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Labor

Aperto da doxa, 07 Ottobre 2023, 18:12:12 PM

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"E Dio vide ogni cosa che aveva fatto, ed ecco, era molto buona. E la sera e il mattino erano il sesto giorno" (Genesi 1, 31).
"Così i cieli e la terra erano finiti, e tutto l'esercito di loro. Allora Elohim  nel settimo giorno  terminò il lavoro che aveva compiuto e si riposò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso  si era riposato da ogni lavoro che  aveva creato e fatto" (Genesi 2, 1 – 3).
 
 Egli "creò" il cielo e la terra, ma subito dopo, non sapendo che farsene, "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino dell'Eden perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gn 2, 15). Adesso mi è chiaro perché il Dominus creò l'homo faber: gli serviva la manodopera dedita all'agricoltura.
 
 Non basta, "E il Signore Dio disse: 'Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile'. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile". Adam come homo technicus impose il nome agli animali, in cambio il dominus creò Eva per dargli compagnia, soprattutto nel lavoro dei campi. (Gn 2, 18 – 20)
 
 Si configurano, così, questioni come il linguaggio, la proprietà, il tempo, lo spazio, la morte, la deformazione del lavoro in fatica.
 
 Per di più nel terzo capitolo della Genesi, quello del "peccato originale", c'è la distorsione dell'ordine divino nell'Eden, descritto nel secondo capitolo.
 
 "... maledetto sia il suolo per causa tua ! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai" (Gn 3 , 17 – 19)
 
 Eppure Adam non gli aveva chiesto di nascere. Il Dominus (nella sua infinità bontà e amore ?) egoisticamente lo creò per farlo lavorare nella sua grande "tenuta agricola" denominata "Eden". La sua ira funesta costrinse quel povero uomo e la sua compagna, Eva, a mangiare "spine, cardi ed erba campestre".
 
 Comunque, anche in questa dimensione di dura fatica, il lavoro ha un aspetto costruttivo: produttività, procreazione, cultura.
 
 Due verbi ebraici classificano il lavoro: "abad" e "shamar" (= coltivare e custodire), di per sé sono i termini religiosi della pratica dell'alleanza tra Israele e Dio, col significato di "servire" (culto) e "osservare" (la legge divina).

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 "Lavorare stanca" è il titolo della raccolta di poesie dello scrittore Cesare Pavese, pubblicata nel 1936. Nella terza sezione ci sono 19 testi che evidenziano l'ideologia e l'impegno politico dell'autore, che descrive la fatica quotidiana dei contadini e degli operai:
 
 
"I lavori cominciano all'alba. Ma noi cominciamo/ un po' prima dell'alba a incontrare noi stessi/ nella gente che va per la strada... La città ci permette di alzare la testa/ a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo".
 
 Nella poesia "Crepuscolo di sabbiatori" mette in evidenza la fatica e i pensieri che passano nella mente dei sabbiatori per renderla accettabile:
 
"I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti:/ quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente./ ... Nel crepuscolo, il fiume è deserto. I due o tre sabbiatori/ sono scesi con l'acqua alla cintola e scavano il fondo,/ Il gran gelo dell'inguine fiacca e intontisce le schiene".

Un altro scrittore, Primo Levi nel 1978 pubblicò il romanzo "La chiave a stella", in cui racconta le avventure di Tino Faussone, un montatore di gru, strutture metalliche, ponti sospesi, impianti petroliferi.

"Amare il proprio lavoro è, per Faussone, la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono". Un privilegio riservato a pochi, certo, perché la realtà è un'altra e il montatore girovago lo sa bene: prima di partire all'avventura per costruire ovunque, è stato relegato alla catena di montaggio della FIAT.

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 Tre aforismi dedicati al lavoro:
 
 "In fin dei conti il lavoro è ancora il mezzo migliore di far passare la vita" (Gustave Flaubert).
 
 "Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei stare seduto per ore a guardarlo" (ovviamente il lavoro altrui): così ironizzava uno dei protagonisti descritti nel romanzo "Tre uomini in barca (per tacer del cane)" scritto da Jerome K. Jerome e pubblicato nel 1889.
 Risalendo la corrente del fiume Tamigi, i tre amici Jerome ("J." voce narrante), Harris e George, accompagnati dal cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro imbarcazione, sfilando lungo le campagne inglesi dove vivono inattese avventure.
 
 "Eravamo in tre e lavoravamo come un sol uomo: due di noi guardavano". Lo scrisse l'attore comico statunitense Julius Henry Marx, noto con il nome d'arte "Groucho Marx.

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Nella seconda Lettera ai cristiani di Tessalonica, agitati da fremiti apocalittici settari sull'imminente fine del mondo (si consideravano dimissionari nei confronti dei loro impegni professionali e sociali), l'apostolo Paolo li ammonisce e dice loro di continuare a lavorare, invita gli oziosi ad assumersi le loro responsabilità nella vita comunitaria. Inoltre li esorta a lavorare per guadagnarsi il pane. Chi non lavora per il proprio mantenimento diviene un peso per la comunità. L'apostolo li incoraggia all'impegno concreto presentandosi come modello di lavoro anche manuale:

"Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello" (2 Ts 3, 7 – 15).

