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DOMANDE

Aperto da sgiombo, 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM

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sgiombo

Mi sembra che praticamente tutti gli intervenuti tranne Socrate78 (per il quale, da credente, per così dire, "Dio garantisce della desiderabilità della vita  a prescindere"; almeno questa é l' impressione che mi ha fatto il suo primo intervento; ma se ho dimenticato qualcuno chiedo scusa) siano agnostici o atei (comunque per lo meno non credenti in religioni "in senso forte", inequivocabilmente teistiche; diciamo così, per intenderci: non "tipo cristianesimo"; al massimo "tipo buddismo").

E da parte di questi ultimi mi sembra di notare (ma potrei sbagliare: correggetemi se é il caso) una certa ritrosia ad ammettere che le vita "vale la pena di essere vissuta" solo se (e fintanto che) dà per lo meno complessivamente più felicità che infelicità.
Cioé che si vive per essere felici (e non che si vive ad ogni costo; anche al costo di un complessivo prevalere dell' infelicità rispetto alla felicità.
Quella che ho chiamato forse impropriamente "una certa reticenza" consiste nel fatto che non mi pare lo si affermi esplicitamente, mettendo anche chiaramente in conto l' ipotesi (per quanto auspicabilmente non realistica) dell' "infelicità complessivamente prevalente", che renderebbe per chi vi si venisse a trovare la preferibilità della morte (e ad essere conseguenti del suicidio; o dell' eutanasia).
Piuttosto si tende a rilevare che si é felici (per lo meno in misura nettamente prevalente) e senza vivere non lo si sarebbe; ma senza esplicitare il fatto a mio parere logicamente conseguente che allora probabilmente se non lo si fosse (o per chi purtroppo non lo fosse) sarebbe meglio non vivere. 

Spero di non urtare la suscettibilità di nessuno, e sono comunque pronto ad essere smentito e a dare pieno credito alle affermazioni che ciascuno facesse circa se stesso), ma mi viene il dubbio che possa essere per una persistente tendenza, sia pur "latente" (se avessi un minimo di simpatia per la parole direi "inconscia"), a considerare piuttosto negativamente o almeno a "vedere con sospetto" il suicidio e l' eutanasia, possibile conseguenza (credo indesiderata) di un' atavica concezione cristiana largamente preponderante almeno fino a un recente passato nel nostro paese.

InVerno

Non so se dal mio punto di vista si possa parlare di un retaggio culturale, che pensavo magari ingenuamente di aver deprogrammato. Infatti fino a non tanto tempo fa avrei argomentato in maniera simile alla tua. Oggi invece direi che ciò che più mi affascina della vita e le sue forme è la sua resilienza, la sua ostinatezza, il suo continuo essere orientata verso il sole, verso l'alto. Ancor di più quando essa è ostacolata vividamenta dalla morte, lo vedo nei vegetali, lo vedo negli animali, lo vedo nei funghi, lo vedo persino negli inerti, e lo vedo sopratutto negli esseri umani. Non tutti abbiamo la tempra di Alex Honnold, un uomo capace di scalare a mani nude tre kilometri di roccia in verticale, ma la bella notizia è che geneticamente siamo fatti della stessa pasta, e come lui crediamo che il senso della vita sia scalare verso il sole.
Ma siccome anche il suicidio è una decisione che si prende da vivi, mentre ci arrampichiamo, e non certo da morti, ognuno lasci la testimonianza che crede su questa grande parete universale? Di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere, e il suicidio degli altri è sicuramente una di queste cose..
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Freedom

Citazione di: Socrate78 il 26 Febbraio 2019, 19:26:45 PM
@Freedom: Io ritengo di amare la vita e ciò che essa mi dà, anche tu potresti tentare di farlo. Potresti ad esempio cercare di vedere anche nelle persone che meno stimi, che ti sembrano o che ti sono ostili degli aspetti positivi, un qualcosa che possa rivalutarle ai tuoi occhi. Potresti cercare di non odiare nessuno, di non giudicare, di perdonare se ricevi un qualche torto, facendo magari tu il primo passo per riconciliarti. Già questo ti porterà ad essere più sereno e ad eliminare pensieri negativi, sentimenti di vendetta, disprezzo, rancore che causano sofferenza. Resta poi il problema della malattia e della morte, molto più difficile da risolvere se non si ha fiducia in una realtà trascendente, ma pensa se ad esempio vivevi anche solo cinquant'anni fa, quando tante malattie non potevano essere curate e guarite, quando c'era molta più povertà e persino miseria, già questo dovrebbe farti considerare la tua esistenza e il periodo in cui vivi come un privilegio rispetto a chi si è dovuto barcamenare in condizioni peggiori.
Non stai rispondendo a quello che ho scritto ma a ciò che le mie parole evocano in te. Prova a rileggere e rileverai che non ho detto di non amare la vita tout court.  Non ho nemmeno affermato di odiare chicchessia, di giudicare qualcuno, di non essere in grado di perdonare, etc. Penso e ho scritto altre cose.
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

