L’uomo secondo Tolstoj

Aperto da Jacopus, 11 Marzo 2023, 22:15:43 PM

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Jacopus

Non sapevo bene in quale sezione piazzare questa discussione. Alla fine potrebbe andare bene qui. Fatto sta che la frase di Tolstoj che segue è splendida.

 "Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità definite, che ci sia l'uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico, eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, più spesso energico che apatico, e viceversa: ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente, e di un altro che è cattivo, o stupido. E invece è sempre così che distinguiamo le persone. Ed è sbagliato. Gli uomini sono come i fiumi: l'acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso". Tolstoj dal romanzo Resurrezione.

Aggiungerei che "in germe", ogni uomo reca in sè anche tutti i vizi umani, oltre alle qualità, ma anche questo era sotto inteso nel discorso di Tolstoj.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

Con tutto il rispetto per il grande scrittore, mi pare una notte in cui tutte le vacche sono nere. Se fosse realmente così sarebbe la fine della psicologia e di tutte le sfumature etiche, intellettuali, artistiche, caratteriali, che ci rendono così diversi gli uni dagli altri.

Tolstoi stesso è la negazione di questo frammento. Beccato in un momento di universalistica benignità. Gaglioffa come il giullare buonista e falso: Benigni.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

iano

Si potrebbe ipotizzare che ciò che Tolstoy chiama superstizione sia una necessità sociale, cioè quella di etichettare ed essere etichettati, posto che i rapporti sociali possono essere causa di rieticchettature approfondendo la conoscenza. La cosa strana è che oltre ad etichettare gli altri, ci autoetichettiamo di solito come buoni, intelligenti etc..
Insomma, a parte lo sbilanciamento sospetto dell'autogiuduzio, non dimostriamo di conoscere noi stessi più degli altri, ma semmai il contrario.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Jacopus

Benigni e Tolstoj sono due mondi completamente diversi. Pensare che in noi non c'è nulla in "germe" di ciò che c'è nel peggior perverso come nel miglior santo, non è il mondo delle vacche nere ma il mondo della paranoia, nel quale scindiamo l'altro che diventa l'inferno. Credo che nella frase di T. si riesca a mediare fra ciò che è differente fra di noi e ciò che è uguale, disinnescando così il vecchio discorso da emisfero sinistro della divisione del mondo in "buoni e cattivi", gioco preferito di ogni totalitarismo, religioso e non. Che poi questo non si traduca in "volemose bene", sta alla capacità della società che interiorizza il messaggio di Tolstoj, in modo tale da non considerarlo un alibi alla "così fan tutti". Il messaggio di Tolstoj mi sembra ben più profondo.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

In epoca di lombrosate e razzismi vari era certamente un messaggio mirato. Ma non è riutilizzabile tal quale  in un'epoca di omologazione tecnoscientifica e puntini rossi politicamente corretti come la nostra. Seguire lo spirito dei tempi con una  bussola ermenautica tarata garantisce una buona navigazione filosofica.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

In realtà, Ipazia, la concezione di volersi sentire assolutamente diversi dagli altri, anche in chiave dissidente, non è affatto nuova. La applicarono con più o meno fortuna, tutti i popoli della terra, le classi della terra, le razze (?) della terra. Fu necessario lo stoicismo e poi di seguito il cristianesimo e l'illuminismo a creare le premesse della frase di Tolstoj. Si può adottare una visione paranoidea della purezza noi/loro, oppure quella dell'unus ego et multi in me. La prima spesso porta a tragici versamenti di sangue, la seconda a possibili manipolazioni ipocrite o lassiste ma anche all'accettazione di doverci aiutare l'un l'altro, perché l'altro è sempre parte di una storia collettiva, filogenetica ed ontogenetica. Nel primo caso invece esiste solo un rigido disprezzo, con le più diverse giustificazioni.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