"Chi non vuol lavorare, neppure mangi" : pochi sanno che questa norma paolina è entrata nella Costituzione sovietica del 1918 e nell'inno popolare Bandiera rossa: "E noi faremo come la Russia: chi non lavora, non mangerà!".
 

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, olio su tela, 1898 – 1901, Galleria d'Arte Moderna di Milano

"Il quarto stato" raffigura un gruppo di braccianti che a Volpedo marcia in segno di protesta in piazza Malaspina. Il lento avanzare del corteo non violento suggerisce la loro vittoria sindacale.

Era intenzione di Pellizza dipingere "una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s'avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov'ella trova equilibrio".

In primo piano ci sono tre persone, due uomini e una donna con un bambino in braccio.

La ragazza che Pellizza dipinse era la moglie, Teresa: è a piedi nudi, e invita con un eloquente gesto i manifestanti a seguirla.

Alla sua destra c'è un "uomo sui 35 anni, fiero, intelligente, lavoratore" ( scrisse Pellizza) che, con una mano nella cintola dei pantaloni e l'altra che regge la giacca appoggiata sulla spalla, procede in avanti. Accanto a lui, un altro uomo che cammina con la giacca poggiata sulla spalla sinistra.

I manifestanti dietro di loro camminano guardando in diverse direzioni. Alcuni poggiano la mano sugli occhi per ripararli dal sole.

Alcuni anni fa sono andato a Volpedo insieme ad altri ed ho avuto la possibilità di vedere la piazza dove è stata ambientata la scena. Una bravissima guida locale ci ha fatto visitare la casa dell'artista e ci ha raccontato la sua dolorosa vita, con l'esito finale del suicidio. S'impiccò nel suo studio artistico a Volpedo il 14 giugno 1907 dopo l'improvvisa morte della moglie alcuni mesi prima.


Veduta aerea di Volpedo, in provincia di Alessandria.

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La filosofa e scrittrice francese Simone Weil (1909 – 1943) scelse di lasciare l'insegnamento per sperimentare il lavoro come operaia. La Weil voleva capire se e come ci potesse essere l'emancipazione della donna tramite il lavoro.


Simone Weil
A Parigi, il 4 dicembre 1934 la venticinquenne insegnante di filosofia venne assunta come manovale nelle fabbriche metallurgiche. Avendo scarsa dimestichezza coi macchinari, più volte subì bruciature e tagli alle mani, patendo l'indifferenza e il licenziamento.
 
 L'esperienza di otto mesi di lavoro nelle officine Alstom, Carnaud e Renault le permisero di scoprire che il lavoro in fabbrica è monotono, oppressivo. L'attività alla catena di montaggio le si rivelò come un modo per abbrutirsi, come subordinazione dell'individuo ai macchinari e non come realizzazione della persona. "Non sono fiera di confessarlo... Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto... Questa situazione fa sì che il pensiero si ritragga".
 
 Di quei mesi scrisse un diario e delle lettere, che confluirono nel suo saggio titolato: "La condizione operaia".
 
 La Weil parteggiava per la classe operaia, frequentava i circoli sindacali già durante il periodo della sua vita dedicato all'insegnamento, s'impose di vivere nelle loro ristrettezze in una specie di comunione spirituale, praticando digiuni, trascorrendo l'inverno senza riscaldamento convinta che anch'essi non lo possedessero (in realtà non era così), organizzava manifestazioni antifasciste che le costarono la segnalazione alle autorità scolastiche e i conseguenti trasferimenti; ospitò per breve tempo il leader comunista antistalinista Trotzkij.
 
 Nel 1938 si avvicinò al misticismo e al cristianesimo, alla parola di Cristo ma non alla Chiesa. Criticò la struttura di potere, l'ambiguità del Vaticano nei confronti del nazismo e del fascismo ed anche la struttura gerarchica della Chiesa.
 
 Nell'autunno del 1941 nuova esperienza di lavoro come operaia agricola nell'azienda del "filosofo contadino" Gustave Thibon, che la assunse nella propria fattoria a Saint-Marcel-d'Ardèche.
 
 La ragazza preferì alloggiare in una casetta semidiroccata. Si nutriva di legumi, cotti col fuoco della legna che raccoglieva nel bosco, beveva l'acqua che attingeva da una vicina sorgente e dormiva in terra. Ogni mattina al suo risveglio recitava il testo greco del "Padre nostro", che aveva imparato a memoria. Scrisse: "Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina [...]. Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d'amore della prima volta in cui mi ha presa".
 
 Malata di tubercolosi, morì nel 1943 all'età di 34 anni.