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La Grotta

Aperto da InVerno, 08 Ottobre 2019, 18:54:22 PM

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InVerno

#285
Nel topic in filosofia ho visto una frase di Phil che mi ha fatto venir voglia di intervenire, però sarei andato OT quindi lo faccio qui

Mi sembra inutile, se si mira ad una prassi concretizzabile, fare i poeti romantici, rimpiangere il baratto o proporre politicamente il reset del globo per  allestire una virtuosa comune autosostenuta.

Rimpiangere il baratto, rimpiangerlo perchè dovrebbe essere la prima forma di economia non valutaria.. almeno questa è la nozione comune, talmente comune che Phil la può usare metaforicamente come iperbole anacronistica (non sto criticando puntigliosamente lui, ben inteso). Penso tuttavia sia una nozione che è il caso di sfidare, e di rivalutare.

Non so precisamente quando sia nata questa nozione, io ricordo di averla trovata in Adam Smith ma è possibile che autori precedenti lo abbiano ipotizzato. Più precedenti sono, più mi sorprenderei. Nella mia esperienza di vita nell'appennino, ho visto diverse forme di economie informali, non sempre le cose hanno un prezzo e sono quantificate, e più indietro si va nelle generazioni più si trovano esempi di come funzionino le cose senza l'aiuto delle valute, e il baratto ha un importanza veramente marginale. Per questo sono abbastanza convinto che Smith avesse avuto ancora più possibilità di me di vedere con i propri occhi come queste cose accadono, eppure avendo solo un martello, tutto gli parve un chiodo. E si può vedere ancora oggi, specialmente nel continente africano, dove spesso vengono  lanciate queste cifre provocatorie di persone che vivono con "un dollaro al giorno" e cose del genere. Spoiler: è impossibile vivere con un dollaro al giorno, gli africani semplicemente hanno una gigantesca porzione della loro economia che non è tracciata tramite valuta. Questo significa che barattano giorno e notte? Non sono un esperto, ma presumerei di no, e il motivo è molto semplice, è tremendamente scomodo ed inefficiente  oltre che ridurre drasticamente la coesione sociale.

Ho fatto delle ricerche più approfondite, ma per questo post mi accontenterò di usare wikipedia che è puntuale.

Tuttavia, nonostante sia radicata la considerazione del baratto come prima fase storica di economia commerciale, non vi è alcuna prova storica, antropologica o etnologica dell'esistenza di una società o di un'economia basate principalmente sul baratto. Al contrario le società non monetarie operavano largamente secondo il principio dell'economia del dono e del debito. Quando di fatto ci s'imbatte nel baratto, si tratta usualmente di scambi tra soggetti completamente estranei o probabili nemici.

E a questo punto potreste chiedervi: ma perchè è importante? E' importante perchè l'idea che gli uomini "primitivi" barattassero è la fondazione di una "teoria antropologica" (meglio economica, ma con importanti riflessi) ovvero quella del cosidetto "homo oeconomicus", l'uomo perfettamente razionale che bada unicamente alle scelte che gli porteranno profitto individuale. Ecco perchè dico che Smith aveva solo un martello e vide solo chiodi. In assenza di soldi, l'uomo razionale alla ricerca del profitto quantificherà le mele e farà un equazione con le pere che vada a suo vantaggio, e nonostante questo fosse stato certamente pratica in uso tra persone che professionalmente commerciavano, è assurdo pensare che fosse la modalità di scambio di intere comunità, quantificazione ed equazione in termini così arbitrari possono solo portare "zizzania" tra persone che forse (ma anche no) troveranno coincidenza nei loro bisogni. Sacrificio e dono, sono invece disinteressati al profitto materiale, si può argomentare che vengano usati per ottenere "credito sociale", ma questo esula immediatamente dalla dimensione individuale del problema.

Un altra ragione per cui questa nozione è importante, è interpretare molte cose del passato. Un esempio semplice potrebbe essere il Vangelo, nel famoso passaggio di Gesù che entra al tempio e rovescia i tavoli dei mercanti. In una visione antropoligicamente "smithiana" il passo praticamente non ha senso, il tempio era da sempre il luogo dove avvenivano determinati scambi di beni pregiati, di che si sta meravigliando Gesù? Presumibilmente, e il cristianesimo non è un eccezione in questo ma la regola, ci troviamo nel punto della storia dove molte economie stavano monetarizzandosi in maniera molto forte, Gesù e altri profeti del cosidetto "periodo assiale" vivono in un contesto fortemente "globalizzato" dove le rotte commerciali si estendono come mai prima d'ora ed i grandi regni battono moneta in maniera mai vista prima.. i "mercanti" in questo caso sono gli "homo oeconomicus"  che stanno desacralizzando il luogo che era destinato precipuamente al dono e al sacrificio "disinteressato". Questa storia però non raccontatela ai devoti protestanti americani, ancora non capiscono il significato dei trenta denari, gli potrebbe esplodere il cervello..

