Cronaca di una morte annunciata

Aperto da Jean, 10 Marzo 2019, 15:12:12 PM

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Jean

Un lunedì (se non la domenica) di febbraio la spedizione di Nardi-Ballard sul Narga Parbat si è conclusa con la morte dei due forti e bravi scalatori.

Reinhold Messner, la compagna di Tom e altri avevano cercato di farli desistere, infine rispettando la loro volontà e determinazione all'impresa che se attuata li avrebbe annoverati per sempre negli annali della scalata. Addirittura per la via Mummery, da sempre considerata "impossibile", tanto più in invernale.

http://www.ladige.it/news/cronaca/2019/03/09/tragica-morte-ballard-nardi-reinhold-messner-gl-iavevo-detto-non-andarci


Perché hanno messo in gioco la loro vita, tentando i due colpi vuoti contro quattro carichi nel tamburo della pistola che è quella montagna nelle sue condizioni più inviolabili?

Nella storia delle spedizioni precedenti di Nardi e soprattutto gli strani eventi occorsi in occasione della riuscita scalata di Moro, Txikon e  Sadpara si trovano alcuni fili che conducono alla tragedia odierna.

http://www.montagna.tv/cms/93793/nanga-parbat-la-verita-di-simone-moro-a-filippo-facci/?r=1

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/10/daniele-nardi-e-tom-ballard-simone-moro-ho-visto-ogni-giorno-le-valanghe-che-cadono-sullo-sperone-mummery-fa-paura-andarci-e-un-suicidio/5026985/#cComments
 


A Simone Moro che si domanda come mai in 125 anni a nessuno sia venuto in mente di scalare il Mummery rammento l'impresa (a mio parere ancor più al limite) di Alex Honnold:

https://www.riflessioni.it/logos/riflessioni-sull'arte/al-di-la-dell'aldila-(artistico)/msg30745/#msg30745
 

RIP Daniele & Tom
 


WP - Cominciò tuttavia a maturare nella mente dell'autore l'idea di scrivere un romanzo sulla fatalità e sulla responsabilità, a partire dalla morte di Cayetano Gentile. Quando sua madre venne a saperlo gli vietò di scriverne finché fosse stata in vita Julieta Cimento, la madre del giovane nonché madrina di battesimo di Hernando García Márquez, fratello di Gabriel.
La storia maturò quindi nell'ombra per quasi trenta anni, finché nel 1980 la madre stessa comunicò all'autore, che in quel tempo viveva a Barcellona, la morte della signora Cimento, che non si era mai ripresa dal brutto colpo. A quel punto la scrittura poté finalmente iniziare, dopo la raccomandazione materna: "Trattalo come se Cayetano fosse mio figlio". La madre dell'autore tuttavia non leggerà mai il romanzo, pubblicato un anno dopo, con la motivazione che "Una cosa risolta così male nella vita non può risolversi bene in un libro."
 
 J4Y
 
 
 

Socrate78

#1
Sinceramente la morte degli alpinisti non mi ha mai commosso, né mai mi commuoverà, ma mi lascia completamente indifferente. Ciò che fanno è un narcisismo stupido, sì, proprio così, una montagna è sempre stata lì e non ha mai dato fastidio a nessuno, quindi perché scalarla? Per dimostrare cosa, di essere potenti, forti, invincibili ? Poi per salvare un alpinista in difficoltà altre persone vengono messe in pericolo per colpa della loro temerarietà, quindi si tratta solo di scriteriati, amano il rischio? Se lo tengano, io non verserò una lacrima per loro, potevano impiegare la loro vita in maniera molto più utile, sono pseudo-eroi del nulla.

Jean

Sinceramente ogni morte mi commuove un po',  se non altro perché preannuncia la mia (concreta eventualità che non mi lascia del tutto indifferente)... tutti noi siamo "oggetti" con la data di scadenza stampata, solo che è sul lato non a vista, cosicché ci rimarrà ignota sino all'ultimo...

