare neppure all'interno delle singole discipline, in tutti gli ambiti che attualmente stanno a notevole distanza tra loro. Soprattutto non si capisce su quali basi e in che modo dovrebbe realizzare questo oneroso compito. Posso ammettere che tale compito possa esser visto (dalla filosofia o al limite anche da una scienza che riesca, modificando sé stessa, a inglobare anche la filosofia) come una lontana meta, ma a sentire certi scienziati si direbbe che siamo a un passo dal trovare la chiave di interpretazione che ci svelerà ogni "segreto dell'esistenza", cosa a mio parere falsissima.

Donalduck

Citazione di: Ipazia
CitazioneInoltre la scienza è sostanzialmente intrinsecamente incapace di sondare e indagare il mondo della psiche (e parlo di mondo perché è vissuto come tale dalla coscienza, unico nostro sicuro e ineliminabile punto di riferimento), che rappresenta la metà dell'esperienza umana. Pensieri, sensazioni, sentimenti sono scatole nere per la scienza, che può solo indagare sulle tracce lasciate da tali fenomeni nel mondo fisico.

"Pensieri, sensazioni, sentimenti" sono scatole nere anche per la filosofia classica ormai frustrata da millenni di lotte serrate con un concetto particolare, l'Essere. Frustrazione ben contenuta nello "stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus". Ultimo frammento ontologico duramente conteso nella sostanza dalla botanica, nell'essenza odorosa dalla chimica e nella simbologia e iconografia dall'ispirazione artistica
La frustrazione è originata da un vizio di fondo: la mania di voler trovare una realtà fondamentale da cui dipendono unidirezionalmente, ossia derivano, tutte le altre realtà (che diventano illusorie). La mania di mettere ogni punto di vista in contrapposizione agli altri, anche quando non c'è nessun necessario conflitto. Che porta a pensare cose come: o esiste il pensiero, l'idea e quindi il mondo fisico è un'illusione, o (esclusivo) esiste la materia e quindi il pensiero, la psiche, la coscienza sono illusioni (o, eufemisticamente e pressapochisticamente parlando, epifenomeni). O nel migliore dei casi: o viene prima il pensiero che poi genera la realtà fisica o viene prima la realtà fisica che genera quella psichica. Cosa impedisce di pensare che entrambe le "realtà" siano su un piano paritario e siano magari due facce di una stessa medaglia? Tutti i monismi si basano sul prevalere di qualcosa su qualcos'altro e sulla negazione del dualismo (o di un qualsiasi pluralismo). E alla fine tutto si basa sul solito tentativo di arrivare ai "fondamenti ultimi" che a me più che altro evoca l'immagine dell'asino e la carota.
Si tratta di una visione delle cose ben radicata nella mentalità della gran maggioranza delle persone, non solo filosofi e scienziati. E anche il concetto ponziopilatesco di proprietà emergente, inventato per far fronte all'evidente sovrapposizione di "piani di realtà" interdipendenti ma ben distinti che si intrecciano nel mondo dell'esperienza senza rinunciare al monismo (che spesso coincide col riduzionismo materialista), resta alquanto lacunoso e privo di contenuto informativo. Lo "stato di realtà" di queste proprietà emergenti, che possono poi formare interi sistemi relativamente indipendenti, rimane indefinito e il problema viene sistematicamente eluso.
Questa esigenza di un ordine gerarchico assoluto, che evoca sia l'assolutismo in politica che il monoteismo in ambito teologico è anche alla base della tendenza imperialista della scienza (di certi settori della comunità scientifica) che vorrebbe fagocitare ogni altra forma di conoscenza, diventando così partner naturale, simbionte, di un potere politico assolutista, come lo è la religione monoteista.

Citazione di: Ipazia
CitazioneLa scienza, che ha bisogno sempre di qualcosa di misurabile, non ha i mezzi per addentrarsi nel mondo della psiche