Un altra applicazione di questa nozione sottende quanto sostenuto "da wikipedia" ovvero che il baratto era principalmente usato tra sconosciuti e tra nemici. E ora che viviamo in una cultura totalmente devota al profitto individuale, e la società si sta atomizzando tra sconosciuti e nemici, potrete trarre da voi e vostre conclusioni. C'è una istintuale repulsione verso il profitto come "sterco del demonio" che percorre l'intera società umana, motivo per il quale è normale nella storia vedere che i mercanti sono quasi ubiquamente considerati una delle più infamanti delle professioni, repulsione che sopravvive ancora oggi, con Ipazia che cerca sempre l'argent per trovare la prostituzione intellettuale. E costantemente, allo strabordare del profitto individuale nella società, le popolazioni si ribellano fondando nuove religioni, cercando di ri-legarsi insieme dopo che il profitto li ha divisi.

In conclusione, è assolutamente sbagliato rimpiangere il baratto, perchè è una finzione storica e una perversione ideologica, tuttavia è assolutamente possibile rimpiangere un mondo dove il dono e il sacrificio ricoprano ancora un ruolo determinante nella vita degli individui e delle comunità. Ieri ho portato due bottiglie di vino ad un vicino, non per barattarle o in attesa di un profitto, al massimo se buco una gomma davanti a casa sua spero mi dia una mano, e mi sono realizzato così, perchè più ci avviciniamo all'istintualmente vero, più siamo veramente felici.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

iano

#286
Citazione di: InVerno il 02 Settembre 2023, 13:07:05 PMTuttavia, nonostante sia radicata la considerazione del baratto come prima fase storica di economia commerciale, non vi è alcuna prova storica, antropologica o etnologica dell'esistenza di una società o di un'economia basate principalmente sul baratto. Al contrario le società non monetarie operavano largamente secondo il principio dell'economia del dono e del debito. Quando di fatto ci s'imbatte nel baratto, si tratta usualmente di scambi tra soggetti completamente estranei o probabili nemici.

Hai ragione.

Ho coltivato pomodori per la prima volta quest'anno.
E' andata bene e non immaginavo di ottenere un surplus.
Ho iniziato a regalarli ai vicini perchè non andassero sprecati.
Io, che non avevo mai capito cosa fossero i soldi, credo adesso di averlo capito.
Ho capito cioè che i soldi sono una tappa di un percorso che viene da lontano, e che non c'è miglior modo per comprendere ciò che viene prodotto da un percorso, che anche solo accennare quel percorso, immaginandolo per il resto.

Mi sembra di aver notato però che per innescare le conflittualità non occorra giungere allo step successivo, quello del baratto.
Infatti mi è parso che chi riceve il dono tenda poi a pretenderlo, fino a lamentarsi della qualità del dono successivo, se quella del dono precedente era migliore.
Allargando la prospettiva a partire da questo semplice esempio, se dono qualcosa rischio di innescare una dipendenza economica, che trasformo il dono in un obbligo.

Più in generale il dono penso sia più una scusa per socializzare e il vantaggio, più che aspettarsi ficodindia in cambio di pomodori, sia ogni vantaggio che può derivare dalla socializzazione.
Ma la socializzazione include i conflitti in sè.
Il conflitto cioè è insito nella socializzazione, e il baratto più che generare un conflitto può essere il prodotto di un conflitto che inizia con uno scambio più o meno unilaterale di doni.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Phil