... ma se non fossimo solo "oggetti", ci sarebbe modo di saperlo? Certo, "prima" di oltrepassare la soglia dell'esistenza, ché dopo "la livella" ci rende tutti uguali, democraticamente uguali.

Molti rispondono a questa domanda con un'altra: come stai vivendo, quali sono i tuoi valori, aspettative, etiche... e come/quanto riesci a condividerli con gli altri?

Per te che ti sei professato credente la strada è già segnata e quanto più vi sia aderenza a quella, maggiore sarà l'appagamento, in vista di un obiettivo superiore alla vita stessa. 

Chi non abbia trovato la sua strada continua a cercarla in molti modi e la scommessa di Pascal rimane un esercizio di logica, non la risposta.
Perché questo genere di risposte "vanno vissute" e ognuno ne ha di diverse dagli altri e diversi modi per "viverle". 
Personalmente ho rispetto per tutte e mi incuriosiscono maggiormente le risposte che mi son più distanti, perché misurano la mia capacità di com-prenderle o almeno di accettarle (con beneficio d'inventario).

Pure da non appassionato di montagna ho blandamente seguito negli anni le imprese degli scalatori, tanto più che l'Italia ne ha avuti ed ha di eccezionali (Bonatti e Messner, per dirne due).

Ultimamente a causa del riconoscimento ottenuto dal documentario su Alex Honnold e la contemporanea spedizione di Nardi-Ballard ho sentito di approfondire la faccenda, di penetrare un po' più a fondo in questo mondo che conta tanti appassionati e (un po' meno) detrattori.

Oggi sono disponibili una incredibile quantità di documentari e articoli, da vedersi comodamente seduti sul divano... ma per capire come si sta davvero in acqua occorre bagnarsi, per cui mi rendo pienamente conto quanto il mio approccio sia inadeguato, da spettatore... però come si "entra" nella trama del libro che si legge altrettanto si può, empaticamente, "provare qualcosa" al veder gli occhi accecati dal sole sulla neve, al crollare schiantati di fatica con gli arti che si van congelando... ecc.

Certo vi son molti stupidi al mondo e non credo che la campana gaussiana privilegi per quantità (e similitudine di forma) gli scalatori, penso siano uniformemente distribuiti.

Tu almeno hai espresso la tua posizione (e dai commenti che leggo in rete molti la pensano come te)... così che ora sei tu che mi incuriosisci... nel senso di "impermeabilità" rispetto alle situazioni vissute dai nostri compagni d'avventure in questo mondo, gli uomini...

Sai, un tempo mi intristivo ad esser men che zero in campo musicale (pur apprezzandola la musica... ma non ho orecchio, come si dice) e in molti altri campi. Ma oggi ad ascoltare e vedere all'opera meravigliosi talenti non sento d'esser escluso da quei precipui mondi... magicamente mi ci ritrovo dentro e non avverto più la distinzione tra chi fa e chi fruisce... è tutto collegato...

Un accenno sul concetto di "utilità" (argomento immenso): hai idea di quante persone vivono (portano a casa il pane, si può dire) sulle corde, attrezzature ed indumenti per la montagna... strutture ricettive, trekking, portatori (tra i quali i mitici sherpa), filmati e riviste, circoli... ecc. ecc.?

Vi son modi più "utili"?

La politica? Gli eserciti con i loro armamenti? Gli integralismi? Ecc. ecc.
 


A chi desideri conoscere un po' più a fondo i protagonisti "dell'impossibile" mondo della montagna, consiglio questo articolo:
https://running.gazzetta.it/camminare/10-12-2018/elisabeth-revol-il-ritorno-della-donna-di-ghiaccio-ora-sogno-leverest-50341
 

J4Y

tersite


-->  Sinceramente la morte degli alpinisti non mi ha mai commosso, né mai mi commuoverà, ma mi lascia completamente indifferente. Ciò che fanno è un narcisismo stupido, sì, proprio così, una montagna è sempre stata lì e non ha mai dato fastidio a nessuno, quindi perché scalarla? Per dimostrare cosa, di essere potenti, forti, invincibili ? Poi per salvare un alpinista in difficoltà altre persone vengono messe in pericolo per colpa della loro temerarietà, quindi si tratta solo di scriteriati, amano il rischio? Se lo tengano, io non verserò una lacrima per loro, potevano impiegare la loro vita in maniera molto più utile, sono pseudo-eroi del nulla.

