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DOMANDE

Aperto da sgiombo, 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM

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sgiombo

1 Si lavora per vivere o si vive per lavorare?

2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?

(Ad entrambe le domande la mia personale risposta é "la prima che hai detto").



Ma mi piacerebbe però raccogliere le risposte degli amici del forum, così da stilare una specie di statistica su quel che intendono come mezzi per degli scopi o per scopi da raggiungere con adeguati mezzi.

Mi stupirei se alla prima domanda qualcuno rispondesse che vive per lavorare (vorrebbe dire che é talmente fortunato che il suo lavoro lo appaga pienamente in tutte le sue aspirazioni, che niente altro ha da chiedere alla vita, oltre al fatto di continuare nel suo lavoro, per essere appagato, felice).

Alla seconda mi aspetterei che gli atei rispondano unanimemente ("alla bulgara") come me: lo scopo fondamentale é la felicità, e se la vita la consente la si sceglie come mezzo opportuno; se invece non se ne può ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora non vale proprio la pena di continuare a viverla.

Dai credenti mi aspetterei diverse risposte.
Risposte che se non temessi di offendere chiamerei "fondamentalistiche" o "integralistiche", secondo le quali la vita, essendo un dono divino (ed essendo Dio infinitamente buono), é un fine in sé, da perseguirsi come tale, quale che sia la sua qualità.  
O in alternative risposte che sempre se non temessi di offendere chiamerei "opportunistiche", secondo le quali, volendo Dio (nella sua infinita bontà) la felicità e aborrendo l' infelicità per tutti, se ne asseconderebbero doverosamente e virtuosamente i desideri puntando alla qualità della vita piuttosto che alla sua quantità (durata nel tempo), e dunque che se non se ne potesse ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora la si dovrebbe per lo meno passivamente lasciar finire, se non anche far cessare attivamente.
(Ricordo due noti credenti morti negli ultimi anni, che a mio parere, un po' ipocritamente entrambi, alla luce di quanto "ufficialmente professato", hanno chiesto di essere lasciati morire, evitando accanimenti terapeutici, e anzi venendo "addormentati" farmacologicamente onde non soffrire; per la cronaca, di uno -don Verzè "del SanRaffaele"- ho una pessima opinione, dell' altro -il card. Martini- un' opinione piuttosto buona).


Ovviamente da parte di chi avesse la compiacenza di rispondermi chiederei che precisasse se é ateo o credente (di alcuni é del tutto evidente, ma di altri no).
Da chi rispondesse "la prima che hai detto" alla prima domanda (se con mia sorpresa ce ne fossero) mi piacerebbe anche sapere che professione svolge e in quali condizioni.

Grazie per l' attenzione.