Freedom

Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 15:53:46 PMP-S.: Anche a Freedom (come nel caso di Ipazia, risponde nel modo che mi sarei aspettato da un ateo; ma mi viene il dubbio che si sia detto credente in precedenti interventi; in questo caso credente cosiddetto "opportunista"; absit iniuria verbis).
Scusa, lo vedo solo adesso.

Non ho capito perchè dici che ho risposto nel modo che ti saresti aspettato da un ateo. Puoi spiegare per favore? Ti riferisci alla prima o alla seconda domanda?
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

anthonyi

Citazione di: sgiombo il 23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM
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2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?

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Ciao Sgiombo, data per scontata la risposta nella prima parte la domanda sorge spontanea, cos'è la felicità? La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità, in tal senso l'affermazione che si vive per essere felici è tautologica.
Vi è poi un'altra interpretazione della felicità, diciamo più razionale, oggettiva, che può essere definita come soddisfazione socialmente riconosciuta per una certa condizione, per la quale uno "si sente" felice perché magari ha un "buon" lavoro, una "buona" famiglia, tanti amici con cui uscire. Il virgolettato serve a specificare che queste sono valutazioni sociali, che magari l'individuo interiormente non condivide, ma che sostiene perché condizionato dal mondo esterno. Io direi che questa seconda interpretazione potrebbe essere applicata alla seconda parte della domanda, perché un individuo che si forza di "essere" felice lo fa proprio perché reputa che questo comporterà per lui una migliore accettazione sociale da parte degli altri.
Un saluto

anthonyi

Citazione di: sgiombo il 26 Febbraio 2019, 20:21:00 PM
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E da parte di questi ultimi mi sembra di notare (ma potrei sbagliare: correggetemi se é il caso) una certa ritrosia ad ammettere che le vita "vale la pena di essere vissuta" solo se (e fintanto che) dà per lo meno complessivamente più felicità che infelicità.
.

Sgiombo, a me sembra che con questa definizione sei fuori dalla domanda originaria.
Una cosa è domandarsi se si vive per essere felici, e cioè cercando il più possibile di costruire la propria felicità, altra cosa è porre una domanda di valore sulla vita stessa, che poi bisogna capire da quale punto di osservazione proviene, con quali pesi assegnati ai singoli accidenti della vita, e con la considerazione che la vita è un evento in gran parte incerto che garantisce la possibilità (ma non la certezza) di fare bilanci soltanto a posteriori, cioè soltanto dopo che l'hai vissuta.
Un saluto, e un augurio di essere felice.

sgiombo

Citazione di: Freedom il 27 Febbraio 2019, 00:06:42 AM
Scusa, lo vedo solo adesso.

Non ho capito perchè dici che ho risposto nel modo che ti saresti aspettato da un ateo. Puoi spiegare per favore? Ti riferisci alla prima o alla seconda domanda?


Perché affermi che

 "Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano!"

Che é precisamente quello che mi aspetto da un ateo per il quale non c' é alcun dovere di vivere a prescindere dalla felicità, comunque sia la vita per il fatto che l' ha fatta (o ce l' ha data) una divinità infallibile e comunque onnipotente, cui non é possibile disobbedire se non a carissimo (anzi: infinito) prezzo.
E dunque si accetta di di vere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità.

Ma piuttosto a me piacerebbe sapere se credente lo sei effettivamente o no (il "come" eventualmente nei limiti del possibile propri di una discussione come questa).
 