Neppure questa proposizione è vera. Esiste un coacervo di scienze descrittive che si occupano di fenomeni qualitativi non misurabili. O semimisurabili attraverso algoritmi di tipo logico-probabilistico.
A questo bisogna mettersi d'accordo su cosa si intende per scienza, altrimenti si finisce per inserire tra le scienze anche la critica d'arte, o le arti stesse. Il punto è che solo la misurazione, la quantificazione permette l'uso della matematica e un criterio di verifica sufficientemente univoco e replicabile. E sono questi elementi che consentono in diversi campi alla scienza di rivendicare una superiorità metodologica che si concretizza in superiorità nei risultati rispetto ad altri sistemi di conoscenza. E quanto agli algoritmi probabilistici, bisogna vedere come vengono usati e se il loro uso porta a qualcosa di plausibile e affidabile, o solo a un castello di carte. Il mio parere è che discipline come la psicologia o, per focalizzare meglio un ambito specifico, la psicanalisi, non sono scienze, o sono scienze per modo di dire. Ossia usano anche il metodo scientifico (ma questo può essere vero anche per la più umanistica delle discipline) in qualche caso e in qualche misura, ma non sono affatto fondate su di esso. Sono basate su sistemi teorici in varia misura e in vario modo arbitrari, concepiti nell'immaginazione e non verificabili scientificamente (a meno che non si decida che il fatto che il paziente sia migliorato dimostri che l'impianto teorico è valido, ma questa sarebbe logica da strapazzo).

Il mondo psichico può essere esplorato nel modo in cui si esplora quello fisico: osservandolo direttamente e imparando a distinguerne le entità, a individuare le proprietà delle entità e le relazioni tra le entità, e su queste basi descriverne i fenomeni e le relazioni tra fenomeni. Ma questo non va confuso col misurare l'intensità delle correnti elettriche che scorrono attraverso il sistema nervoso o le aree del cervello che risultano più o meno attive in determinate circostanze. Questo riguarda le tracce che l'attività psichica lascia nel mondo fisico (o nel lato fisico del mondo, se preferiamo quest'espressione). Dati che possono essere utili e possono anche essere messi in relazione con i dati rilevati dall'interno, ma che possono fornire solo un supporto ausiliario all'osservazione diretta. L'esplorazione diretta è quella che in vari contesti viene chiamata meditazione, ed è un'attività del tutto diversa dalla prassi scientifica corrente, anche se pure in queste attività è possibile usare in qualche misura il metodo scientifico, in particolare nella costruzione di un sistema basato sulle osservazioni fatte. E' probabile che nozioni come i chakra o i meridiani dell'agopuntura siano nati appunto dall'osservazione interiore e dal tentativo di sistematizzazione di queste osservazioni (a prescindere dal credito che si voglia dare a queste nozioni e ai sistemi di cui fanno parte). Sono convinto che ci sia molto da fare in questo senso, e che la psicologia manchi di concretezza perché sostanzialmente manca la pratica sistematica dell'osservazione diretta e la sistematizzazione delle informazioni ricavate da essa. Tutto è in genere fondato su assiomi indimostrati o su misurazioni degli effetti fisici e misurabili dell'attività psichica, che però forniscono solo informazioni indirette e marginali.

Citazione di: Ipazia
CitazioneQuindi non posso che dissentire totalmente: da un punto di vista ontologico la scienza è autoreferenziale. Può fornire informazioni utili alla speculazione ontologica, ma non può sostituirla in alcun modo.

Dire "referenziale" non significa nulla se non si delimita il campo di esistenza del referente. Anche la filosofia è autoreferenziale. Il suo problema è che ha dovuto cedere sovranità sul suo campo applicativo che, come dicevo sopra, rimane comunque importante nel manipolare quelle scatole nere ontologiche di cui la scienza non si è (ancora) impossessata. E su alcune forse non lo farà mai.
Dicendo che la scienza è autoreferenziale dal punto di vista dell'ontologia intendevo dire che la scienza, di per sé, non ci dà una mappa della realtà . La mappa la costruisce l'ontologia (filosoficamente intesa) avvalendosi sia della scienza che di altri metodi di conoscenza, mettendo in relazione, come già detto altrove, gli elementi della scienza (in generale del sistema di conoscenza) con gli elementi dell'esperienza (i dati della coscienza).

Citazione di: IpaziaMa non riguardano l'ontologia, bensì la teleologia. La causa finale. E il significato, piuttosto che la natura, delle cose.
Sulla teleologia bisogna innanzitutto notare che la scienza non se ne occupa e che la esclude volutamente dal suo campo d'indagine. Il che va bene finché non si pretende che questa visione diventi norma, come fa Monod nel suo Il caso e la necessità, un vero manifesto del pensiero riduzionista-materialista. Monod sostiene esplicitamente l'esigenza di un'"etica della conoscenza" basata sul "rifiuto sistematico" di considerare ogni chiave interpretativa di stampo teleologico (o teleonomico, come dice lui). Insomma un rifiuto arbitrario e aprioristico che tanto ricorda fenomeni come il razzismo o la caccia alle streghe. A parte il fatto che viene ribaltato il rapporto tra etica e conoscenza (non un'etica basata sulla conoscenza, ma una conoscenza basata su un'etica arbitraria), l'operazione nel suo insieme ricorda i sotterfugi della commedia dell'arte: prima la scienza autolimita il suo ambito di ricerca a tutto ciò che non riguarda cause finali, poi rivendica il monopolio della conoscenza e, dato che ha eliminato per sua scelta le cause finali, pretende che queste spariscano dall'orizzonte della conoscenza nel suo insieme.