Socrate78

#1
 Iniziamo dalla seconda domanda: NON si vive per la felicità, il grado di felicità non è assolutamente indicativo del valore di una vita e della moralità di una persona, si può essere assolutamente felici e sereni ma anche insensibili al dolore altrui, ingiusti nelle relazioni, egoisti. Il mafioso che riesce ad aver ragione di tutti i boss rivali dopo aver compiuto una strage per dominare il territorio è sicuramente felice, si sente forte e realizzato nel suo desiderio di potere, ma è decisamente peggio delle bestie e la sua esistenza è un disvalore assoluto. Anche ciò che è noioso, brutto, faticoso, persino doloroso, può avere un valore, può aiutarci a crescere, ad essere a lungo termine più forti, meno fragili, più disposti a comprendere gli altri che hanno sofferto come noi, quindi no, la felicità non è tra le cose che ritengo diano senso vero e valore alla vita. Studiare è faticoso ad esempio, ma ti aiuta a sviluppare il sapere e ha applicazioni pratiche, se io avessi impostato la mia vita tenendo conto di questo criterio di felicità e piacere come base di tutto allora avrei preferito tante volte giocare invece di impegnarmi a scuola, non avrei mai fatto attività fisica essendo piuttosto pigro, ma invece ho fatto anche quello per tenermi in forma, invece l'ho fatto. Ciò che dà piacere ed euforia può anche fare malissimo, come il fumo, l'alcol, le droghe pesanti e leggere, quindi il piacere e la felicità non sono un criterio valido per discernere il bene dal male.  Io da credente anzi ritengo che il senso della vita sia accettare tutto quello che ci capita come espressione di un progetto divino superiore, io credo che anche il dolore abbia un senso che a noi sfugge e se Dio permette la nostra sofferenza è perché ha un progetto su di noi e tutto quindi va offerto al divino, il bene come la sofferenza, in fondo questo viene detto non solo dai cristiani ma anche da altre religioni come l'islamismo (Sottomissione al volere di Allah), veniva detto dai filosofi stoici secondo cui tutto, anche il dolore, è l'espressione di una provvidenza, di un logos (ragione) che governa la natura ed il mondo e quindi tutto è in fondo benefico, anche ciò che ci sembra malvagio.
Ed alla prima domanda risponda: Sì, in linea molto generale si vive proprio per lavorare! L'inattività totale infatti coincide con la MORTE, ogni essere vivente è attivo quindi lavora, sto lavorando io che sto scrivendo questo post (è un lavoro in fondo), il lavoro inteso come attività tesa al raggiungimento di un fine è ciò che caratterizza la vita nelle sue varie forme, mentre solo i morti ormai, cessando il ciclo vitale, non lavorano più. Come vedi, le risposte che per te sembravano scontate (vivere per la felicità, non per il lavoro, ecc.) non lo sono affatto se si guardano questi problemi con prospettive differenti da quelle comunemente accettate.

Sariputra

#2
cit.Sgiombo:
1 Si lavora per vivere o si vive per lavorare?

Si lavora per vivere.

2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?

Si vive pur se non si è felici, perché si spera illusoriamente che, forse, un domani lo saremo.
Paradossalmente si è felici ( ma forse sarebbe più corretto dire 'sereni'...) veramente solo quando cessa ogni speranza illusoria di essere felici ( di una felicità duratura, non effimera)...

Ovviamente da parte di chi avesse la compiacenza di rispondermi chiederei che precisasse se é ateo o credente (di alcuni é del tutto evidente, ma di altri no).

Né l'uno né l'altro...son buddhista (alla buona...)  ;D ..!

Da chi rispondesse "la prima che hai detto" alla prima domanda (se con mia sorpresa ce ne fossero) mi piacerebbe anche sapere che professione svolge e in quali condizioni.

Attualmente sono disoccupato (sono stato operaio e poi artigiano ceramista...ma non sto cercando un 'altra occupazione) e curo Villa Sariputra. In questi giorni sto potando il piccolo frutteto...e ho poco tempo ( e tanta stanchezza...) per scrivere cose belle et interessanti et profundissime et sollazzevoli... :(
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Ipazia

Tra i molteplici attributi di Homo sapiens, due tra i più importanti sono: faber e ludens. Il lavoro è ciò che ha emancipato l'umano dallo stato di natura. Quando è creativo il lavoro diventa gioco, ludum. Si vive grazie al lavoro. Che può anche diventare una catena. Quindi il problema non è il lavoro, ma la catena. Sono atea, legata ad una visione del mondo che dà molta importanza al lavoro tanto da farlo coincidere con la sua filosofa umanistica. In ciò sta il mio disprezzo per ogni forma, alta o bassa, di parassitismo.


Mi sono occupata professionalmente di salute e sicurezza del lavoro. Quindi il lavoro è materia che ho bazzicato per una vita, proprio per lavoro. Adesso mi godo, con le energie rimaste, la fase ludens. La fase faber comunque non finisce mai ma, rimosse le catene, diventa parte del piacevole gioco di vivere in cui faber e ludens si fondono indissolubilmente.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

sgiombo

#4
X Socrate78

Non ho domandato: che cosa dà valore alla vita? O: che cosa rende morale una persona?

Ma invece se si vive per essere felici o se si é felici vivendo a qualsiasi costo, comunque si viva (se si considera la vita come mezzo per altri scopi o come fine a se stessa).