Ad InVerno

Chiederei se possibile di spiegare meglio la metafora della scalata (con le metafore non sono mai andato molto d' accordo, quasi come con i computer), che trovo un po' criptica, in relazione all' affermata "ostinatezza a persistere, perpetuarsi e/o svilupparsi della vita" (noto in proposito che la vita umana ha una peculiarità unicamente sua rispetto a quella di tutte le altre specie: quella di potersi "autorifiutare" col suicidio).

sgiombo

Citazione di: anthonyi il 27 Febbraio 2019, 07:52:44 AM
Ciao Sgiombo, data per scontata la risposta nella prima parte la domanda sorge spontanea, cos'è la felicità? La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità, in tal senso l'affermazione che si vive per essere felici è tautologica.

La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità
Citazione
A me tautologica sembra piuttosto con tutta evidenza l' affermazione che "La felicità è una sensazione interiore che noi viviamo dentro in maniera più o meno forte, e che ci spinge a cercare quelle cose o persone che ci danno felicità", dal momento che contiene i concetto da definire come già dato con un suo preteso significato (contiene come preteso definiens il definiendum). 

L' affermazione che si vive per essere felice mi sembra casomai scontata, ma solo per chi non creda di avere "doveri a prescindere" verso entità a lui superiori e di cui sia in balia (oppure di cui si possa fidare ciecamente che eventuali anche enormi infelicità presenti verranno di sicuro lautamente compensate in futuro: paradiso).

In sostanza vedo certo estremamente drammatico ma non irragionevole il suicidio di un non credente, mentre il suicidio di un credente (a meno che giunga al punto tale di negare la propria fede, e dunque di non essere più tale) mi sembra un' assurdità: se c' é una divinità immensamente buona che ha creato (e in particolare ci ha dato) la vita, allora distruggere ciò che ha fatto é immensamente cattivo, da non farsi per alcun motivo se ci si vuole comportare bene (anche a prescindere dal fatto che tale divinità commina pene infinite, letteralmente "infernali" a chi, suicidandosi, contravviene i suoi ordini).

  
https://www.youtube.com/watch?v=LPKSubavxtE


Notare il fatto che l' autore di questo splendido capolavoro che letteralmente strappa le lacrime dagli occhi non era credente (per lo meno "ortodossamente tale"); altrimenti credo che non avrebbe mai potuto scriverlo).





Vi è poi un'altra interpretazione della felicità, diciamo più razionale, oggettiva, che può essere definita come soddisfazione socialmente riconosciuta per una certa condizione, per la quale uno "si sente" felice perché magari ha un "buon" lavoro, una "buona" famiglia, tanti amici con cui uscire. Il virgolettato serve a specificare che queste sono valutazioni sociali, che magari l'individuo interiormente non condivide, ma che sostiene perché condizionato dal mondo esterno. Io direi che questa seconda interpretazione potrebbe essere applicata alla seconda parte della domanda, perché un individuo che si forza di "essere" felice lo fa proprio perché reputa che questo comporterà per lui una migliore accettazione sociale da parte degli altri.
Un saluto
Citazione
Mi sembra che questo discorso possa filare solo per chi desideri fortissimamente un "riconoscimento sociale" e dunque avendone soddisfazione sia felice (ma non tutti necessariamente avvertono una tale aspirazione).

Ciao.

sgiombo

Citazione di: anthonyi il 27 Febbraio 2019, 08:05:10 AM
Sgiombo, a me sembra che con questa definizione sei fuori dalla domanda originaria.
Una cosa è domandarsi se si vive per essere felici, e cioè cercando il più possibile di costruire la propria felicità, altra cosa è porre una domanda di valore sulla vita stessa, che poi bisogna capire da quale punto di osservazione proviene, con quali pesi assegnati ai singoli accidenti della vita, e con la considerazione che la vita è un evento in gran parte incerto che garantisce la possibilità (ma non la certezza) di fare bilanci soltanto a posteriori, cioè soltanto dopo che l'hai vissuta.
Un saluto, e un augurio di essere felice.



Grazie dell' augurio!

Che ricambio di cuore.

Per fortuna finora lo sono (posso ovviamente valutare il passato e il presente, essendo il futuro incerto come affermi anche tu).

Ma proprio perché non sono sicuro che lo sarò sempre (fin che camperò, ovviamente), mi riservo il "diritto" di togliermi la vita qualora non lo fossi più.

Se per me (credo contrariamente che a un credente) la vita ha valore solo se complessivamente felice e non "a prescindere", non "in sé e per sé", come che sia, allora se a un certo punto mi accorgessi che non vale la pena di viverla mi riserverei di non viverla più.