Parlando invece di "natura" e "significato"  ho qualche difficoltà a utilizzarli come rappresentanti di "causa in senso stretto" e "causa finale" o semplicemente "fine". Tutto il nostro sistema di conoscenza è basato sui segni. O, come si diceva prima, sulla creazione di modelli che vengono applicati all'esperienza. Ma i modelli sono costruiti con segni e di segni è costituito, in fin dei conti, anche il mondo dell'esperienza. E la "natura" temo che anch'essa non possa che essere costituita da segni. Io, in genere, soprattutto quando le cose si fanno confuse, uso come chiave interpretativa privilegiata l'informazione e i concetti ad essa correlati. Un segno si può considerare come un anello di una catena informativa, un componente di un flusso informativo coerente, individuabile e isolabile. Sia la natura che il significato, usando i tuoi termini, sia la causa che il fine fanno parte di un flusso informativo, ossia di catene di significanti che diventano significati (o che manifestano significati) dopo che sono stati interpretati con l'applicazione di un codice. Ora, la "natura" come la posso intendere? Direi che individuare la natura di qualcosa significa individuare il significante che ha veicolato quel qualcosa come significato. O, più realisticamente, l'insieme di significanti che hanno veicolato l'insieme di significati che hanno formato quel qualcosa (in effetti, in questo contesto bisognerebbe anche inserire il codice e la possibilità di usare diversi codici che determinano significati differenti, ma evitiamo di complicare le cose). Ma quei significanti  che costituiscono la "natura" del nostro qualcosa sono a loro volta significati da qualche altro significante. Quello che distingue la causa dal fine non è la posizione (prima o dopo il nostro qualcosa) nella catena dei significanti-significati, ma il verso del flusso d'informazione. Mentre la causa efficiente determina un effetto senza preoccuparsi delle conseguenze, la causa finale si occupa proprio dalle conseguenze, che sono volute, pianificate, preconcepite, e cerca di determinare una sequenza di cause-effetti che portano ad esistenza quelle conseguenze. Questa inversione è ciò che induce a dire che le cause finali si posizionano temporalmente nel futuro, mentre le cause in senso stretto stanno nel passato o nel presente. Ma quello che sembra mettere maggiormente in difficoltà gli scienziati sembra essere la natura necessariamente psichica della causa finale, dato che non possiamo attribuirgli una realtà fisica e non possiamo prescindere dai concetti di volontà e intenzionalità. Mentre non hanno difficoltà ad ammettere le ripercussioni psichiche dei fenomeni fisici, sono estremamente riluttanti ad ammettere che il mondo psichico sia anch'esso un "mondo delle cause" con pari diritto di quello fisico. E ancora di più ad ammettere che possano esistere principi psichici immanenti all'intera realtà, immanenti come lo sono le forze o interazioni fondamentali e gli altri costituenti basilari del modello fisico. Non mi risulta facile capire questa presa di posizione aprioristica, tanto meno giustificarla, ma così è, a quanto pare. Permane nel mondo scientifico la tendenza ad avere una visione fantasmatica della psiche, qualcosa che non ha vera consistenza, vera "realtà", perché non sarebbe in grado di determinare effetti (a dispetto di ogni evidenza). E quello che costituisce un problema è che c'è una forte tendenza, nel mondo scientifico, a voler imporre questa arbitraria e sostanzialmente irrazionale visione delle cose in tutti gli ambiti del pensiero.

Ipazia

Citazione di: Donalduck il 02 Gennaio 2020, 20:53:37 PM
 
Che le scienze cognitive abbiano qualcosa da dire sul processo di conoscenza non lo metto in dubbio, anche se è tutto da stabilire quanto siano o possano essere effettivamente utili e in quali contesti. Idem per le cosiddette scienze umane. Bisogna comunque precisare che man mano che ci si muove dalle scienze "hard" a quelle "soft", il metodo scientifico empirico-sperimentale-matematico ha sempre meno presa sugli ambiti d'indagine delle scienze stesse, quindi esse risultano tanto più vaghe, imprecise e opinabili quanto più "soft".
 