@InVerno 

Ammetto che ho usato la "reductio ad barattum" con superficialità, senza essermi adeguatamente informato in merito; carenza che ti ringrazio di aver colmato fornendo per giunta spunti interessanti.
Un passaggio che mi ha colpito è quello fra la citazione di Wikipedia che parla di «economia del dono e del debito» e le tue successive considerazioni su «dono e sacrificio»; in questa sostituzione di «debito» con «sacrificio», fermo restando il «dono», c'è forse qualcosa di esplicativo sulla matrice da cui provengono le tue riflessioni (ma non sono psicologo né tuo biografo, quindi ora lascio da parte il mittente e mi concentro sul messaggio).
Il debito è categoria economica inaggirabile, non tanto perché la "legge della casa" (eco-nomia) presuppone che i figli siano "in debito" con i genitori che li sfamano e quindi li "ripaghino" (direbbe Smith) prima con obbedienza e poi con cure nella senilità; né perché fra le prime forme di "scrittura sistematica" ci sono appunti cuneiformi sui debiti. Il debito è categoria interpersonale fondamentale perché è anzitutto una forma di rapporto utilitaristico con l'altro, di gestione e condivisione delle risorse, ma anche di bilanciamento della convivenza; a farla breve, è uno dei pilastri del vivere sociale adattativo e non autolesionista (il sacrificio sistematico, a differenza del debito sistematico, è concetto praticato da pochi e direi persino, a suo modo, poco "naturale", in tutti i sensi del termine).
In fondo, il furto è da sempre considerato esecrabile proprio perché non costituisce debito; rubare è un modo, violento o truffaldino, di violare l'economia del debito: si prende, ma non si (ri)dà. Il danno, individuale e sociale, non è tanto il prendere senza permesso, quanto il non (almeno promettere di) restituire, di saldare il debito dovuto all'appropriazione o all'uso di risorse. Tale debito, almeno concettualmente, prescinde dalla materialità della sua estinzione, tramite baratto o denaro, e resta comunque come vincolo, se non altro di servizi o favori di sdebitamento (ed è bene non illudersi che sia solo questione di proprietà privata o meno: se Tizio si prende il mio pollo che stavo allevando con cura e se lo mangia, anche in un mondo in cui è vietata la proprietà privata, tenderei a considerarlo in debito con me di un pollo; salvo accettare di dilettarmi a sfamare polli che sfamano Tizio, senza mai sfamare me stesso...).

InVerno

Citazione di: iano il 02 Settembre 2023, 15:20:40 PMHai ragione.

Ho coltivato pomodori per la prima volta quest'anno.
E' andata bene e non immaginavo di ottenere un surplus.
Ho iniziato a regalarli ai vicini perchè non andassero sprecati.
Io, che non avevo mai capito cosa fossero i soldi, credo adesso di averlo capito.
Ho capito cioè che i soldi sono una tappa di un percorso che viene da lontano, e che non c'è miglior modo per comprendere ciò che viene prodotto da un percorso, che anche solo accennare quel percorso, immaginandolo per il resto.
Ciao Iano, le tue parole mi fanno capire che hai compreso bene ciò che intendevono comunicare, perciò ti aggiungo un dato "provocatorio" se vuoi.. immagina che i pomodori che hai donato all'amico non fossero stati donati ad un amico qualsiasi, ma alla stessa persona che ti ha aiutato mesi prima e ti ha portato le canne per sorreggerli, te le ha donate ovviamente perchè ne aveva un surplus. Tu valuti l'atto singolo, ma devi inserirlo in un "contesto a catena" dove lo scambio di doni avviene costantemente, sei davvero sicuro, tralaltro, che questo amico comincerebbe a pretendere più pomodori, o a lamentarsi della qualità del dono? Penso che questi siano comportamenti tipici di chi i doni è più abituato a riceverli che a contraccambiarli, è normale in una società quasi interamente valutata perchè si tratta di interruzioni non della norma, altrimenti comincerebbe a balenargli il dubbio che l'anno prossimo ti debba dare ancora più canne. Infatti non intendevo dire che senza valute cessa qualsiasi quantificazione dello scambio, perlomeno ad un livello molto generico, i rapporti energetici tra le persone devono rimanere "equilibrati". Ci sono ovviamente i "pirati", o in inglese i "freebooters", che tentano di ricevere il più possibile offrendo nulla o poco, ma questi lo devono fare nell'oscurità e se vengono beccati di solito sono ostracizzati in varie maniere (nelle società sane). Ci sono diverse metodologie per misurare gli "scambi sociali", e solo il sacrificio prevede la totale assenza di "aspettative future" (o perlomeno sono talmente indeterminabili da essere irrilevanti) il dono viene fatto con la consapevolezza di un "credito sociale" che effettivamente verrà riscosso (vedi risposta a Phil), tuttavia essendo inquantificato od inquanticabile, è praticamente impossibile razionalizzare il profitto (meglio due pere o due mele?). Penso che le persone a cui hai donato i pomodori, fossero ben integrati in un contesto di dono e sacrificio, non avrebbero mai preteso un bel niente, ma avrebbero "ringraziato Dio" che gli sono arrivati dei pomodori... infatti nel passato, tendevano particolarmente a "ringraziare Dio" per i pomodori, cioè le dinamiche sociali che gli permettevano di ricevere doni e sacrifici.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

