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Milena Jesenska

Aperto da green demetr, 05 Marzo 2022, 23:47:07 PM

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green demetr

VIENNA
Vienna, 27 dicembre
La cosa migliore è infilarsi sotto il piumino, coprirsi fino alle orec-
chie e non uscire fuori prima che siano finite le feste. Così ho pensato
di trascorrere il Natale! Strano: ciò che a Praga, a Berlino, in qualsiasi
altra città già da mesi avrebbe assunto le dimensioni di una catastrofe,
ciò che altrove provocherebbe cori di proteste, dimostrazioni e forse
persino una rivoluzione – a Vienna lo si sopporta tranquillamente, con
una rassegnazione ottusa quanto piena di spirito. Basta che un viennese
apra la bocca per parlare che la sua lingua si prende gioco di lui; persino
quando impreca, minaccia o dà sfogo alla sua collera le parole rotolano
in modo così spassoso giù dalle sue labbra che è impossibile prenderlo
sul serio.
Non ci sono combustibili, né carbone né legna né coke. I treni non
circolano per l'intero paese, le fabbriche si fermano ogni momento, i
negozi chiudono alle cinque e, a partire dalle venti, ristoranti e caffè
sono illuminati soltanto dalla luce vacillante di piccole lampade a car-
buro. Si dice che presto verrà tolta la corrente ai privati e saremo quindi
costretti a far uso di candele, che peraltro sono introvabili. Per riscaldar-
si non c'è niente, da mangiare non c'è niente. A migliaia si recano ogni
giorno nel Wienerwald in cerca di legna e portano a casa rami bagnati
che, una volta nella stufa, cuociono letteralmente e non danno alcun
calore. Ai capolinea dei tram nelle zone di periferia schiere di persone
con borse, sacchi e zaini pieni di legna attendono pazientemente; don-
ne, vecchi e bambini, sotto carichi pesanti. Nell'oscurità questa massa
di gente ha un aspetto grottesco, terrificante persino, come un bosco
che si agita misteriosamente. Sotto i loro fardelli gli uomini si scorgono
appena. Uno dopo l'altro, si pigiano tutti dentro il tram, pazienti come
buoi, le mani irrigidite dal freddo, le ossa rotte; il conducente sopporta
con uguale pazienza le botte e gli spintoni che gli arrivano per via dei
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rami portati a spalla. Dopo due minuti la vettura sembra stracolma di
legna. Naturalmente, per tutto il tempo, si grida, s'inveisce, ci si adira,
si reclama; ma non è niente di grave, niente di serio, il tono è quello di
buoni vicini di casa, inoffensivo, ingenuo, smorzato – si ha l'impressio-
ne che non si tratti di vere e proprie proteste ma soltanto dell'accompa-
gnamento verbale di un rito quotidiano, come quando si canta durante
il lavoro per sbrigarlo con più allegria.
L'altra metà della popolazione rivende questa legna. A due corone il
chilo. Alle stazioni si vedono giovani con carretti e sacchi. Carri carichi
di legna passano per le strade. Se volete riscaldarvi non dovete far altro
che scendere per strada, fermare il primo carretto che incontrate, tirare
un po' sul prezzo e pagare, pagare. Beninteso la legna non è né spacca-
ta né tagliata. Per farla tagliare dovete pagare ancora una volta. Per il
trasporto a domicilio dovete pagare di nuovo. Prima che la legna sia
arrivata a casa vostra si è ridotta della metà. Poi dovete dare una buona
mancia, offrire un bicchiere di vino, stringere la mano al brav'uomo e
ringraziare. E dirvi contenti di avere almeno un po' di legna.
Per mangiare le cose stanno allo stesso modo. La razione settima-
nale è sufficiente – quanto a qualità e quantità – per un unico misero
pasto, persino alla persona più parsimoniosa. Una pagnotta a testa e,
benché abbia già alle spalle due anni di scuola di miseria qui a Vien-
na, non sono ancora riuscita a mandare giù questo giallognolo, duro,
vecchio, ammuffito «dono di Dio». Non resta che procurarsi del cibo
al mercato nero, che qui prospera come in nessun altro luogo. Nella
parte bassa della città ci sono negozi che espongono in vetrina soltanto
un paio di mele e qualche carruba – giusto per salvare le apparenze. Il
banco è vuoto, ceste e barili sono vuoti, eppure il negozio è pieno di
persone. Queste persone, però, non si avvicinano al banco, come si fa
di solito in un negozio, per dire: Mi dia questo o quell'altro! No, esse
sussurrano qualcosa al venditore, questi risponde a sua volta sussurran-
do, poi va a prendere un pacchetto, riscuote la somma già pronta, e il
cliente si allontana. Qui non c'è niente per gli estranei. Le persone co-
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nosciute vi trovano invece liquori, vino, cioccolata, carne, prosciutto,
polli, salumi, tutto quel che vogliono. Ma non domandate il prezzo!
Prendete il pacchetto, il prezzo vi viene sussurrato all'orecchio, pagate
e guardate di sparire alla svelta.
Non molto tempo fa mi misi in cerca di pane. Feci il giro di tutti i
negozianti, fornai, lattai, camerieri – inutilmente. Allora una donna mi
consigliò di andare al mercato del pane al Gürtel. All'indirizzo indi-
catomi trovo una piccola taverna talmente satura di fumo che riesco a
malapena a scorgere qualcosa. Il locale è pieno di gente. Tutti stanno in
piedi, tutti vanno e vengono, tutti parlano, gridano, mercanteggiano.
Qui c'è di tutto. Pane – ma non vi dico che pane! Una pagnotta male-
odorante, ammuffita a 50 corone! Farina a 50 corone il chilo, riso a 80
corone il chilo, uova a 8 corone l'una, candele a 8 corone, burro a 200