Comunque, non ho negato tutto questo, parlavo dei fondamenti, che ricadono in ambito filosofico, al di fuori del dominio di qualunque scienza. Tu stessa, mi pare, hai ammesso che l'epistemologia ha un senso e una ragion d'essere e non può essere inglobata nella scienza (cosa che certe tendenze in ambito scientifico rivendicano).
Quello che non mi risulta è che i progressi nelle scienze, in tempi recenti, ossia dopo che la filosofia si è sbarazzata, con l'aiuto della stessa scienza, di pregiudizi e tabù fideistici, abbiano "sottratto terreno" alla filosofia, in particolare all'ontologia-metafisica (che trovo preferibile considerare come un tutt'uno). Sarebbe utile qualche esempio.
 
Non è che la scienza costruisca modelli e la filosofia no, ma in ogni caso bisogna costantemente tener presente la distinzione tra modello e referente del modello, che invece certi scienziati e divulgatori tendono a confondere. Il compito della filosofia della scienza è stabilire le relazioni tra il modello scientifico e il modello esperienziale (o altro modello, eventualmente). In alcuni casi queste relazioni sono pressoché implicite nel modello scientifico stesso. Ad esempio se ho una distanza e una velocità media di un veicolo posso calcolare il tempo di percorrenza (e posso verificarlo sperimentalmente), quindi in questo ambito e a questo fine posso applicare il modello, ossia considerare certi elementi della realtà esperienziale come elementi del modello scientifico. In altri casi, come quelli dei concetti di spazio e tempo, la mappatura è assai più problematica, ci si imbatte in paradossi ed è necessaria una visione più ampia (trascendente) di quella fornita dal modello. E' necessaria, in particolare, anche una profonda riflessione su cosa sia (come viene vissuto, considerato e usato) il referente esperienziale del modello scientifico (ad esempio il tempo esperienziale).

Il guaio per la filosofia è che anche sul fronte della paradossalità di tempo e spazio il là viene dalla scienza, non dalla filosofia. E viene attraverso teorie scientifiche che hanno ottenuto il crisma della verifica sperimentale come la relatività e la quantistica che finiscono col coinvolgere anche il sancta sanctorum dell'ontologia filosofica...
 
CitazioneLa "cosa in sé" non trova posto in questa discussione. Ho già chiarito che considero la ricerca di "fondamenti ultimi" o "realtà ultime" una missione impossibile sia per la scienza che per la filosofia, anche se la ricerca a domande che non avranno mai una risposta definitiva stimola la riflessione e ci aiuta soprattutto a sbarazzarci di credenze infondate, pregiudizi e superficiali luoghi comuni.

... in cui ogni proposizione sulle cose - incluse le proposizioni di carattere filosofico - origina dalle scoperte che su di esse ci vengono dal mondo della ricerca scientifica.
 
CitazioneSe uno scienziato mi venisse a raccontare (come accade che si faccia) che "il tempo non esiste" o il tempo e lo spazio hanno avuto un "inizio" e addirittura mi fornisse approssimativamente la data di nascita, pretendendo di trasferire pari pari questa narrazione dal contesto in cui è nata (la teoria scientifica) al mondo dell'esperienza, gli farei osservare:
1) Che sta sconfinando dal suo ambito scientifico in cui è un esperto, a un ambito filosofico che è, per come la penso, di "pubblico dominio" e di pubblica competenza, in cui ha voce in capitolo, in linea di principio, quanto chiunque altro.
2) Che il concetto di inizio presuppone senza possibilità di elusione un preesistente contesto spaziotemporale, quindi sta dicendo in partenza cose senza senso. Qualsiasi cosa che abbia un inizio sta già in uno spaziotempo. Impossibile definire e dare un senso al concetto di inizio senza appoggiarsi ai concetti di spazio e tempo. Se vuole applicare la teoria al mondo dell'esperienza, dovrà trovare altri concetti e altri termini. Come ad esempio uno spaziotempo che ne contiene un altro. Non che questo concetto non sia problematico, ma almeno permette un possibile aggancio col mondo dell'esperienza, nel quale lo spazio non può avere confini, il tempo non può avere limiti né inferiori (passato) né superiori, il passato non può tornare e neppure possiamo tornare nel passato. Se il tempo e lo spazio della scienza non hanno queste caratteristiche, non si tratta di modificare le concezioni del tempo e dello spazio esperienziale (che sono elementi primari dell'esperienza), ma di stabilire i nessi tra il tempo e lo spazio della fisica e il tempo e lo spazio dell'esperienza. Io direi che lo spaziotempo dell'esperienza si potrebbe configurare come una sorta di metaspaziotempo rispetto a quello della fisica, che ammette una finitezza e regole non compatibili con quelle "incorporate" nella comune percezione-concezione di questi elementi primari. Lo spaziotempo è trattato dalla fisica come una sorta di oggetto, ha una sua "materialità" che non c'è affatto nello spaziotempo dell'esperienza.