E' evidente che, per dirlo con gli stoici, la virtù, per chi sia virtuoso, é premio a se stessa, ovvero coincide con la felicità.
Ma invece per chi sia vizioso (e ce ne sono) é il vizio ad essere premio a se stesso, e dunque la felicità consiste nella soddisfazione del vizio stesso.
E infatti pensi anche tu che "Il mafioso che riesce ad aver ragione di tutti i boss rivali dopo aver compiuto una strage per dominare il territorio è sicuramente felice, si sente forte e realizzato nel suo desiderio di potere, ma è decisamente peggio delle bestie e la sua esistenza è un disvalore assoluto"


Ho inoltre parlato di felicità o infelicità "complessivamente" intesa.
Dunque anche ciò che è noioso, brutto, faticoso, persino doloroso, può contribuire a rendere complessivamente felice la vita, se consente di crescere, essere a lungo termine più forti, meno fragili, più disposti a comprendere gli altri che hanno sofferto come noi.
E ciò che dà un effimero piacere ed euforia al momento ma anche fa malissimo a in seguito, come il fumo, l'alcol, le droghe pesanti (sulle leggere sospenderei il giudizio), non rende complessivamente felice, ma al contrario complessivamente infelice la vita.


Fatta queste precisazione, credo di poterti "etichettar" come "credente -absit iniuria verbis- fondamentalista", prendendo atto che alla seconda domanda rispondi:

"Io da credente anzi ritengo che il senso della vita sia accettare tutto quello che ci capita come espressione di un progetto divino superiore, io credo che anche il dolore abbia un senso che a noi sfugge e se Dio permette la nostra sofferenza è perché ha un progetto su di noi e tutto quindi va offerto al divino, il bene come la sofferenza, in fondo questo viene detto non solo dai cristiani ma anche da altre religioni come l'islamismo (Sottomissione al volere di Allah), veniva detto dai filosofi stoici secondo cui tutto, anche il dolore, è l'espressione di una provvidenza, di un logos (ragione) che governa la natura ed il mondo e quindi tutto è in fondo benefico, anche ciò che ci sembra malvagio".


Nella tua risposta alla seconda domanda c' é un' evidente fraintendimento:

Per "lavoro" non intendo "attività qualsivoglia", ovvero "vita" (in contrapposizione a "passività totale", ovvero "morte"), ma invece "attività necessaria a campare, a procurarci i mezzi materiali necessari per sopravvivere", svolta a questo scopo (di sopravvivenza), a prescindere dal fatto che ci dia o meno soddisfazione "in sé e per sé" ma invece per quanto dalla vita si può complessivamente ottenere.

Per esempio scrivendo interventi in questo forum non ti guadagni da vivere, ma guadagnandoti in qualche altro modo da vivere (per mezzo di un' attività professionale o "di lavoro"; tua personale, o di chi lo fa per te se troppo giovane o troppo vecchio o altrimenti impedito) puoi ricavare le soddisfazioni che ricavi dal partecipare al forum stesso.

Scrivi che "il lavoro inteso come attività tesa al raggiungimento di un fine è ciò che caratterizza la vita nelle sue varie forme, ma io intendevo per l' appunto chiedere: il lavoro come fine a se stesso (volto a raggiungere un fine che col lavoro stesso si identifica) oppure come mezzo per altri fini (che con il lavoro stesso non si identificano)?


Le prospettive comunemente accettate (ma non da me, che sono anticonformista) di fronte alla vita non c' entrano proprio, come credo ti renderai facilmente conto se cercherai di comprendere ciò su cui invito alla riflessione.




X Sariputra

Se ben capisco riesci a mantenerti lavorando nell' orto e vigneto.
E mi congratulo con te; piacerebbe anche a me riuscire ad essere autosufficiente e a sottostare ai ricatti o comunque condizionamenti del "mercato" molto meno di quel che mi tocca accettare (malgrado cerchi comunque di affrancarmene nei sempre troppo angusti limiti del possibile); per la verità questa considerazione valeva per quando non ero ancora in pensione...
(Lo so, molti penseranno giustamente: "Che culo!", poiché purtroppo oggi quel che fino a qualche decennio fa era un sacrosanto diritto sta diventando una "questione di culo").