Sinceramente la morte degli alpinisti mi ha sempre commosso, continuerà a commuovermi, e mi lascia profondamente coinvolto.
Ciò che fanno è testare il limite umano, proprio così, una montagna è lì solo per essere scalata, presente in tutti noi,quindi perchè non scalarla? Per testimoniare la nostra pochezza, la nostra debolezza, la paura?  Poi per salvare un alpinista in
difficoltà altri alpinisti mettono a rischio la loro vita a causa della vicinanza che sentono nei suoi confronti, perchè amano la vita ? Che lo cerchino finchè possono, avrò sempre un pensiero per loro che hanno impiegato la vita per dimostrarci quanto piccoli siamo nel nostro misero nulla.


Questo solo per mantenere aggiustare i pesi.
Avendo così gravemente appesantito un post nato "a seimila metri di quota" diventa una questione karmica pareggiare i conti lettera per lettera.
Ogni definizione è artificiosa e in ciò è il suo potenziale evolutivo. (anonimo)

sgiombo

Francamente non saprei cosa dire.

La morte, specie se "prematura", comunque angustia sempre chi ne é spettatore, più o meno vicino.

Anche se trovo sbagliato correre rischi spropositati.
Mi chiedo (probabilmente, anzi quasi sicuramente perché "profano" dell' alpinismo) che bisogno c' é di cercare di scalare una vetta in inverno, con alte probabilità di perdere la vita, quando si possono dimostrare le proprie capacità anche nella bella stagione, correndo meno rischi (pur sempre correndo il pericolo di morire prematuramente, ma in termini più "ragionevoli").

Non posso però dimenticare che da giovane, quando avevo "perso la fede" in Dio (come dicono quelli che ci credono, a cominciare dalla mia vecchia mamma; o più prosaicamente avendo smesso di credere  nella sua esistenza) e non avendo ancora trovato scopi per i quali vivere con soddisfazione (essenzialmente lottare per un mondo migliore, come avrei imparato poi; ma oggi si può dire anche per la sopravvivenza stessa dell' umanità) ero affascinato dagli sport motoristici che allora mietevano vittime in misura che oggi mi sembra inammissibile, orrenda.
Ora le cose sono cambiate, per fortuna, ma soprattutto grazie all' impegno di alcuni piloti, il grande Jackie Stewart innanzitutto, che aveva perso colleghi che erano anche suoi fraterni amici, ma quasi tutti i migliori di allora, gente che aveva esaltato la mia giovanile fantasia, i fantastici fratelli Rodriguez -a quasi dieci anni l' uno dall' altro- l' insuperabile, leggendario* Jim Clark, lo strepitoso Jochen Rindt -unico campione del mondo alla "memoria", essendo deceduto prima della fine dal campionato con tanto vantaggio sul secondo classificato da non poter essere raggiunto nelle ultime gare rimaste- il fuori-della-norma-dieci-anni-avanti Jarno Saarinen, il mio conterraneo Angelo Bergamonti -sempre il primo dei poveri, quelli con moto artigianali a due cilindri, che mori quando finalmente gli era stata affidata una moto competitiva a quattro cilindri che avrebbe meritato di guidare da tanti anni, e tantissimi altri sono morti in incidenti di gara.
Alla fine degli anni sessanta i maligni dicevano che in media ogni tre gran premi si aveva un incidente mortale, e -dannazione!- bisognava ammettere che avevano proprio ragione.