Qui i discorso si complica. Il concetto di tempo è questione squisitamente filosofica fin dalle origini del "tempo antropologico", della nostra storia e riflessione su di essa. L'approccio alla funzione "tempo" della fisica e della scienza della natura in generale, è di tipo specialistico, misurabile come dici nel post successivo. Perfezionando il metodo di misura ci si è accorti che tutti i nostri strumenti danno come risultato una variabile dipendente da altre grandezze (massa, velocità) e non una costante come tutta la koinè precedente era convinta. Questo ha avuto ricadute su fisica e metafisica. E come accade ormai costantemente anche in questo caso il là è venuto da una scoperta scientifica. Con esiti addirittura grotteschi quando un esperimento di fisica, affetto da un errore di calcolo legato appunto al tempo relativistico, ha indotto una politicante nazionale a gridare al miracolo del superamento della velocità della luce nell'italico "tunnel" tra Ginevra e Gran Sasso.

Sul tempo antropologico si può lavorare filosoficamente. Basta farsi avanti e dimostrare che esiste pure un'ontologia dell'universo antropologico non  colonizzabile dalla big science. Senza timori reverenziali, che raggiungono l'apice quando si tratta di confutare la montagna pseudoscientifica che assoggetta la funzione tempo (antropologico) ad usum regni nella teologia economica in salsa capitalistica.
 
CitazioneInsomma la scienza non ha e non può avere l'ultima parola sull'applicazione dei concetti della disciplina a quelli dell'esperienza generica, e qualunque scienziato che si esprima in merito sta dismettendo le vesti dello scienziato per indossare quelle del filosofo. C'è invece una preoccupante tendenza, in ambito scientifico, a ritenere di poter sostituire la filosofia con la scienza impadronendosi di tutta la "filiera" del sapere e in sostanza spacciando il suo punto di vista per "il" punto di vista, quello "vero", e non "un" punto di vista, aprendo la strada al pensiero unico fondato su una Scienza divinizzata (che piace tanto anche ai potentati economici e politici, quando non abbiano una religione a cui appoggiarsi per affermare la loro indiscutibile autorità).

Riferendomi a quanto ho detto sopra, la filosofia dovrebbe anche servire a sbufalare la scienza adattata ad interessi di parte. Ma tale è anche interesse della scienza e poichè il martello demolitore delle teodicee scientiste necessita di carburante scientifico non vedo altra alternativa che nella figura del filosofo-scienziato, che conosca vizi e virtù di entrambi gli approcci epistemo/gnoseologici. Di un sapiente di stile antico, che contrasti l'andazzo che segue ...
 
CitazioneUn'altra considerazione che va fatta è che la scienza, come la conoscenza in generale, è ben lontana dall'essere unitaria. E' invece frammentaria e si fatica a mettere in relazione i vari ambiti o addirittura le diverse teorie negli stessi ambiti. Quindi risulta ancora più arduo, da parte della scienza, il compito di attuare questa unificazione, che per ora non riesce ad attuare neppure all'interno delle singole discipline, in tutti gli ambiti che attualmente stanno a notevole distanza tra loro. Soprattutto non si capisce su quali basi e in che modo dovrebbe realizzare questo oneroso compito. Posso ammettere che tale compito possa esser visto (dalla filosofia o al limite anche da una scienza che riesca, modificando sé stessa, a inglobare anche la filosofia) come una lontana meta, ma a sentire certi scienziati si direbbe che siamo a un passo dal trovare la chiave di interpretazione che ci svelerà ogni "segreto dell'esistenza", cosa a mio parere falsissima.

... rendendosi però conto della necessità, quanto dei limiti, anche etici, della specializzazioni entro un mondo del sapere talmente vasto da non potersi evolvere senza competenze specialistiche, corrette filosoficamente almeno fino ad un sapere capace di superare lo stadio infantile del tifo - e ignoranza - da stadio.