Anche nel tuo caso mi sembra che se consideri, come intendevo io nel porre le due domante, la "felicità complessiva" (la "somma algebrica di felicità e infelicità", per così dire; posto che nessuna perfezione esiste di fatto e sicuramente nessuno é mai stato né sarà sempre, comunque incondizionatamente felice; sul contrario sarei soltanto un po' più dubbioso...), allora il fatto di sperare nella felicità "in un domani" faccia parte degli "addendi di segno positivo" (se "illusoriamente", allora compensati almeno in parte ma spesso più che in toto da "addendi di segno negativo" rappresentati dalle inevitabili delusioni).


Se ben capisco, sei buddista agnostico (circa il divino); non avevo preso in considerazione il caso (mi scuso, ovviamente non é per minor rispetto e considerazione che verso credenti e miscredenti).


Buon lavoro e buon ritorno (con più lunghe riflessioni a tempo debito, letteralmente "oziose") fra noi ameni chiacchieratori del forum.






X Ipazia

Nel tuo caso le precisazioni sulle tue convinzioni non erano certo necessarie per i vecchie del forum.
Però hai fatto bene a dichiararle per i sempre auspicabilissimi "nuovi".


Mi sembra di poter dire che confermi quanto mi aspettavo dagli atei.

La tua attuale condizione é molto, molto simile alla mia (mi riconosco molto nelle tue ultime affermazioni).

Circa quanto affermi circa il fatto che il lavoro può anche diventare una catena. Quindi il problema non è il lavoro, ma la catena, come é facile immaginare, concordo pienamente.
Colgo però l' occasione per precisare che in ossequio al sano "naturalismo leopardiano" del mio venerato maestro Sebastiano Timpanaro (ma anche in accordo con altri; per esempio col pure da me compianto Domenico Losurdo) considero le convinzioni di Marx ed Engel sul "comunismo nella sua fase avanzata, quale si sviluppa sulla sua propria base", nel quale vigerebbe il principio "da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni" e "il libero sviluppo di ciascuno sarebbe condizione del libero sviluppo di ciascun altro" un residuo loro malgrado di utopismo non scientifico, non realistico, irraggiungibile (ma casomai da perseguire come "ideale cui asintoticamente tendere").

Anche se si verificheranno le più auspicabili delle sorti di fronte all' umanità, nella vita resterebbe pur sempre inevitabilmente un "residuo insuperabile di sofferenza".
La forza d' animo e la capacità di affrontare sacrifici in una qualche misura sarà sempre necessaria al buon vivere.



Grazie a tutti!


P-S.: Anche a Freedom (come nel caso di Ipazia, risponde nel modo che mi sarei aspettato da un ateo; ma mi viene il dubbio che si sia detto credente in precedenti interventi; in questo caso credente cosiddetto "opportunista"; absit iniuria verbis).

Freedom

Per la risposta sul lavoro mi associo alla risposta di Ipazia che ha espresso esattamente quello che penso.

Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano! Se ci si guarda dentro si scopre agevolmente che tutto il nostro essere ambisce, anela alla felicità. Totale, assoluta. Nello stesso modo che, spero di non andare fuori tema, si desidera l'immortalità. Questa è l'incontrovertibile verità di noi stessi. Tutti, sempre e comunque.

Bisogna solo spendere due parole sulla felicità. Non è il piacere immediato e nemmeno posticipato. Non è la soddisfazione delle nostre pulsioni malate o dei nostri capricci. La felicità è la gioia eterna. A quello noi tendiamo. 