InVerno

Non è una pecularità umana, è certamente molto più comune tra gli uomini, ma esistono comportamenti assimilabili al suicidio anche negli altri regni, ovviamente si può sempre distinguere dall'autocoscienza e le implicazioni del caso, ma non mi pare di vedere tra uomo e animale e un vero e proprio salto qualitativo ma uno quantitativo. D'altro lato gli esseri umani sembrano incapaci di alcune forme "di suicidio" che invece accadono nel mondo animale, come per quanto vale per i superorganismi (alveari, formicai etc) che sembrano capaci (e molto spesso non conosciamo le cause) di terminare l'esistenza anche a livello "sociale" come quando queste colonie effettivamente collassano da un giorno all'altro. Anche gli esseri umani hanno dato prova di sapere attuare suicidi di massa, ma in questo caso sembra una tendenza preminente del mondo animale e dei superorganismi. Direi quindi che a proposito lascierei delle linee di demarcazione meno nette di quanto fai tu, in attesa che il "vero suicidio" venga definito per poter contare chi vi effettivamente partecipa.

La metafora della scalata ha tante sfacettature, non a caso la "scala" è stato un simbolo molto importante di alcune tradizioni mistiche\simbolico\esoteriche. Io probabibilmente sono l'ultimo a doverne parlare (soffro di vertigini) ma in generale penso che la propria soddisfazione nella vita, e l'eventuale decisione di porvi termine quando il "negativo dovesse prevalere sul positivo" dipende innanzitutto da come si intende la vita stessa nel suo divenire. Se la si intende come una parete verticale da scalare, ogni appiglio, con le unghie e con i denti, ha un valore tale una volta raggiunto e consolidata la propria posizione, che l'idea di lasciarsi andare nel vuoto pare insensata. Se invece, per opposto estremo, si intendesse la vita come uno scivolo verso il basso (cosa che non attribuisco a nessuno in particolare, ma ritengo una tendenza in essere nella nostra cultura, per via di una sempre più comune considerazione edonistica - in senso moderno non filosifico - della vita) allora il valore risiederebbe premimentemente nel raggiungere più velocemente possibile il suolo, anche buttandosi di sotto.

D'altro canto, sempre per parafrasare Wittgenstein (in questi periodi sono in vena) ad un certo punto la scala "va buttata via", e forse una volta in cima alla parete, non si può fare altro che scendere, checchè ne sia il motivo. Se qualcuno mi dicesse che sente di aver terminato la propria scalata, e che non esiste nessun altra mossa possibile a questo punto, che buttarsi di sotto, non saprei effettivamente che obbiettare. Ma questa valutazione mi pare estremamente complessa da fare, anzi dal punto di vista logico praticamente impossibile, in quanto la vetta effettivamente esiste solo nella mente di chi la delimita e nessuno la raggiunge mai davvero.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Sariputra

Si può vivere anche per un altro motivo che non quello di essere felici: quello di far felice l'altro. Se osserviamo la nostra esistenza solo dal nostro punto di vista, e non ci vediamo come esseri in relazione e interdipendenti ,sembra esserci, a mio parere, una sorta di 'manicheismo' di fondo. La vita è bella finchè il godimento supera la sofferenza, dopodiché impugno l'arma quando la sofferenza personale supera il godimento. Ma la sofferenza dell'altro? Di colui che mi sta accanto?  Posso pensare che , nonostante la mia vita mi sembri complessivamente ignobile, l'altro che mi sta accanto senta invece la mia presenza, che percepisco personalmente ormai  poco sopportabile, come nobile o addirittura come una fonte di gioia, forza, sicurezza e fiducia? E' egoismo il suo, aver cioè bisogno della mia presenza per sopportare la sua di sofferenza? E come posso "impugnare l'arma" sapendo che questo gesto causerà in colui che mi sta accanto, vicino al cuore sofferente per così dire, ancor più dolore, financo da spingere lui stesso a disperarsi?...Gran parte del nostro modo distorto di vedere la vita nasce proprio, secondo me, da questa totale mancanza del senso di interdipendenza. Ci vediamo come monadi assolute che 'brandiscono' il bastone verso l'altro o verso se stessi...verso l'altro quando lo percepiamo come un ostacolo alla nostra supposta e non ben chiara, nemmeno a noi stessi, "felicità" e verso noi stessi quando invece percepiamo la nostra stessa vita (magari sofferente) come un ostacolo a continuare la speranza del miraggio della felicità.
Quante volte invece, proprio nella sofferenza, sentiamo il bisogno dell'altro. Allora sì che ci vediamo come esseri interdipendenti, come veramente siamo. E quanto soffriamo se questa presenza ci viene negata, perché l'altro deve inseguire il suo 'miraggio' di essere felice e la mia sofferenza gli è d'ostacolo...
L'autentica infelicità non è forse proprio la mancanza dell'altro? Ancor più dolorosa quando l'altro ci sta persino accanto, vive con noi, e non si accorge del nostro bisogno di lui?...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Freedom