InVerno

Citazione di: Phil il 02 Settembre 2023, 16:46:48 PM@InVerno

Ammetto che ho usato la "reductio ad barattum" con superficialità, senza essermi adeguatamente informato in merito; carenza che ti ringrazio di aver colmato fornendo per giunta spunti interessanti.
Un passaggio che mi ha colpito è quello fra la citazione di Wikipedia che parla di «economia del dono e del debito» e le tue successive considerazioni su «dono e sacrificio»; in questa sostituzione di «debito» con «sacrificio», fermo restando il «dono», c'è forse qualcosa di esplicativo sulla matrice da cui provengono le tue riflessioni (ma non sono psicologo né tuo biografo, quindi ora lascio da parte il mittente e mi concentro sul messaggio).
Ciao Phil, mi fa piacere che hai notato che ho operato quella distinzione, il dono a mio avviso prevede che una delle due parti contragga un "debito", perciò quel binomio descrive una complementarità che a me sembra un pò pleonastica, ho inserito il sacrificio perchè a mio avviso descrive meglio una seconda modalità di cessione delle risorse che non prevede una continuità nel futuro, anzi scoraggia (nascondere la mano) di rendere "futuribile" l'atto, lo pone nell'immediato presente. Perciò non volevo omettere l'importanza del debito, ma aggiungere una diversa modalità della condivisione di risorse anch'essa svolta nei "templi". Se il problema pratico del baratto è l'emergere di una discordanza di bisogni (a me non servono le pere e a te non servono le mele), il dono e il sacrifio permettono già di "valutare" metafisicamente e permettere lo scambio. In termini poveri, sacrificando un maiale al tempio cedi delle risorse alla comunità senza che nessuno entri in debito diretto con te, questo si paleserebbe se avessi donato un maiale ad una specifica persona della comunità.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Ipazia

Citazione di: Phil il 02 Settembre 2023, 16:46:48 PMIn fondo, il furto è da sempre considerato esecrabile proprio perché non costituisce debito; rubare è un modo, violento o truffaldino, di violare l'economia del debito: si prende, ma non si (ri)dà. Il danno, individuale e sociale, non è tanto il prendere senza permesso, quanto il non (almeno promettere di) restituire, di saldare il debito dovuto all'appropriazione o all'uso di risorse. Tale debito, almeno concettualmente, prescinde dalla materialità della sua estinzione, tramite baratto o denaro, e resta comunque come vincolo, se non altro di servizi o favori di sdebitamento (ed è bene non illudersi che sia solo questione di proprietà privata o meno: se Tizio si prende il mio pollo che stavo allevando con cura e se lo mangia, anche in un mondo in cui è vietata la proprietà privata, tenderei a considerarlo in debito con me di un pollo; salvo accettare di dilettarmi a sfamare polli che sfamano Tizio, senza mai sfamare me stesso...).

Poco alla volta ci si avvicina all'essenza della questione. Non tutte le proprietà sono furto, ma alcune lo sono, in quanto si appropriano di beni socialmente ed eticamente inalienabili. Il baratto resta fuori da questa alienazione e, a differenza del furto, anche legalizzato, avviene tra contraenti alla pari.

Lo "sterco del diavolo" è tale in quanto è lo strumento principe di occultamento del furto. In quanto tale ha avuto sempre più fortuna fino alla nostra epoca che ha reso Brenno e la sua spada la norma canonica dell'economia. Da cui ci si salva, almeno l'anima, barattando tra pari.

pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

@InVerno 

Non sono certo di aver capito il ruolo del "tempio", anche se mi pare di intuire sia centrale: se sacrifico un maiale al tempio, magari senza intermediazione sacerdotale (per evitare "bocconi del prete" anche in versione suina), poi qualcuno (non a caso, suppongo) è chiamato a spartire il maiale per la comunità (che è un singolare ingannevole, essendo fatta di timidi e di volponi, di avidi e di altruisti, etc.), oppure intendi che il maiale viene donato, sacrificato e ognuno poi ne dispone "liberamente" (che è per me una parolaccia se abbinata alla gestire di una risorsa cruciale)?