Oltre a piacermi la guida sportiva della moto e della macchina (ancora mi da un piacere fortissimo), mi faceva impressione il fatto che costoro (almeno nella mia fantasia di adolescente ingenuo) avevano trovato qualcosa per il quale valesse la pena di vivere e financo di morire, mentre io ero rimasto orfano di un motivo per vivere... 

___________________

* MI piace raccontare ai giovani che potrebbero nutrire interesse per la materia tre episodi davvero leggendari.

Durante le prove del Gran Premio di Francia del 1963 o 64 (non ricordo bene), credo ad Albi, rischiò restare cieco da un occhio perché colpito "al volo" da un passero; l' indomani corse evinse.

Vinse il gran premio degli Stati Uniti del 1966 arrivando al traguardo su tre ruote (la Lotus, cui fu sempre fedele pilota, leggerissima e fragile, era famosa per perdere ogni tanto le ruote -analogo fu l' incidente mortale di Ricardo Rodriguez e pure da incidenti meccanici furono causati quelli che uccisero Jochen Rindt e Jim Clark stesso; in quell' occasione il pezzo si staccò all' ultimo giro, ma il vantaggio accumulato gli consentì di tagliare per primo il traguardo su tre ruote).
Quella fu anche l' unica corsa di Formula1 vinta da un motore a ben 16 cilindri: il celebre BRM "ad H", dalla pregevole "architettura" ma scarsissimamente competitivo).

Posso vantarmi di dire "io c' ero!" ad assistere al terzo episodio leggendario. Era la prima, indimenticabile corsa cui assistetti in prima persona, il gran Premio d' Italia del 1967 a Monza.
Nei primi giri forò una gomma e fu costretto a fermarsi a cambiarla perdendo un giro di pista da tutti.
Giro che incredibilmente si riprese con una rimonta incredibile dall' utlimo al primo posto, frustrata dalla fine della benzina all' ultima tornata (era andato così forsennatamente da consumare più del previsto!).
Arrivò terzo per inerzia (ultime centinaia di metri percorsi "in folle") ma lo portammo (veramente lo portarono, io ero poco più in là) in trionfo insieme al vincitore, il mitico John Surtees detto "il figlio del vento", unico campione del mondo sia di motociclismo che di automobilismo (e uno dei pochi che "portò a casa la pellaccia", essendo morto qualche anno fa in tarda età; subì però un specie di nemesi fatale: suo figlio morì giovanissimo in uno dei pochissimi incidenti di corsa luttuosi che ancora oggi accadono -!- pochi anni prima della dipartita del padre stesso).

MI scuso per le chiacchiere con i molti ai quali certamente non interessa tutto ciò (ripensando con entusiasmo a questi lontani episodi mi rendo però conto di come non possa essere in diritto di "sindacare" sulla morte di Nardi e dell' altro alpinista sull' Himalaia).

Socrate78

Che cos'è una sfida? Una sfida è una competizione in cui due persone o due squadre decidono in maniera consenziente di misurarsi, di testare i propri limiti, ma per esserci sfida ci devono essere due fattori imprescindibili: consenso e soprattutto consapevolezza. Una montagna, tornando all'esempio, non può quindi essere l'oggetto di una competizione e di una sfida, poiché non è consapevole di nulla e quindi non può esprimere alcun consenso ad una sfida. Di conseguenza è irrazionale la pretesa di una scalatore di sfidare la natura e la montagna, visto che questi elementi non hanno alcuna intenzione di misurarsi con te. Andando a fondo, quest'istinto a sfidare, a misurarsi ad ogni costo, è nobile oppure non lo è del tutto? Io rispondo dicendo che è un istinto ambiguo, si tratta sostanzialmente di un impulso al dominio, è l'Io dell'uomo che vuole dominare l'ambiente circostante per sentirsi più forte della natura e quindi si cimenta in azioni rischiose, pericolose per la propria incolumità e quella delle altre persone che devono salvarti, in tutto questo non c'è un obiettivo davvero nobile che valga la pena di essere perseguito e la nostra vita è preziosa, non va sprecata in sport estremi, rischiando la vita stessa.

sgiombo

Prescindendo dalla questione particolare concreta, credo che in generale le sfide più avvincenti siano quelle con se stessi, i propri limiti, difetti, imperfezioni.