Compito evolutivo che richiama pressantemente in scena la figura del filosofo-scienziato.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Ipazia

Citazione di: Donalduck il 03 Gennaio 2020, 13:10:54 PM
La frustrazione è originata da un vizio di fondo: la mania di voler trovare una realtà fondamentale da cui dipendono unidirezionalmente, ossia derivano, tutte le altre realtà (che diventano illusorie). La mania di mettere ogni punto di vista in contrapposizione agli altri, anche quando non c'è nessun necessario conflitto. Che porta a pensare cose come: o esiste il pensiero, l'idea e quindi il mondo fisico è un'illusione, o (esclusivo) esiste la materia e quindi il pensiero, la psiche, la coscienza sono illusioni (o, eufemisticamente e pressapochisticamente parlando, epifenomeni). O nel migliore dei casi: o viene prima il pensiero che poi genera la realtà fisica o viene prima la realtà fisica che genera quella psichica. Cosa impedisce di pensare che entrambe le "realtà" siano su un piano paritario e siano magari due facce di una stessa medaglia? Tutti i monismi si basano sul prevalere di qualcosa su qualcos'altro e sulla negazione del dualismo (o di un qualsiasi pluralismo). E alla fine tutto si basa sul solito tentativo di arrivare ai "fondamenti ultimi" che a me più che altro evoca l'immagine dell'asino e la carota.
Si tratta di una visione delle cose ben radicata nella mentalità della gran maggioranza delle persone, non solo filosofi e scienziati. E anche il concetto ponziopilatesco di proprietà emergente, inventato per far fronte all'evidente sovrapposizione di "piani di realtà" interdipendenti ma ben distinti che si intrecciano nel mondo dell'esperienza senza rinunciare al monismo (che spesso coincide col riduzionismo materialista), resta alquanto lacunoso e privo di contenuto informativo. Lo "stato di realtà" di queste proprietà emergenti, che possono poi formare interi sistemi relativamente indipendenti, rimane indefinito e il problema viene sistematicamente eluso.
Questa esigenza di un ordine gerarchico assoluto, che evoca sia l'assolutismo in politica che il monoteismo in ambito teologico è anche alla base della tendenza imperialista della scienza (di certi settori della comunità scientifica) che vorrebbe fagocitare ogni altra forma di conoscenza, diventando così partner naturale, simbionte, di un potere politico assolutista, come lo è la religione monoteista.

Almeno su questo aspetto la specializzazione e frammentazione del sapere sub specie scientiae sarebbe indicatore di saggezza. Chiamare emergente la vita dalla materia inorganica e l'autocoscienza dalla materia organica non mi pare bassamente "ponziopilatesco", ma l'apposizione di un segno su un confine misterioso di cui nessuno ha saputo dire meglio.

Citazione
Citazione di: Ipazia
...Esiste un coacervo di scienze descrittive che si occupano di fenomeni qualitativi non misurabili. O semimisurabili attraverso algoritmi di tipo logico-probabilistico.
A questo bisogna mettersi d'accordo su cosa si intende per scienza, altrimenti si finisce per inserire tra le scienze anche la critica d'arte, o le arti stesse. Il punto è che solo la misurazione, la quantificazione permette l'uso della matematica e un criterio di verifica sufficientemente univoco e replicabile. E sono questi elementi che consentono in diversi campi alla scienza di rivendicare una superiorità metodologica che si concretizza in superiorità nei risultati rispetto ad altri sistemi di conoscenza. E quanto agli algoritmi probabilistici, bisogna vedere come vengono usati e se il loro uso porta a qualcosa di plausibile e affidabile, o solo a un castello di carte. Il mio parere è che discipline come la psicologia o, per focalizzare meglio un ambito specifico, la psicanalisi, non sono scienze, o sono scienze per modo di dire. Ossia usano anche il metodo scientifico (ma questo può essere vero anche per la più umanistica delle discipline) in qualche caso e in qualche misura, ma non sono affatto fondate su di esso. Sono basate su sistemi teorici in varia misura e in vario modo arbitrari, concepiti nell'immaginazione e non verificabili scientificamente (a meno che non si decida che il fatto che il paziente sia migliorato dimostri che l'impianto teorico è valido, ma questa sarebbe logica da strapazzo).

Si va per tentativi e ogni tanto si azzecca qualche risultato che soddisfa il metodo scientifico (mensurabilità e riproducibilità). In mancanza di meglio funzionano anche gli algoritmi, che combinano dati scientifici in correlazioni probabilistiche. Dalla registrazione dei fatti e affinamento dei parametri talvolta si giunge anche per via algoritmica ad un controllo "scientifico" sulla realtà. Tale metodologia è estendibile anche a discipline come arte, filosofia, storia e scienze umane varie perfezionando lo strumentario ermeneutico...