Citazione di: sgiombo il 27 Febbraio 2019, 08:40:29 AM
Perché affermi che

"Per la risposta sulla felicità: si vive per essere felici. E' lapalissiano!"

Che é precisamente quello che mi aspetto da un ateo per il quale non c' é alcun dovere di vivere a prescindere dalla felicità, comunque sia la vita per il fatto che l' ha fatta (o ce l' ha data) una divinità infallibile e comunque onnipotente, cui non é possibile disobbedire se non a carissimo (anzi: infinito) prezzo.
E dunque si accetta di di vere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità.

Ma piuttosto a me piacerebbe sapere se credente lo sei effettivamente o no (il "come" eventualmente nei limiti del possibile propri di una discussione come questa).
La mia risposta è, spero di non peccare di superbia, la quintessenza del cristianesimo. Lo è nella sua interezza ma, anche la sola frase che hai citato, è un inno vero e proprio all'essere cristiano. Se vuoi possiamo approfondire, a me farebbe piacere.

Per quanto invece concerne le deduzioni logiche che ne fai conseguire non sono d'accordo ma, a me pare, che non fossero insite nelle due domande che hai posto.  E, oltre a non essere d'accordo nella sostanza non sono nemmeno d'accordo sul fatto che siano conseguenze logiche corrette. O meglio, possono sì essere logiche ma non inevitabili. Soggettive direi. 
Mi riferisco "E dunque si accetta di vivere solo se "ne vale la pena", se se ne é "complessivamente felici", ovvero se ne trae più felicità che infelicità". 
Io accetto di vivere sempre e comunque, (nella normalità della vita, comprese esperienze tutt'altro che piacevoli, discorso a parte farei rispetto ad una gravissima, dolorosissima e mortale malattia, tipo Welby per intenderci) ma sempre e comunque nella prospettiva della ricerca della felicità. 

Poi, un'altra deduzione logica che fai discendere, è quella dell'ammissibilità o meno del suicidio e, in ogni caso, non l'hai detto espressamente ma sicuramente ce l'hai in animo, della legittimità dell'eutanasia. Anche queste conclusioni non sono, a mio avviso, logiche conseguenze delle domande in oggetto, ma, opinioni legittime e forse, anche condivisibili.

Per quanto concerne dunque il suicidio e l'eutanasia non mi tiro indietro rispetto a questi scottanti temi. Mi permetto solo di rilevare che sembrerebbero un pò Off Topic e, se ne ravvisi il desiderio, puoi aprire Thread dedicati. Ai quali, lo dico sin da subito, non mancherò di partecipare con entusiasmo. 

Credo infine di aver risposto alla tua domanda e cioè se sono cristiano o meno. Non fosse così lo dico chiarissimamente: nonostante uno spirito molto critico verso la chiesa cattolica, nonostante alcune posizioni che a qualcuno potrebbero far venire l'orticaria e farlo gridare "dagli all'eretico!", nonostante tutto questo sì, sono cristiano.

D'altra parte, non lo dico io, l'universo cristiano è di una vastità sorprendente. E di una ricchezza sorprendente aggiungo io.

Il problema, quando si affronta questo tema, è che si guarda solo al famoso albero che cade e non alla foresta che cresce. Ma questo è un altro discorso. Che, se vogliamo affrontare, sono disponibile. :)
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

Ipazia

#27
Il suicidio è un atto estremo di libero arbitrio caro Sgiombo ;) . La sua essenza, che rimane come resto indelebile, detratti tutti i vincoli deterministici che condizionano tale scelta. Una scelta che credo spetti solo al detentore di quel bene assoluto incontrovertibile che è la sua vita per ogni vivente nel momento in cui quel bene non fosse più sentito tale dal suo legittimo detentore. Ma è comunque una scelta particolare, estrema, che confligge con l'istinto ben più potente della conservazione in vita, di fronte al quale le alternative al suicidio, rimosse le condizioni pescecanine della reale condizione sociologica umana, sono varie e molteplici. Natura permettendo. Perchè alla fine anche la migliore delle società umane i miracoli non li può fare.