Beato chi l'acchiappa!
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

viator

Salve. Come mio ormai solito , definiamo il lavoro : "attività produttiva svolta allo scopo di procurarsi mezzi di sussitenza, il cui esercizio impegna tempo, risorse ed energia di chi vi si dedica".
Quindi il lavoro, per risultare tale,  deve includere sempre un qualche elemento sia di costrizione che di produttività, non importa se anche solo immateriale. Deve rappresentare quindi sia una necessità individuale (per costrizione) che un'utilità sociale (per produttività).
Chi si diverte (il creativo) oppure persegue finalità personali facoltative (l'ambizioso) non sta lavorando. Al massimo ha una occupazione, un progetto, una missione. Costoro vivono per "lavorare".
Io ho lavorato per 37 anni senza ricavarne alcuna soddisfazione che non fosse incidentale e momentanea (impiegato tecnico -commerciale), quindi ho lavorato per vivere, come avviene per la massa.

Circa la felicità, lasciando da parte il secondo me corretto ed appropriatamente concetto filosofico di esso ("la condizione per la quale risultano soddisfatti - od assenti - tutti i bisogni e tutti i desideri") che risulta puramente utopistico e coincidente con la morte, preferisco - a livello esistenziale - sostituirla con la "serenità" ("la condizione per la quale non si nutrono nè odi nè rimpianti").
Essendo convenzionalmente ateo (ma più precisamente - e sempre filosoficamente - agnostico) considero che si debba vivere per poter essere augurabilmente sereni. Rispettare il mondo e cercare di amarlo attraverso il capirlo. E comprendere vuol dire sia "capire" che "fare parte di....".
Ed il fare parte del mondo, il capirlo (anche limitatamente), il rispettarlo....che sono mai ? L'amarlo. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

sgiombo

Grazie anche a te, Viator.

Stavolta sono d' accordo (...capita "nelle migliori famiglie", come si suol dire).

Ipazia

Citazione di: viator il 23 Febbraio 2019, 17:35:54 PM

Chi si diverte (il creativo) oppure persegue finalità personali facoltative (l'ambizioso) non sta lavorando. Al massimo ha una occupazione, un progetto, una missione. Costoro vivono per "lavorare".
Io ho lavorato per 37 anni senza ricavarne alcuna soddisfazione che non fosse incidentale e momentanea (impiegato tecnico -commerciale), quindi ho lavorato per vivere, come avviene per la massa.


Su questo non concordo. Fin dall'invenzione della ruota, domesticamento di piante e animali, ... il creativo fu il motore dell'evoluzione sociale umana. Anche oggi ciò che può alleviare la parte sacrificale del lavoro viene dal lavoro creativo di progettazione dell'intelligenza artificiale. Rimarrà forse sempre una parte routinaria, ma si ridurrà a vantaggio del lavoro creativo, non necessariamente correlato alla sopravvivenza, ma al puro piacere dell'homo faber, come nell'arte, educazione e bricolage. Penso anche, nel lavoro tradizionalmente inteso, alla soddisfazione incalcolabile di chi salva vite umane, di chi fornisce servizi importanti o di chi, semplicemente, sa fare bene il suo lavoro, come nella "chiave a stella" di Primo Levi. Rimosse le catene dello sfruttamento mercantile e l'alienazione connessa, il lavoro ritrova la sua natura umana, umanistica e umanizzante. 
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

viator

Salve Ipazia. Tu privilegi costantemente le interpretazioni sociali, collettive, storiche, di costume, ideologiche.
Io quelle individuali, personalistiche, esistenziali, psicologiche.
Infatti io mi riferivo alle aspirazioni del singolo e del modo in cui costui tende ad interpretare il proprio ruolo individuale, mentre tu ne sottolinei il ruolo storico e sociale.
Credo allora che avremo ragione entrambi. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