CitazioneIl mondo psichico può essere esplorato nel modo in cui si esplora quello fisico: osservandolo direttamente e imparando a distinguerne le entità, a individuare le proprietà delle entità e le relazioni tra le entità, e su queste basi descriverne i fenomeni e le relazioni tra fenomeni. Ma questo non va confuso col misurare l'intensità delle correnti elettriche che scorrono attraverso il sistema nervoso o le aree del cervello che risultano più o meno attive in determinate circostanze. Questo riguarda le tracce che l'attività psichica lascia nel mondo fisico (o nel lato fisico del mondo, se preferiamo quest'espressione). Dati che possono essere utili e possono anche essere messi in relazione con i dati rilevati dall'interno, ma che possono fornire solo un supporto ausiliario all'osservazione diretta. L'esplorazione diretta è quella che in vari contesti viene chiamata meditazione, ed è un'attività del tutto diversa dalla prassi scientifica corrente, anche se pure in queste attività è possibile usare in qualche misura il metodo scientifico, in particolare nella costruzione di un sistema basato sulle osservazioni fatte. E' probabile che nozioni come i chakra o i meridiani dell'agopuntura siano nati appunto dall'osservazione interiore e dal tentativo di sistematizzazione di queste osservazioni (a prescindere dal credito che si voglia dare a queste nozioni e ai sistemi di cui fanno parte). Sono convinto che ci sia molto da fare in questo senso, e che la psicologia manchi di concretezza perché sostanzialmente manca la pratica sistematica dell'osservazione diretta e la sistematizzazione delle informazioni ricavate da essa. Tutto è in genere fondato su assiomi indimostrati o su misurazioni degli effetti fisici e misurabili dell'attività psichica, che però forniscono solo informazioni indirette e marginali.

... a cui anche la meditazione e i riscontri intuitivi possono dare un loro contributo. Concordo che osservazione e registrazione dei fatti siano all'origine della conoscenza.

CitazioneDicendo che la scienza è autoreferenziale dal punto di vista dell'ontologia intendevo dire che la scienza, di per sé, non ci dà una mappa della realtà . La mappa la costruisce l'ontologia (filosoficamente intesa) avvalendosi sia della scienza che di altri metodi di conoscenza, mettendo in relazione, come già detto altrove, gli elementi della scienza (in generale del sistema di conoscenza) con gli elementi dell'esperienza (i dati della coscienza).

Possiamo anche chiamare la scienza una metafisica sui generis, filosofia della natura. Così è nata e così si è evoluta mentre piantava le sue bandierine sull'ontologia naturale disvelandone i misteri meglio di qualsiasi metafisica "dualistica" forte, per gran parte dell'universo di cui siamo, inclusa la nostra mente, parte.

CitazioneSulla teleologia bisogna innanzitutto notare che la scienza non se ne occupa e che la esclude volutamente dal suo campo d'indagine. Il che va bene finché non si pretende che questa visione diventi norma, come fa Monod nel suo Il caso e la necessità, un vero manifesto del pensiero riduzionista-materialista. Monod sostiene esplicitamente l'esigenza di un'"etica della conoscenza" basata sul "rifiuto sistematico" di considerare ogni chiave interpretativa di stampo teleologico (o teleonomico, come dice lui). Insomma un rifiuto arbitrario e aprioristico che tanto ricorda fenomeni come il razzismo o la caccia alle streghe. A parte il fatto che viene ribaltato il rapporto tra etica e conoscenza (non un'etica basata sulla conoscenza, ma una conoscenza basata su un'etica arbitraria), l'operazione nel suo insieme ricorda i sotterfugi della commedia dell'arte: prima la scienza autolimita il suo ambito di ricerca a tutto ciò che non riguarda cause finali, poi rivendica il monopolio della conoscenza e, dato che ha eliminato per sua scelta le cause finali, pretende che queste spariscano dall'orizzonte della conoscenza nel suo insieme.

Non ho letto Monod e mi devo fidare di quello che dici, ma condivido la preoccupazione etica e gnoseologica di non subordinare la realtà al principio, tipica di ogni paradigma finalistico. Vizio che ha danneggiato, nei secoli dei secoli, non poco la possibilità di produrre conoscenza. Ogni teleologia naturale si deve guadagnare sul campo della ricerca sperimentale i suoi galloni e pare che qualcosina stia uscendo fuori. Ma qualunque cosa esca la teleologia dell'unico dualismo (debole) evidente: la volontà umana autocosciente, è altra cosa.