Da un punto di vista ateo il valore supremo vita umana viene riconosciuto, analizzato e sostenuto fin dai tempi di Epicuro che fornisce a tal proposito supporti etici importanti, tanto da essere riconosciuti perfino dai credenti intellettualmente onesti. Uno snodo della riflessione tocca al bis-scomunicato Spinoza che nel "Deus sive Natura" rimanda alla natura il senso della vita. Senso della vita che porterà l'ateismo filosofico all'amor fati nicciano, ovvero alla meno caduca teorizzazione di FN, chiudendo il cerchio aperto da Epicuro.

(senza dimenticare, sia chiaro, l'apporto etico dell'umanesimo marxista e dei vari illuminismi)

Quindi direi che noi atei non abbiamo bisogno di scheletri cristiani nascosti nell'armadio per trovare da noi il senso e valore della vita, di cui la morte è inevitabile accidente posto dalla natura e il suicidio una facoltà marginale a cui ricorrere se qualcosa va irrimediabilmente storto.
.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

InVerno

Citazione di: Sariputra il 27 Febbraio 2019, 10:55:35 AME' egoismo il suo, aver cioè bisogno della mia presenza per sopportare la sua di sofferenza? E come posso "impugnare l'arma" sapendo che questo gesto causerà in colui che mi sta accanto, vicino al cuore sofferente per così dire, ancor più dolore, financo da spingere lui stesso a disperarsi?...Gran parte del nostro modo distorto di vedere la vita nasce proprio, secondo me, da questa totale mancanza del senso di interdipendenza. Ci vediamo come monadi assolute che 'brandiscono' il bastone verso l'altro o verso se stessi...verso l'altro quando lo percepiamo come un ostacolo alla nostra supposta e non ben chiara, nemmeno a noi stessi, "felicità" e verso noi stessi quando invece percepiamo la nostra stessa vita (magari sofferente) come un ostacolo a continuare la speranza del miraggio della felicità.
La cosa interessante di questa tua metafora, visto che Ipazia parlava di homo ludens, è che almeno ipoteticamente (la certezza è impossibile) si può dire che il bastone sia la prima effettiva "invenzione" umana, il primo "gioco" di homo ludens. La seconda invece, si è ipotizzato sia invece la corda (ovviamente non intesa in senso moderno).L'utilizzo concettuale di questi due giochi è assolutamente diverso, uno viene brandito per dividere e colpire, l'altra viene impugnata per unire, per rendere interdipendenti. In questo senso possiamo riconoscere in tante attività umane (ma anche filosofie) delle propaggini di bastoni e corde, alcune sono effettivamente costruite con lo scopo di dividere e altre di unire. Ma come accade nella realtà fisica, entrambi sono strumenti utili per sopravvivere e su cui il nostro cervello è impalcato, in maniera metaforicamente simile ad una struttura composta di bastoni intrecciati da corde. Per questo non sono convinto che ragionare completamente in termini di interdipendenza possa essere una soluzione totalmente adeguata ai nostri bisogni, quanto un estremo a cui un individuo può ricorrere. Di certo l'attività spirituale è LA Corda per eccellenza, la Religatura che meglio ci rende coscienti della interdipendenza. Ma rimane in fondo a me (eviterò di proposito di affermare "di tutti noi") una dimensione personale e individuale che non si può annulare semplicemente guardando le cose da un angolo più ampio e\o cosmico. Se non ci fosse un senso non-interdipendente, come potremmo affermare di esistere? E nessuno di noi è disposto ad accettare di non esistere..anche perchè ciò equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio spirituale.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Sariputra

#29
cit.:Se non ci fosse un senso non-interdipendente, come potremmo affermare di esistere? E nessuno di noi è disposto ad accettare di non esistere..anche perchè ciò equivarrebbe ad un vero e proprio suicidio spirituale.

Esisteremmo ovviamente, ma in senso interdipendente. E' comunque così forte il senso dell'"Io sono colui che gode" nell'uomo che non è un 'pericolo' imminente (tutt'altro...)  ;D  ;D
Non lo vedrei proprio come un 'suicidio spirituale' , anzi...una rottura della dualità...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.