Alle scuole medie (le splendide scuole medie italiane di una volta), un giorno l' insegnate di ginnastica ci tenne una lezione teorica in classe (non in palestra, contrariamente al solito).
Ci parlò dello sport in generale e ci spiegò che in ordine di importanza ci sono i rekord provinciali, poi quelli regionali, poi quelli europei (o meglio continentali) e in cima a tutti quelli mondiali.
Poi aggiunse:

"E poi c' é il primato in assoluto più importante di tutti, il rekord personale".

Ipazia

Citazione di: sgiombo il 11 Marzo 2019, 19:18:19 PM
"E poi c' é il primato in assoluto più importante di tutti, il record personale".

Quello degli scalatori, esploratori, amanti degli sport di fatica: in gara con se stessi. Ma non tutti lo possono capire e si inventano le motivazioni più strampalate. La gara con se stessi è la più importante perchè se perdi può anche succedere che non ci sia la rivincita. Pertanto richiede grande misura ed equilibrio. In fondo la vita stessa è una gara con se stessi fino alla sua fine.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Kobayashi

Tentando quella via che si può superare solo se si ha la straordinaria fortuna di non essere travolti da blocchi di ghiaccio che la montagna scarica in continuazione (come ha spiegato Messner), Nardi ha dimostrato di non avere rispetto della propria vita, della vita dei suoi familiari (in particolare di suo figlio di un anno a cui toccherà crescere senza padre), dell'alpinismo (che è una sfida ai propri limiti, a limiti tecnici, non alla fortuna).
Io, mediocre dilettante alpinista, dico che queste avventure suicide non fanno nemmeno parte dell'alpinismo. Per cui la sensazione che provo è quella dello spreco, spreco di due vite umane che avrebbero potuto fare grandi cose con la loro forza e il loro coraggio e invece hanno voluto buttare via tutto in un azzardo privo di senso.

Freedom

C'è tuttavia una dimensione poetica, epica, addirittura spirituale dell'alpinismo che non va sottovalutata. Il problema è che, siccome è stato oramai fatto tutto, per dare "sapore" a questa dimensione diventa necessario andare "oltre". Oltre il buon senso intendo.

In questo caso, inoltre, c'è stata una forma di egoismo personale molto pronunciata. Mi riferisco con special riguardo alla vedova e all'orfano. In buona sostanza si è trattato di un gesto totalmente sconsiderato. Il voler superare l'impossibile o il quasi impossibile (sfidando irragionevolmente, come ben scrive Kobayashi, la fortuna) per fama, o, forse, per una sorta di "demone" interiore che, talvolta, si impadronisce degli uomini....diciamo d'avventura (aveva tentato di superare lo sperone Murray già quattro volte).

Credo tuttavia che abbiano ampiamente pagato il loro gesto e, pur nel dispiacere di rilevare che anche altri paga la loro avventatezza, un pensiero di tenerezza va a questi uomini pur sempre più "nobili" di chi pensa solo ai bassi e meschini istinti.
Bisogna lavorare molto, come se tutto dipendesse da noi e pregare di più, come se tutto dipendesse da Dio.

InVerno

Tendenzialmente da profano mi affiderei interamente al parere di Messner, se non altro perchè conoscendo il personaggio, li avrebbe criticati anche se avessero portato a casa la vetta (credo). Ho poca empatia invece per chi se ne sta seduto al colosseo aspettando, con il senno di poi, se girare il pollice per un verso o per l'altro. Se questi alpinisti erano degli scriteriati alla ricerca di notorietà, lo erano proprio perchè sapevano che qualcuno li aspettava già con le bandierine italiane in caso avessero raggiunto la vetta (i telegiornali, istagram e altri media poi non aspettano altro).
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Sariputra

GIORNI TRISTI

Ancor, pochi giorni fa, scrivevo a mia moglie,
che la vita, quassù, guarendo, germogliava
nell'aria calda della speranza e della primavera.