InVerno

#10
Vorrei ben vedere chi ammettesse di rispondere la seconda ipotesi alla prima domanda. Sopratutto su un forum di riflessioni! Non vorrei spaventare possibili risposte, anzi sarei ben curioso di sapere come verrebbero articolate, ma conosco parecchie persone che dal mio punto di vista "vivono per lavorare" ma credo che la frase suoni così male nella testa di chiunque che nessuno sarebbe disposto ad ammetterlo certamente agli altri, nondimeno a se stesso. Invero ho incontrato persone che utilizzano il termine "lavoro" come una sorta di principio da cui far discendere a cascata parecchie riflessioni anche fondanti la propria vita, ma se contestualizzato meglio a mio avviso si riferiscono anzichè al lavoro vero e proprio, ad una sorta di "praticità" o "etica derivata dalla prassi" che mi trova tralaltro d'accordo a secondo di come sia declinata. Se d'altro canto come suggerisce Sgiombo questa risposta fosse adeguata a chi avesse trovato un lavoro così stimolante da permettergli una perfetta simbiosi con la propria vita, allora potrei anche ricadere in questa categoria, ma a quel punto avrei cambiato sostantivo. Mi piace distinguere tra "opera" e "lavoro" dove per opera intendo ciò che viene fatto esclusivamente per se stessi o disinteressatamente e lavoro ciò che viene fatto per un interesse personale indiretto (che sia un valore di scambio od altro). In quel caso mi piacerebbe specificare che tento di massimizzare il tempo dedicato alle opere a dispetto del lavoro, credendo, che solo le opere possano entrare in una vera simbiosi con il proprio "Essere". In questi termini, opero tutto l'anno come agricoltore, e lavoro per offrire ospitalità turististica per circa otto mesi l'anno, oltre che "per arrotondare" qualche lavoro appartenente alla mia vecchia professione di cui non sono riuscito a scrollarmi completamente per via ovviamente dei soldi, ma che rappresenta una parte minore della mia esistenza .Sono, come Sariputra, in tempi di frutteto e potatura.
Riguardo alla seconda domanda, penso che non saprei adattarmi a nessuna delle due diciture senza sentirmi in difetto dichiarandolo. Non so di preciso quale sarebbe la dicitura che sceglierei, ma penso qualcosa del tipo "vivo per vedere\trovare la felicità" perchè mi piace pensare che essa possa essere trovata dietro ad ogni angolo(compreso se stessi), e che il non vederla sia solo un problema di "cattiva osservazione", ed in questo penso che l'osservazione, la meditazione, sia fondamentale nel coltivare se stessi. Allo stesso tempo mi piacerebbe organizzare in maniera bipolare questa proposizione includendo anche in qualche modo la "tragedia" che ritengo altrettanto significativa e in certi casi persino "desiderabile". In questo penso che i credenti abbiano una marcia in più (ma come in auto, inserire la marcia è solo il primo passo per partire) ovvero nel non farsi trainare dal terrore dell'infelicità e della tragedia, ma di saperla affrontare riconoscendone il valore. Non aderendo a fedi specifiche non vorrei impossessarmi di simbolismi specifici impropriamente, ma in generale penso che mi piacerebbe concludere che vivo per cercare di rimanere in equilibrio tra chaos e ordine, tra la felicità e la tragedia, tra lo ying e lo yang se proprio devo usare una terminologia abusata ma comprensibile, cercando di seguire questo percorso più come una forma di mantenimento di un equilibrio funambolico che con una sorta di coltivazione con un unico obbiettivo (la felicità). Da quel che ne so e prendendo in considerazione solo le definizione "da vocabolario" riterrei di dire di me stesso di essere ateo e naturalista, anche se riletto appena scritto personalmente mi pare un ossimoro, in quanto trovo nella natura qualcosa di perfettamente aderente alla dimensione del divino, sia tradizionalmente che personalmente.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Lou

#11
Alla domanda 1)
Il lavoro è parte integrante del mio vivere, ma questo vivere accoglie in sè, perchè sia tale, la componente "tempo libero", libero appunto dal lavoro, senza il quale il mio mondo della vita ne risulterebbe compromesso in quanto è anche il tempo libero che nobilita e qualifica la nostra vita, non solo il lavoro.
Alla domanda 2)
A premessa, come richiesto, sono dichiaratamente e socialmente aconfessionale, intimamente e filosoficamente agnostica.
Io sono felice di vivere e di averne avuto l'opportunità. E tutte le volte che mi spezzo le gambe e il cuore e tutto il dark side che sale addosso in testa trovo comunque in questa opportunità di vita la ragione della mia felicità.
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

Freedom

A me però quelli che affermano di amare la vita non mi convincono.