InVerno

Citazione di: Phil il 03 Settembre 2023, 00:05:51 AM@InVerno

Non sono certo di aver capito il ruolo del "tempio", anche se mi pare di intuire sia centrale: se sacrifico un maiale al tempio, magari senza intermediazione sacerdotale (per evitare "bocconi del prete" anche in versione suina), poi qualcuno (non a caso, suppongo) è chiamato a spartire il maiale per la comunità (che è un singolare ingannevole, essendo fatta di timidi e di volponi, di avidi e di altruisti, etc.), oppure intendi che il maiale viene donato, sacrificato e ognuno poi ne dispone "liberamente" (che è per me una parolaccia se abbinata alla gestire di una risorsa cruciale)?
Per "tempio" intendo un luogo (sociale più che fisico) dove i sacrifici vengono ritualizzati, invogliati e gestiti. Non ci sono più "templi", inteso che il sacrificio è inteso per la comunità ma non ha un ritorno atteso, il tempio più imponente che ho visto in giro è il cassonetto della caritas. La "forza" sociale del tempio è quello di distruggere il ritorno atteso, proprio perchè poi il maiale verrà "gestito" da terzi, non porti un maiale al tempio in attesa di diventare il più famoso "donatore" del villaggio .. Mi viene in mente la chiesa vicino a casa mia, che ogni anno stilava una classifica dei donatori più facoltosi e l'affiggeva sulla porta.. questo è la demolizione del tempio. Ma mi viene anche in mente una piccola comunità cristiana che accettava donazioni di oggetti facendoli inserire in un sacco nero dell'immondizia, non solo per comunicare che i beni materiali erano immondizia, ma perchè così nessuno potesse vedere cosa vi metteva chi vi metteva dentro la mano, quel sacco della spazzatura è "più tempio" di tante chiese.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

La metafora del "tempio" porta con sé altre due metafore che mi pare ne rispettino la pertinenza: la "fede" nel dono (fede per molti, ma non per tutti), e il "sacerdote" del tempio, che ne amministra i riti (figura non priva di responsabilità e dunque da eleggere con accurata circospezione).
C'è poi da considerare che il dono è solitamente figlio del surplus, che in quanto tale presuppone la paternità dell'economia del credito/debito, produzione/commercio, vendita/acquisto (o, ostracizzando il denaro, scambio/resa). Nessuno porta al tempio l'unico maiale che ha (e in una società fatta anche di servizi, oltre che di beni, la metafora si complicherebbe ulteriormente, ma non mi ci addentro).
Certamente uno degli innegabili vantaggi delle micro-economie nelle micro-comunità è la "tracciabilità protezionistica" che alimenta la suddetta "fede": se dono un giubbotto, quando poi lo vedo indossato da qualcuno della comunità, lo riconosco e riconosco che il dono non è stato vano (certo, se lo vedo indosso al ricco latifondista del paese, inizio a sospettare della "professionalità" del "sacerdote"). Su alcuni cassonetti di raccolta, almeno dalle mie parti, girano voci spiacevoli, che inevitabilmente mortificano la "fede" del donatore che, nella macro-economia della macro-comunità, già sa che probabilmente non vedrà il suo giubbotto addosso a qualcuno, perché l'"amministratore del tempio" dispone di una rete di distribuzione che va oltre le frequentazioni del donatore. Il dono come sacrificio avulso da un riscontro, secondo me, richiede o molta "fede" o molto surplus, entrambi peculiarità non eccessivamente tipiche della popolazione media.
Forse è proprio questo il nodo centrale: la gran parte dei potenziali donatori, quanto più sa che non troverà riscontro tangibile del suo dono e quanto più sa che il suo dono si disperderà fra mille doni che rallegreranno sconosciuti (estranei alla sua comunità), tanto più ha bisogno dell'incentivo motivazionale di un feedback (magari non necessariamente della gamification, comunque non totalmente ingenua, proposta dal prete con la "top 10" dei donatori, in stile classifica "high scores" del flipper/pinball in sala giochi; non a caso, mi sembra anche l'Avis proponga un'incentivante classifica del genere in base al sangue donato, se non ricordo male). Intendo che, secondo me, si è maggiormente inclini a donare in anonimato per la propria comunità il proprio surplus, tanto più se si è consapevoli del valore relativo-contestuale di ciò che si dona (e si ha pubblico riscontro, non del "merito medagliato" ma dell'effetto del dono), piuttosto che donare al mondo intero una goccia del mare senza ricevere nemmeno un bigliettino di ringraziamento (intendiamoci, c'è chi lo fa, ma in generale non mi sembra una forma economica proponibile sistematicamente). In fondo è lo stesso "movente dell'appartenenza" per cui magari raccogliamo una cartaccia per le strade della nostra comunità, ma quando siamo turisti, non dico siamo i primi a gettarla, ma magari tendiamo a pensare che raccoglierla non ci riguardi più di tanto. Aver cura del mondo come della propria micro-comunità sarebbe uno slogan da "pubblicità progresso" ingenuamente ottimista, che cozza con la constatabile "banalità" della natura umana.
Ben vengano forme di dono e "sacrificio" nelle piccole comunità, ma, proprio come gli equilibri e l'autosostentamento delle comuni, dubito siano scalabili su intere popolazioni (e proprio per questo i "templi" si distinguono come "oasi del sacrificio"); non vorrei dire che la semplicità del dono è sistemicamente costretta a restare sottomessa alle complessità e alle difficoltà delle grandi comunità, ma ormai l'ho già scritto.