corone il chilo, carne il cui prezzo oscilla fra le 150 e le 250 corone il
chilo, persino oche a 1000 corone! Carbone, legna, prodotti alimentari,
stoffe, tutto a prezzi folli. E la cosa più stupefacente è questa: quelli che
vendono qui sono tutti, senza eccezione, operai. Mi fermai al centro del
locale, sbigottita alla vista del mondo capovolto, non una ma tre volte
capovolto, al punto che non si capiva più quali fossero il sopra e il sotto.
Dovunque, su tutti i giornali, in tutte le riunioni, in tutte le conferenze
non si fa che parlare della classe operaia. Tutti invocano aiuti, aiuti per
il proletariato, per i bambini rachitici stipati in cinque, in otto in una
stanza a due letti, aiuti per le donne costrette a prostituirsi per fame.
E tutti – quasi tutti – siamo d'accordo, pieni di entusiasmo, disponi-
bili; ed ecco qui operai con le tasche ben fornite, che vendono merci
molto richieste a prezzi altissimi, scandalosi; sono centinaia, migliaia,
e in loro non si riscontra la minima traccia di miseria. Hanno pellicce,
buone scarpe, tempo libero, denaro. Io conosco varie famiglie, fra cui
una composta da tredici persone. Nelle loro tre stanze riscaldate ogni
giorno fa molto più caldo che nella mia unica stanza e da loro non si
porterebbe mai in tavola quello che cucino io – semplicemente perché
non si accontenterebbero! A colazione bevono caffelatte e mangiano
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panini bianchi, e tutti e tredici hanno facce rosse e piene, non un se-
gno di denutrizione. La classe operaia viennese non se la passa male,
nient'affatto male. Meglio così, s'intende! La vita è molto più dura per
i funzionari statali, per quelli che hanno famiglie numerose e stipendi
da fame, gli impiegati delle poste, ecc. – è fra loro che si trova forse la
miseria più nera, anche se non si vede! Poi tutti coloro che non sono
operai, le vedove, gli invalidi, gli spazzini, i postini, i piccoli artigiani –
queste famiglie dei quartieri di Favoriten e Ottakring vegetano davvero
nelle loro topaie piene di muffa, dove si vedono stracci appesi alle cor-
de per il bucato! Qui la miseria si manifesta nella sua forma più cruda.
Contemporaneamente, a Vienna, ci sono quindici teatri che ogni sera,
nonostante i prezzi proibitivi, registrano il tutto esaurito. (Un palco per
la première di «La donna senz'ombra» di Strauss costa 1000 corone;
all'Opera, per un posto nelle prime file della platea allo spettacolo più
insignificante si pagano 60 corone). Venti cabaret, venti bar, un mucchio
di ristoranti in cui non è possibile mangiare con meno di 200 corone,
tutti pieni. Chiassose réclame di luoghi di divertimento di ogni genere
invadono le strade. Cinema e caffè stracolmi, praticamente in ogni stra-
da. I negozi di moda della Kartnerstrasse zeppi di gente. Pellicce, abiti,
stoffe, cappelli, scarpe. Un paio di scarpe 1200 corone! Prezzi sbalordi-
tivi per biancheria, confezioni e guanti. Eppure si continua a comprare
con sempre maggiore frenesia e avidità. Ci sono persone per le quali
niente è abbastanza costoso, moderno e nuovo. Vienna si dà ai bagordi,
Vienna balla, Vienna si diverte, Vienna canta e suona valzer e operette
più assurde che mai. E la stessa Vienna che lentamente si spenge, muore
soffocata dalle commissioni per le riparazioni dei danni di guerra, e i
suoi dirigenti politici viaggiano per tutto il mondo per chiedere aiuti. I
treni non camminano, alla popolazione mancano pane, farina e patate,
posta, telefono e telegrafo funzionano soltanto a fatica e con incredibile
lentezza, negli ospedali e nelle cliniche c'è solo biancheria logora per i
malati, e nelle prigioni i poveri criminali gridano così forte per la fame e
il freddo che gli abitanti delle case vicine non riescono a dormire!
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Nello stesso tempo ci sono locali e sale da gioco aperti fino al matti-
no dove si possono guadagnare delle fortune, e alla borsa si fanno affari
straordinari speculando sulle valute. Mille corone non significano nien-
te per un commerciante, un parvenu, un restauratore, il proprietario di
un caffè, un acquirente e neppure per un ladro. Con mille corone si
comprano una camicetta, un paio di scarpe, cinque chili di strutto. Solo
un anno fa con un migliaio di corone si poteva andare avanti per un
mese. Oggi non bastano per una settimana.
Vienna è folle – oppure è il mondo ad essere folle? Vienna vive il
crepuscolo della sua grandezza, a tenerla ancora in vita è la sua vecchia
tradizione di grande città, il fatto che qui tutto esiste già da prima; che
edifici pubblici, hotels, ristoranti, bar e teatri sono già costruiti, che l'in-
tero meccanismo funziona anche quando gira a vuoto. La vita più dura
però è quella che facciamo noi cechi. La nostra patria è in Boemia, e qui
siamo costretti oltretutto a farci carico dei problemi altrui, senza che
i nostri possano venirci minimamente in aiuto! Non sarebbe possibi-
le aprire un poco le frontiere per gli appartenenti alla repubblica ceca,
consentire la corrispondenza e gli scambi fra i due paesi? Per le feste
natalizie non abbiamo potuto ricevere nemmeno un pezzo di torta o
un pugno di farina dalle nostre famiglie. Per questo motivo non mi è
restato altro che trascorrere il Natale sotto il mio piumino dormendo
come una marmotta.
(M.P., «Tribuna», 30 dicembre 1919)

Vai avanti tu che mi vien da ridere