Poi, invece, tutte le mie speranze sono
crollate come foglie d'autunno e al sorriso
che ogni caldo alito del tempo mi
accompagnava verso il verde, ho risposto
crollando, soffrendo e pagando duramente
la mia sfida lanciata al monte: alla natura!

Ora, qui in linea,sul mio traguardo
di lotta, festeggio con il bicchiere in
mano, pieno del sorso donatoci da Dio,
la mia sconfitta!
Mi sento vinto, ma non vile!

Perché ho sfidato, di voler vivere in
paradiso, senza il consenso della mia ora?
Perché, superbo e forte,
credevo il monte ai miei piedi?

Or, in questi giorni tristi, pago amaramente
lo slancio del mio sangue e del mio carattere.
Ma ringrazio ancora e sempre Qualcuno che
mi ha concesso di vivere fra la sintesi
della bellezza purificata: la montagna!

Alfredo Paluselli - Baita Segantini 
28 aprile 1952
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Jean

#12
"Un giorno, qualcuno scalerà lo Sperone Mummery, se ne uscirà vivo per fortuna o per bravura poco importa. Allora tutte le parole che sono state fatte in questi giorni saranno dimenticate o saranno "storia", esattamente come fu per l'uccisione di alcuni "draghi" del passato (od "Orchi" che siano). Sarà così perché questo è l'alpinismo e questa è la natura dell'uomo, del suo innato spirito odisseico. Ciò potrà non piacere a chi oggi si pone come educatore d'ideali e di principi e distribuisce moniti, razionalmente anche giusti, ma pensati e dettati dalla convinzione che l'alpinismo sia soprattutto uno sport. La storia però dimostra il contrario e l'alpinismo sarà sempre più che uno sport. Ci sarà sempre chi quelle colonne d'Ercole vorrà oltrepassarle, che si chiami Honnold, che si chiami Nardi o Ballard, sfuggendo al raziocinio del telespettatore, delle mamme, dell'osservatore occasionale e anche dell'alpinista "sportivo". Allora, ci si ricorderà di due piccoli uomini fortemente criticati in questi anni e anche in questi giorni, che sfidarono il drago in una lotta impari tentando di superare quelle colonne. In quel caso, non resterà che avere il dovuto rispetto che a tratti in questi giorni è un po' mancato."

http://www.mountainblog.it/redazionale/draghi-piccoli-uomini/


Articolo di un alpinista (e autore di un ottimo e specializzato blog).


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Forse sono stati uccisi dal freddo e dal vento Daniele Nardi e Tom Ballard. A pochi passi dalla loro tenda. Lì, a circa 5.900 metri sullo Sperone Mummery lungo la parete Diamir del Nanga Parbat, dove, secondo le ultime parole dell'alpinista di Sezze, "le temperature erano molto basse e soffiava un vento gelido". Ad affermarlo sono i soccorritori della squadra capitanata dall'alpinista basco Alex Txikon, che ha scrutato con il suo telescopio le due sagome rilevate sulla parete della montagna assassina

Daniele e Tom, secondo le ultime ricostruzioni, avrebbero attrezzato la via fino a circa 6300 metri, quindi sarebbero scesi al campo 4 dove avevano già posizionato la tenda. 
Ed è proprio in questo tratto che potrebbe essere accaduta la tragedia. Al vaglio della macchina dei soccorsi ora, cio che più sta a cuore ai famliari e cioé quando e soprattutto come recuperare i corpi dei due alpinisti. Daniele, parole sue, voleva fare una cosa incredibile, impossibile. Era il quinto tentativo, dettato dall'ambizione di tentare quella via scelta nel 1895 dall'alpinista inglese, da cui prende il nome appunto lo sperone Mummery. 