La pluralità non implica ostilità.  Il genio non odia lo stupido, più spesso accade il contrario. La notte delle vacche nere è la koinè propria della morale da schiavi, fondata sull'orrore della diversità,  sul feticismo dell'omologazione. La morale del signore (dello spirito, non del denaro) è aperta verso le alterità che sappiano elevarsi ad un livello decente di humanitas, il cui contrassegno indelebile è la libertà di pensiero e di azione conseguente.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

Tolstoj non promuove certo "il feticismo dell' omologazione", ma sottolinea uno strato radicale di uguaglianza fra gli uomini, pur nelle loro diversità. Accogliere unicità e vicinanza fra gli uomini e le donne è un compito contrario sia all'omologazione che al disprezzo dell'alteritá. Per quanto essa, alteritá, ci sembri distante e degna appunto di biasimo, discende sempre da una storia collettiva che ci riguarda tutti. Accogliere in modo completo questo messaggio cambierebbe il nostro stesso stare al mondo.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Jacopus

Sempre sulla stessa linea, Wislawa Symborska, la mia poetessa per eccellenza, scrisse:
"Senti come mi batte forte il tuo cuore".
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

La poesia e la letteratura possono permettersi di fare i conti senza l'oste. Possiamo permettercelo anche noi, nella scrittura del nostro romanzo quotidiano dentro l'oasi che ci siamo realizzata.

Ma quando si esce nella realtà todo cambia. E bisogna inventarsi romanzi diversi, adatti alla sopravvivenza materiale e spirituale. 
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

#10
In realtà è proprio l'abbandono della poesia e della letteratura come verità ultima, che ci ha condotto nel dominio della tecnica. Ben saprai l'opposizione di Jorge nel "Nome della rosa" affinchè non si scopra il libro di Aristotele sulla satira e il teatro. Anche Platone, l'iniziatore della tradizione tecnica nel pensiero occidentale, era contrario alla letteratura e alla poesia, perchè foriera di passione. Ma solo la poesia e l'arte hanno la capacità di ricollegare l'uomo alla terra. La tecnica invece li separa, poichè la terra diventa uno strumento ed oggi siamo arrivati al punto di concepire l'uomo come strumento esso stesso al servizio di valori astratti (il sistema, il denaro, l'organizzazione). E tutto questo è accaduto dimenticando il valore etico della poesia e dell'arte in generale. L'arte non pesa e non classifica, l'arte fa intuire e connette, l'arte riflette su ciò che è antinomicamente parte della vita, senza sperare in una soluzione (tecnica) definitiva. La privatizzazione della fruizione dell'arte è un'altra vittoria del pensiero capitalistico a differenza di quanto accadeva nell'antica Grecia, allorquando le tragedie erano un momento culminante dell'idea di unione fra tutti i cittadini (vabbè poi c'erano gli schiavi, ma quello è un altro discorso).
La similitudine di intenzione di Jorge (padre domenicano, frutto di finzione ma che rappresenta bene il mondo medioevale) e di Platone mi fanno ulteriormente pensare che il processo di fuga dall'arte come "verità che unisce" è stato un processo molto profondo nella storia culturale dell'uomo, che oggi sta disastrosamente trionfando.
PS: l'opposizione di Platone all'arte è una opposizione nel processo di creazione della politica ovviamente, non un discorso estetico. Ma quello su cui si dovrebbe riflettere è proprio il valore politico dell'arte, come processo di connessione fra i viventi.
PS2: mi viene in mente anche il ruolo unificatore fra l'umanità dei grandi artisti. Come possiamo odiare il popolo russo o comunista o quello tedesco o nazista, quando sappiamo che russi sono stati Dostoevskij, Stravinskij, Goethe, Beethoven?
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

bobmax

Benigni è sincero.
Lo prova la tensione che traspare nel suo dire. Una tensione che rasenta il rischio della depressione.

Un rischio consapevole che solo la sincerità sa prendersi.
E appunto perché sincero, suscita molte avversità.
Vi è infatti chi odia visceralmente la verità.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.