Quando va tutto bene ma proprio tutto! la vita ci riserva la seguente, ineludibile, sequela: morte dei propri genitori, malattie, vecchiaia e morte finale. E già così mi sembra di aver calato un bel carico da undici. 

Inoltre, almeno un pò, ma magari qualcuno dirà che non è decisivo ed è vero, dobbiamo "assaggiare" problemi connessi alle varie età della vita, alle varie stagioni delle esperienze professionali, amorose, etc. A qualcuno poi andrà particolarmente male e si troverà a dover far fronte a disgrazie più o meno grandi.

Ci sono, è vero, rari momenti di gioia e una buona parte dell'esperienza vitale a cavallo tra la serenità, la noia e, più verosimilmente, una stagione, probabilmente quella quantitativamente più rilevante, di vita....come dire.....diciamo "normale". La mia professoressa delle superiori avrebbe definito tale periodo con "senza lode e senza infamia".

Ecco difendere la bellezza di tutto questo, la poesia, il valore inestimabile di tutto questo a me, sbaglierò, ma lascia l'amaro in bocca. Quel sapore acre che qualcuno più antipatico del sottoscritto chiamerebbe auto convincimento.

Non so......io penso che se gioco la partita cerco il bersaglio grosso, cerco di vincere il premio che veramente m'interessa, che mi entusiasma. Altrimenti, vabbè, per carità si gioca lo stesso e si cerca di portare a casa più punti possibili, ma........definire tutto questo come meraviglioso.....boh....a me sembra un accontentarsi. Legittimo, dignitoso, comprensibile ma tutta 'sta poesia nella vita, se non è insaporita da un ideale di quelli grossi, travolgenti, tutta 'sta poesia dicevo, non la vedo. No, non la vedo proprio.

Ma forse è un problema mio. Ricordo la mamma di un mio amico, di origini contadine (scarpe grosse e cervello fine si dice dei contadini!) che diceva della nostra compagnia di amici: "voialtri siete gente che non si accontenta!"

Purtroppo o per fortuna non mi è ancora dato sapere ma so che.....aveva ragione!
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

Ipazia

Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM

2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?


Si vive per vivere. La felicità è una conquista quotidiana. La felicità, come la verità, è plurale. Ogni contesto esistenziale, ogni esperienza vissuta, lunga o breve che sia, ha il suo contenuto di verità/felicità e falsità/infelicità. Quest'ultima potrebbe intendersi anche come errore.

Anche l'operari ha la sua dose di verità, che si vede nel risultato; e felicità nella soddisfazione che ne deriva. Buona abitudine, in tempi incatenati, tenere distinti mentalmente l'operari per un padrone o per soddisfazione personale.

La felicità è plurale: sommatoria di momenti in cui ci siamo sentiti all'altezza delle situazioni che la vita ci ha parato davanti. Alla vita non credo si possa chiedere di più. Ci offre il palcoscenico, spesso meraviglioso come il tramonto di questa sera, e tanto basta.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Socrate78

@Freedom: Io ritengo di amare la vita e ciò che essa mi dà, anche tu potresti tentare di farlo. Potresti ad esempio cercare di vedere anche nelle persone che meno stimi, che ti sembrano o che ti sono ostili degli aspetti positivi, un qualcosa che possa rivalutarle ai tuoi occhi. Potresti cercare di non odiare nessuno, di non giudicare, di perdonare se ricevi un qualche torto, facendo magari tu il primo passo per riconciliarti. Già questo ti porterà ad essere più sereno e ad eliminare pensieri negativi, sentimenti di vendetta, disprezzo, rancore che causano sofferenza. Resta poi il problema della malattia e della morte, molto più difficile da risolvere se non si ha fiducia in una realtà trascendente, ma pensa se ad esempio vivevi anche solo cinquant'anni fa, quando tante malattie non potevano essere curate e guarite, quando c'era molta più povertà e persino miseria, già questo dovrebbe farti considerare la tua esistenza e il periodo in cui vivi come un privilegio rispetto a chi si è dovuto barcamenare in condizioni peggiori.