InVerno

Si, sono pressochè concorde, non voglio addentrarmi nel, pur importante, fenomeno della corruttibilità dei "sacerdoti", ma perlomeno dopo aver prestato tanta attenzione ai sostantivi riportare l'attenzione sul verbo reggente la tua frase, ovvero "rimpiangere". Quando dico che è possibile (nel senso di lecito, e forse auspicabile) rimpiangere comunità dove doni e sacrifici tornino ad essere centrali, effettivamente mi rendo conto si potrebbe interpretare come fosse una sorta di "iniezione" di una sostanza ormai aliena, e questo effettivamente sarebbe se parlassimo delle forme contestuali dove questi fenomeni avvengono, eppure se ci prestiamo con duttilità a concentrarci sull'obbiettivo e lasciare che le forme si adeguino a nuovi contesti, non penso che si tratti di un utopia tanto distante. Prendi per esempio la cosidetta "filantropia" che va di moda nel pur individualista mondo protestante, siamo sgamati  e sappiamo che queste ricche persone donano principalmente perchè pagare le tasse gli costerebbe di più, però dobbiamo anche tenere conto della pressione sociale che fa si che queste cose accadano, e accadano in una certa maniera e non in un altra. Penso anche che i vantaggi delle "micro comunità" siano molto più estesi di quanto si possa elencare qui, e che un certo "progressismo" tenda a soprassedere su certe limitazioni intrenseche, siamo animali estremamente adattabili, ma questo non significa che non vi sono limiti, c'è un deposito "epigenetico" con cui confrontarci. E' noto per esempio che esiste un "limite" alle connessioni umane significative che riusciamo a mantenere contemporaneamente (circa un centinaio), chiunque sta vivendo in una "macro comunità" in realtà interagisce con un numero "micro" di persone, accede certamente ad una moltitudine di servizi incoparabili rispetto a chi vive in comunità più piccole.... ma non credo che si possa individuare un numero minimo di servizi per il benessere umano, ma c'è un numero minimo di persone con cui si è "costretti" ad interagire se si vuole evitare la depressione e l'autodistruzione. E' un pò il paradosso dei cosidetti "dating sites", in teoria dovevano essere questi meravigliosi servizi che ti permettevano di conoscere un numero "macro" di potenziali partner, ma a conti fatti, abbiamo scoperto che hanno completamente devastato i rapporti tra uomini e donne mettendoli in una competizione di mercato individualistica, e che le persone che vi accedono in realtà diminuiscono drasticamente il numero di potenziali partner rispetto a chi apre la porta ed esce di casa. Stessa cosa vale per le città, sono talmente "macro" dall'essere ormai diventate il simbolo del "massimo micro", ovvero delle persone sole (e sotto antidepressivi). Allo stesso tempo, penso che in realtà questa dicotomia sia falsa, non c'è bisogno di contrapporre micro e macro comunità quando possono, come una matrioska, essere contenuti uno nell'altro, e seguendo il principio di sussidiarietà, anche sentirsi "pienamente" rappresentati. C'è questo interessante neologismo, "glocal", che intende infatti suggerire la possibilità che si può coniugare una vita micro con una società macro, specialmente grazie ad internet. Comunque si, se volete non chiudere la porta di casa a chiave quando uscite dovete spostarvi in una micro comunità, non c'è modo di "iniettare" certe cose in contesti che non le contengono.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Riprendendo la tua ultima considerazione, direi che sfondi una porta mai nemmeno montata se evidenzi i limiti sociali quantitativi dell'uomo, ricordando che la sua cerchia di "branco relazionale" non può mai essere esteso come una macro-comunità urbana e anche se può agevolmente videochiamare in Giappone, avere followers in Sudafrica e collaborare in smart working con la Norvegia, alla fine dei conti le persone con cui interagisce direttamente e significativamente, saranno al massimo un centinaio. Magari è una micro-comunità delocalizzata in ogni continente, una "comunità touchless" (a prova di Covid, se mi passi la battutaccia), che non si è mai toccata e per i compleanni condivide spumante e torte solo con le emoticons, ricca di dialogo interculturale e proficui scambi di vedute, ma alla fine, come dice il saggio, «cento vale cento» e cento non è una macro-comunità.
Questo per me è il limite delle dinamiche, come il dono o il sacrificio, che sono "condannate" dalla loro "natura" a non poter diventare veramente politiche, restando "solamente" morali nel giudizio altrui e piuttosto individuali nella pratica (il che comprende anche fenomeni come la filantropia, l'eroismo, etc.): quanto più la polis è estesa, tanto più elevare a legge la consuetudine della micro-comunità è secondo me fallimentare, per limiti non spaziali, né temporali, né tecnologici, bensì antropologici (il suddetto relazionarsi "a base cento", con il 101mo che è già meno significativo in quanto "borderline" della nostra "comunità affettiva"; d'altronde, come recita più o meno l'antico adagio, «templi e maiali dei paesi natali», anche se tale "paese" è dislocato nel "villaggio globale").
Ha senso rimpiangere la micro-comunità con i suoi vantaggi (non che sia priva di difetti, ovviamente), ma ne ha molto meno proporla come modello politico (quindi non solamente come buon esempio) scalabile per macro-comunità. La mia osservazione era derivata (in tutti i sensi) da quella di Gramsci che parlava infatti di «tutta la società»(cit.), intendendola come macro-comunità, da cui il mio ritenere insensato rimpiangere il baratto anche se, come mi hai giustamente segnalato, non può davvero esser rimpianto non essendo mai stato forma egemonica (almeno non da quello che possiamo verificare; il che, a pensarci bene, sarebbe perfettamente compatibile con l'egemonia del baratto, soprattutto se inteso in modo "asincrono"; tuttavia non voglio competere con gli storici; ubi maior minor cessat).