CitazioneParlando invece di "natura" e "significato"  ho qualche difficoltà a utilizzarli come rappresentanti di "causa in senso stretto" e "causa finale" o semplicemente "fine". Tutto il nostro sistema di conoscenza è basato sui segni. O, come si diceva prima, sulla creazione di modelli che vengono applicati all'esperienza. Ma i modelli sono costruiti con segni e di segni è costituito, in fin dei conti, anche il mondo dell'esperienza. E la "natura" temo che anch'essa non possa che essere costituita da segni. Io, in genere, soprattutto quando le cose si fanno confuse, uso come chiave interpretativa privilegiata l'informazione e i concetti ad essa correlati. Un segno si può considerare come un anello di una catena informativa, un componente di un flusso informativo coerente, individuabile e isolabile. Sia la natura che il significato, usando i tuoi termini, sia la causa che il fine fanno parte di un flusso informativo, ossia di catene di significanti che diventano significati (o che manifestano significati) dopo che sono stati interpretati con l'applicazione di un codice. Ora, la "natura" come la posso intendere? Direi che individuare la natura di qualcosa significa individuare il significante che ha veicolato quel qualcosa come significato. O, più realisticamente, l'insieme di significanti che hanno veicolato l'insieme di significati che hanno formato quel qualcosa (in effetti, in questo contesto bisognerebbe anche inserire il codice e la possibilità di usare diversi codici che determinano significati differenti, ma evitiamo di complicare le cose). Ma quei significanti  che costituiscono la "natura" del nostro qualcosa sono a loro volta significati da qualche altro significante. Quello che distingue la causa dal fine non è la posizione (prima o dopo il nostro qualcosa) nella catena dei significanti-significati, ma il verso del flusso d'informazione. Mentre la causa efficiente determina un effetto senza preoccuparsi delle conseguenze, la causa finale si occupa proprio dalle conseguenze, che sono volute, pianificate, preconcepite, e cerca di determinare una sequenza di cause-effetti che portano ad esistenza quelle conseguenze. Questa inversione è ciò che induce a dire che le cause finali si posizionano temporalmente nel futuro, mentre le cause in senso stretto stanno nel passato o nel presente.

La scienza della "natura" si occupa di cause efficienti e poi le assembla razionalmente in catene causali finalizzate a risultati tecnici. La mente umana è il medium meta-fisico di tale processo di manipolazione teleologica della realtà naturale. La catena dei segni (significante-significato) è tutta nella nostra mente, ma la sua operatività è rivolta ai referenti naturali alla ricerca delle cause efficienti che li muovono e correlano. Questa operazione a ritroso (inversione), concordo:

CitazioneMa quello che sembra mettere maggiormente in difficoltà gli scienziati sembra essere la natura necessariamente psichica della causa finale, dato che non possiamo attribuirgli una realtà fisica e non possiamo prescindere dai concetti di volontà e intenzionalità. Mentre non hanno difficoltà ad ammettere le ripercussioni psichiche dei fenomeni fisici, sono estremamente riluttanti ad ammettere che il mondo psichico sia anch'esso un "mondo delle cause" con pari diritto di quello fisico. E ancora di più ad ammettere che possano esistere principi psichici immanenti all'intera realtà, immanenti come lo sono le forze o interazioni fondamentali e gli altri costituenti basilari del modello fisico. Non mi risulta facile capire questa presa di posizione aprioristica, tanto meno giustificarla, ma così è, a quanto pare. Permane nel mondo scientifico la tendenza ad avere una visione fantasmatica della psiche, qualcosa che non ha vera consistenza, vera "realtà", perché non sarebbe in grado di determinare effetti (a dispetto di ogni evidenza). E quello che costituisce un problema è che c'è una forte tendenza, nel mondo scientifico, a voler imporre questa arbitraria e sostanzialmente irrazionale visione delle cose in tutti gli ambiti del pensiero.

, mette in crisi la dogmatica scientista fino al punto di negare l'evidenza, ovvero tutto un mondo artificiale/tecnologico non previsto dall'evoluzione naturale. Oppure no, ma ancora una volta non possiamo che chiamare in causa il deus ex machina dell'"emergenza" apparentemente dal nulla. Di fronte al cui procedere lo scientista deve quantomeno prendere atto di un sempre maggior grado di libertà dei prodotti evolutivi fino a livelli indeterministici che si sottraggono beffardamente ad ogni tentativo di misura e riproduzione.

Salmo che finirebbe in gloria se le retroazioni di tale libertà non riconducessero inesorabilmente alla causa efficiente (limitata) frustrando quella finale (illimitata). Ma è un gioco talmente bello che vale la pena di giocarlo fino in fondo, nel rispetto dell'avversario (natura) e nel mancato rispetto dei caifa di tutte le religioni sacre o profane.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

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