Ad accompagnarlo in quell'avventura sono stati nel tempo compagni diversi. Ma forse nessuno credeva quanto lui in questo progetto, almeno fino all'incontro con il giovane Tom, figlio d'arte. La cima del Nanga Parbat Daniele l'aveva sfiorata nel febbraio 2015 percorrendo un'altra via: la Kinshofer, considerata da tutti molto più accessibile e meno rischiosa. Al suo fianco, per un incredibile gioco del destino, proprio Alex Txikon e Alí Sapdara, due dei soccorritori. Dopo aver raggiunto la quota di 7.830 metri, i tre avevano scelto di tornare indietro. Ad un soffio dal mito, per salvaguardare la vita di Ali che aveva iniziato a mostrare i sintomi di un edema cerebrale. Già, perche Daniele in fondo era cosí. La vita e i valori prima di tutto. A dispetto dei commenti spesso superficiali fatti nelle ultime ore. Ecco cosa ci aveva raccontato al rientro da quella spedizione. 

Nel 2016 poi la spedizione che forse gli aveva lasciato piu l'amaro in bocca. Discussioni, attriti con i compagni, polemiche, divergenze. E alla fine la rinuncia al tentativo di scalata. Scalata che poi sarebbe entrata nella storia con l'ascesa di Simone Moro, Alex Txikon e Alí Sapdara. La via era un'altra, quella definita "normale", non quella attraverso lo sperone, ma chissà quali sarebbero stati i pensieri e gli obiettivi di Daniele se in quell'occasione avesse raggiunto la cima della nona montagna più alta della terra. Perché la sua non era una semplice ossessione, era la ricerca di un sogno, era la voglia di scrivere la storia armato di piccozza e ramponi. Daniele credeva a quella via. Aveva deciso di affrontarla anche in solitaria. Aveva studiato quello sperone, lo considerava pericoloso ma non impossibile. E non era casuale la scelta della stagione invernale, scelta giudicata frettolosamente e in maniera errata negli ultimi giorni. Paradossalmente infatti l'inverno, con le sue rigide temperature, offre una scalata più sicura anche se le finestre di bel tempo sono più brevi. 

Ovvio, chi intraprende la via dell'alpinismo può calcolare i rischi, può limitarli, ma mai cancellarli del tutto. "Andarci era un suicidio", ripetono oggi in coro esperti e meno esperti del settore. Ma noi vogliamo onorare la memoria di Daniele che abbiamo conosciuto e intervistato più volte, prendendo a prestito le parole di uno dei più grandi alpinisti di sempre, Reinhold Messner: "L'impossibile è solo qualcosa che non è ancora stato fatto. Ci sarà sempre un impossibile da qualche altra parte [...]. Dove ci sono anche i pericoli, che fanno aumentare la nostra paura, perché nessuno vuole morire lassù". Il corpo di Daniele, insieme a quello di Tom, lassu ci è rimasto. Insieme ai suoi sogni, alle sue speranze, al suo entusiasmo. Tra le nubi tempestose del Karakorum.

https://www.youtube.com/watch?v=msUJAua8t14


(PS- il termine "assassina", riferito alla montagna, ritengo vada inteso in una accezione letteraria e non quale reale "indole" di una vetta)

J4Y

baylham

"A Daniele Nardi, tre o quattro anni fa, dissi che salire sullo sperone Mummery non è un atto eroico, ma è stupidità"
"Certo, chi va in montagna rischia sempre però l'arte dell'alpinismo sta nella capacità di superare difficoltà e di evitare pericoli e in quell'angolo di Nanga Parbat, alla base del Mummery, non si possono aggirare i pericoli e un bravo alpinista in quell'angolo non va"

In sintesi Messner ha detto che i due non erano bravi alpinisti: anche se il tentativo riuscisse sarebbe solo un colpo di fortuna.
Condivido.

Non conosco le motivazioni dei due, non sono interessato ad approfondirle. Sono allergico all'alpinismo professionale, è un gioco malsano, velenoso, tra alpinista, imprese (nel senso di sponsor e mass media) e pubblico.






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