Ipazia

Noto, al contrario di phil, una fuga dalle metropoli e una crescente attrazione verso microcomunità in rotta di collisione con l'omologazione metropolitana. Anche questa è politica, con una componente antagonistica non sottovalutabile, capace pure di pensare con la testa propria una volta realizzato il progetto e azzerato il rumore di fondo mainstream.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

InVerno

Prima di introdurre i likes sul forum avevo qualche preoccupazione che lo strumento avrebbe pervertito il forum in una gara di popolarità, non un forte dubbio perchè il contesto su cui è applicato mi sembra comunque "salvo" da queste degenerazioni, ma sarebbe stato un peccato se fosse accaduto, invece toglie molto lavoro alla moderazione che doveva costantemente cancellare messaggi con scritto semplicemente "sono d'accordo" senza aggiungere altro, perciò beccatevi un like!
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Recentemente è stata "collaudata" la versione vinicola dell'"affare Sokal":
https://www.open.online/2023/09/08/belgio-scherzo-trasmissione-tv-vino-supermercato-vince-premio-internazionale/
Premiazione che trova conferma nel sito ufficiale; come vana attenuante si sarebbe potuta giocare almeno la carta dell'omonimia. C'è abbastanza grottesco o sono off topic?

InVerno

#299
No no, non ti preoccupare della grotta, anche perchè il secondo significato era platonico, quindi vediamo di uscire dalle ombre di questa vicenda, che casca a fagiuolo per diversi motivi, compreso che domani farò la mia vendemmia, quindi grazie per averla linkata.

Innanzitutto per ristorare un pò di fede nei sommelier, non tutti, ma almeno nella professione in sé, ti linko questo
https://www.youtube.com/watch?v=w4RakOEZpMQ

Poi ti propongo una spiegazione razionale a queste "confusioni", non nuove, che principalmente ha a che fare con la commodificazione del vino. Il prezzo sull'etichetta di un vino a che fare con decine di fattori, ma se prendiamo un vino non particolarmente inflazionato da fattori di mercato (ricercatezza, rarità, apprezzatura, concorsi etc) ci troviamo principalmente con due variabili: l'uva e la cantina (cantina=processi di produzione). Ci sono uve che costano più delle altre, alcune anche moltissimo, ma in generale, al di là della quantificazione dei prezzi, a livello percettivo, culturale, di marketing etc.. la cantina ha un peso fortissimo sul prezzo, il nome stesso del vino e sull'etichetta è legato principalmente al produttore, l'uva scompare, e richiede (giustamente) che ad una maggiore sofisticazione della produzione corrisponde un maggior prezzo di etichetta.

La mia domanda molto semplice è: e se l'uva che è finita nella bottiglia da 2,50€ era buona..? Molto buona? Anche se la cantina che l'ha prodotto l'ha schiacciato coi piedi del figlio del proprietario e l'ha filtrato con delle lenzuola strappate, e anche se durante la coltivazione sono state fatte pochissime lavorazioni ed è costata quasi niente al cantiniere.. e se l'uva era buona? Siamo davvero così sicuri di quanta importanza diamo al capitalista, anzichè alla natura? E quanto questi sommelier sono instrumentali a mantenere in piedi una ideologia gonfia prezzi, anzichè a dirci quale vino è buono, che è una questione soggettiva?

Questo mi rimanda a ciò che diceva spesso chi mi ha insegnato a fare il vino, cioè mio nonno, che ogni volta che qualcuno gli proponeva del vino commerciale lo rifiutava, portava la sua bottiglia sul tavolo e orgoglioso e giulivo se ne usciva dicendo "questo vino è fatto d'uva" che almeno immediatamente può sembrare lapalissiano, ma che in realtà intende una forte confindenza nella qualità delle materie prime anzichè sui metodi di produzione, non avrebbe mai detto, per quanto altrettanto lapassiano potrebbe sembrare "questo vino è fatto in cantina".

E non vorrei sembrare campanilistico, ma tutta questa attenzione sullo chateu de brian du maison della coté, è molto francese e molto poco italiano a mio avviso, e noi italiani dovremmo respingere questa capitalizzazione della produzione. Lo si ravvisa anche nella cucina, non esistono ricette italiane tradizionali con centociquanta ingredienti di cui metà esotici che attraversano dodici fasi di lavorazione con il nome dello chef stampato sul piatto, sono spesso cinque o sei ingredienti, lo chef ha i baffi sporchi di panna e ha spadellato due minuti. O almeno era così, prima che la guida Michelin (ma guarda te che caso) decidesse di far decidere agli "accademici del gusto" chi fosse lo chef star più bello del bigoncio. Ovviamente, la cucina francese nasce con Caterina de Medici alla corte di Francia, la cucina italiana nasce grattando le padelle.

Quindi è un pò di tempo che sto condensando una mia "filosofia del vino" (ciao salutisti) e fare una sorta di manifesto anche per presentarlo a chi dovrei venderlo, e ho deciso che farò una bella colonna intitolata "le tecniche vinicole che non utilizzo" e vi metterò elencate tutte le tecniche che riesco a reperire nel mondo vitivinicolo, e una seconda colonna intitolata "cosa faccio" e vi scriverò semplicemente, la raccolgo, la schiaccio e la filtro per gravità. Perchè sono le uniche cose che faccio, il minimo indispensabile alla produzione e alla conservazione. L'idea è quella di, anzichè spacciare il vino come uscisse dalle mie ascelle, riportare il vino ad una sua dimensione naturale, di fotografia della natura, dove la sofisticazione (un pò come le spezie) serve per nascondere i difetti ed i gravami, ma il gusto è dato dall'acino. E a volte fa schifo... non schifo al sommelier, schifo che lo sputi o non ne vuoi altro, è raro, ma capita, sopratutto senza aggiunte di conservanti, e te lo bevi che sa di aceto, perchè quell'anno è andata così. Non è la natura che si adatta, sei tu. La gente ci faceva il palato al vino acetato, i romani davano l'aceto ai soldati perchè era dissentante ed era stradiffuso e conquistavano solamente i territori dove era possibile produrne altro.. dopo un pò ti comincia a piacere ;)

In realtà cerco di evitare l'acetizzazione, però siccome la quantità di solfiti che metto nel vino è veramente una frazione infinitesimale, capita che la gente lo porti a casa in macchina o in areo, sballonzolando ad alte temperature per ore e chilometri, e quando arriva a casa si trova un vino acetato. Li avviso, non c'è garanzia commerciale del trasporto, e se vogliono berlo ancora gli conviene tornare qua. Il vantaggio, è che prima che gli venga il cerchio alla testa tipico di chi ha bevuto più solfiti che vino, saranno già ubriachi da un bel pezzo.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia