Edipo, Gesù e la morte del padre

Aperto da Jacopus, 19 Gennaio 2025, 09:55:35 AM

Discussione precedente - Discussione successiva

Pio

"la Legge è fatta per l'uomo, non l'uomo per la legge" si dice in Marco. Quindi la vita dell'uomo sovrasta la legge e, se si attiene ad essa, è per un auto limitarsi; un auto limitare la propria pulsione distruttiva. La legge è l'abito della convivenza sociale. È ciò che è esterno, fuori di me e che mi sento di trasgredire, di non rispettare, se questo abito confligge con il mio abito interiore.
Non ci abitueremo mai ai metodi ruvidi di Dio, Joseph (cit. da Hostiles film)

Duc in altum!

Citazione di: Jacopus il 19 Gennaio 2025, 17:46:35 PMMa quello che volevo sottolineare riguarda proprio il fondamento. Il senso del padre. Il senso del padre che organizza la società. E nelle religioni monoteistiche questo senso del padre è un senso dove non è possibile il conflitto, poichè il conflitto comporta la cacciata dall'Eden o la riduzione ad Angelo Maligno.
Quindi sì che è possibile il conflitto.
Quello che non piace è l'esito, il risultato inesorabile.
Anche se non tutti (vedi Giacobbe o il figliol prodigo) quelli che hanno litigato con Dio sono stati cacciati o ridotti... anzi!

Il Padre - che non è i nostri genitori effettivi terrestri - non è difficile da capire, è solo difficile da accettare.
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

Jacopus

Accettare il padre significa non crescere. Restare in uno stato di minorità che giustifica ogni altro stato di minorità. Dalla donna, al nero, all'animale, al comunista o al cattolico.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Koba

Qualche pensiero su Francesco d'Assisi e sulla sua trasgressione alla Legge del Padre.
In questa faccenda qualcosa non torna. Ammettiamo pure che il ragazzo si sia ammalato gravemente, che sia dovuto rimane a letto a lungo, tanto a lungo da doversi aiutare con un bastone per muoversi una volta alzato. E una bella mattina di sole, uscendo di casa, passeggiando fino ai prati e i campi che circondano Assisi, non sente più nulla.
Tommaso da Celano, l'unico biografo decente, dice che tutto quanto c'è di bello, i vigneti e la campagna curata, ora a lui "non dava più alcun diletto", e che da quel giorno "cominciò a disprezzare ciò che prima aveva ammirato ed amato".
Ecco il crollo melanconico e la verità del mondo che appare nuda, deserta, insapore, una volta ripulita da illusioni di avventure e scherzi e prosperità.
Dopodiché inizia la fase del tira e molla, della mania e del nulla, dell'eccitazione folle e dello svuotamento, fase che ogni alchimista che si rispetti conosce fin troppo bene: dall'ipnotica tristezza in un pomeriggio giallo d'inverno, arrotolato senza memoria in un fosso accanto alla strada volendo essere solo pietra, si risveglia al sogno della produzione dell'oro. Si alza a fatica e inizia a barcollare fino al proprio laboratorio.
Anche Francesco, nei giorni che precedono la spedizione di guerra verso Sud a cui avrebbe dovuto partecipare, fa un sogno da alchimista: la propria casa piena di armi di fattura pregiata, di metallo indistruttibile.
Sogno che Francesco interpreta come un buon auspicio per la spedizione militare, a cui però decide di non partecipare. Qualcosa non va. Fino a qualche giorno prima era entusiasta di questa avventura, ora lo annoia.
Allora cambia avventura. Si dà a quella religiosa. Perché? Ma perché perdendo ogni interesse per questo mondo, volendosi salvare dalla tristezza, non c'è nulla di più naturale che buttarsi in una materia che dichiara la realtà terrena bella che morta per corruzione, e rivela che un'altra vita è possibile.
E i suoi primi passi nella preghiera li compie in una grotta. Tommaso racconta che accompagnato da un amico si recava spesso in questa grotta vicino la città. L'amico resta fuori. Lui, dentro, sprofonda nell'oscurità materna della terra, in una beata regressione.
"Gioiva che nessuno sapesse che cosa facesse là dentro", scrive Tommaso. "Era in preda ad una vivissima agitazione", "pensieri di ogni specie si succedevano nella sua mente, turbandolo molto con la loro insistenza".
Fase maniacale, a quanto pare.
E gioiva del fatto che era il suo segreto. Che aveva un segreto, e che questo segreto era il suo tesoro nascosto.
Da qui in poi sarà un iperbolico viaggio verso l'impossibile.
Sì, va bene, questa vita fa schifo, i suoi commerci, l'ostilità delle persone, la violenza, tutto ciò che è terreno sembra essere l'opposto di ciò che ciascuno desidera veramente, ma allora, una volta abbandonato tutto, che cosa fare?
La domanda fatidica di ogni pellegrino dello spirito. Di ogni religioso, finito il tempo misterioso e sognante del noviziato.
Predicare? Andare nel deserto? Lavorare con i più poveri? Rifugiarsi in un monastero? Organizzare un nuovo ordine religioso?
Tutto è già stato fatto. Eppure qualcosa bisogna fare, non si può soltanto vivere, non ci si può fermare, che altrimenti la melanconia potrebbe tornare. Bisogna continuare a correre. Missione dopo missione, digiuno dopo digiuno.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Duc in altum!

Citazione di: Jacopus il 08 Febbraio 2025, 10:02:18 AMAccettare il padre significa non crescere.
Rispetto questa tua fede, ma per il cristianesimo è proprio il contrario: accettare il Padre per poter compiere (la vera e piena crescita) autenticamente la personale natura umana e divenire extra-umano per sempre... già in vita!
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

Duc in altum!

Citazione di: Koba II il 08 Febbraio 2025, 11:16:00 AM
Sì, va bene, questa vita fa schifo, i suoi commerci, l'ostilità delle persone, la violenza, tutto ciò che è terreno sembra essere l'opposto di ciò che ciascuno desidera veramente, ma allora, una volta abbandonato tutto, che cosa fare?
La domanda fatidica di ogni pellegrino dello spirito. Di ogni religioso, finito il tempo misterioso e sognante del noviziato.
Predicare? Andare nel deserto? Lavorare con i più poveri? Rifugiarsi in un monastero? Organizzare un nuovo ordine religioso?
Tutto è già stato fatto. Eppure qualcosa bisogna fare, non si può soltanto vivere, non ci si può fermare, che altrimenti la melanconia potrebbe tornare. Bisogna continuare a correre. Missione dopo missione, digiuno dopo digiuno.
Se tutto fosse già stato fatto, Gesù già sarebbe ritornato.
Finito il tempo del noviziato, ognuno deve percepire, incontrare la propria vocazione, che non è più far quel che si vuole o quel che personalmente si crede sia il da farsi, ma divenire il progetto di Dio su di lui.

Quindi concordo pienamente il tuo: missiome dopo missione, digiuno dopo digiuno, ma la chiamata può essere anche di restare - con fede in quel segreto ormai rivelatosi - nel commercio, tra le persone, con la violenza.
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

niko

Io credo che la creazione (questo bel capolavoro di mondo, in senso ironico) sia cosi' piena di errori e di orrori, di molti dei quali l'uomo, a parte favolette religiose, sul peccato originale, e' chiaramente e palesemente innocente (malattie, vecchiaia, cataclismi, incidenti, morti improvvise), mentre di altri e altrettanti e' se vogliamo e' in parte colpevole, ma con molte sociali e psicologiche giustificazioni (guerra, fame, oppressione eccetera) che l'unico Dio amabile, dal punto di vista, reale, e giustamente risentito, dell'uomo, l'unico Dio con cui l'uomo si possa riconciliare, sia un dio inesistente, o al limite senno' uno esistente, ma espiante la colpa della sua (folle, ed egoistica) creazione.

Chi non esiste, ed e' solo favola e leggenda, per definizione non ha colpa.

Anche, naturalmente, chi espia, la sua colpa, per definizione non ha, piu' da un certo momento in poi, colpa, per quanta ne possa avere avuta in passato.

Con il teicidio per mano umana, ovvero con l'umanita' che mette sotto processo Dio, nella figura di Gesu', e lo ammazza, in cui culmina, o almeno sembra culminare, l'Incarnazione come fatto storico, se si prescinde un attimo dalla resurrezione, si riconsegna Dio, alternativamente, o (direttamente) alla realta' della sua inesistenza, (l'accusa, al Cristo, per cui viene messo a morte, e' di essere un falso, messia e Figlio di Dio); o a una, finalmente, "rinnovata", esistenza espiante, proprio sulla croce, la "paterna", e in senso lato genitoriale, divina colpa (colpa della assurda e malevola creazione divina, remota nel tempo, e colpa della palese inerzia di dio fronte al male, attuale nel tempo).

Non vorrei sembrare ne' blasfemo ne' particolarmente pessimista o melanconico, ma, visto lo stato attuale del mondo, non sono io, che devo espiare davanti a dio. E' dio, che, se ha creato questa roba e la mantiene in essere, e tanto piu' se mi ha creato imperfetto avendo potuto, e non voluto, crearmi perfetto, deve espiare davanti a me. O in alternativa, se proprio non espia, deve, allora, evaporare in una pura leggenda, farsi dio/inesistente, e riconsegnarmi alla mia (effettiva) condizione increata.

A queste sole condizioni, lo posso amare. E quindi puo' avvenire una, appunto "riconciliazione". Tra di noi. Diversamente, no. Un Dio con ancora sulle spalle la colpa, della creazione, non e' amabile. Quantomeno, non a mio giudizio. Solo, semmai, temibile.

La morte di dio, in senso nietzscheano piuttosto che evangelico, soddisfa questo mio desiderio, di giusta espiazione, o se voglimo di vendetta.
Verso chi mi ha creato imperfetto, e destinato, temporaneamente o definitivamente che sia, alla sofferenza, pur potendo, fare diversamente. Un genitore onnipotente, a differenza di uno reale, che onnipotente non e', non ha scuse, per la mia sofferenza, per non avermi protetto da essa.

Esiste sicuramente un senso, nella vicenda dell'incarnazione, in cui Dio e' colpevole.

E questo, e' il riverbero dell'Edipo nella vicenda cristica, vicenda che poi, non e', in assoluto diversa da quella edipica, solo che per comprenderlo bisogna porre Dio/Cristo come un "padre" (Laio) e l'umanita' teicida (e con essa intendo ebrei, romani, tutti) direttamente come un, collettivo e massificato, figlio (Edipo). Che non riconosce il padre e lo ammazza, anche se il suo dire e fare esplicito assume, nella vicenda cristica, la forma del non riconoscere un "Figlio", e di ammazzarlo. Ma poi, quel Figlio verra' proclamato onnipotente, e partecipe della creazione, altrettanto come il Padre (il Verbo, l'Incarnazione, la Trinita', eccetera).
Asceso in cielo, nuovo genitore onnipotente, sedente alla destra del Padre, e tutto il solito corredo. Di poteri. E quindi, anche di colpe. Colpe, che sono tali quantomeno dal punto di vista di chi quei poteri non apprezza, o comunque, non tanto benevoli e "adeguati al compito", di togliere il male dal mondo, stima.

L'Edipo sta nel fatto, naturalmente, che tutto cio' era necessario.

E anche era necessario che subito dopo aver ammazzato il padre (e non, o comunque non solo, il figlio) questo "soggetto teicida collettivo", che poi siamo noi tutti, si pentisse, si strappasse i capelli, riproponesse ed innalzasse la girardiana "vittima" (sacrificale) come dio, eccetera eccetera. Ti penti, certo, quando scopri di aver ammazzato non uno di passaggio sulla strada, ma il padre. Tuo, padre. Ma ormai e', appunto, troppo tardi.




Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

Koba

#22
Citazione di: Duc in altum! il 08 Febbraio 2025, 14:52:42 PMSe tutto fosse già stato fatto, Gesù già sarebbe ritornato.
Finito il tempo del noviziato, ognuno deve percepire, incontrare la propria vocazione, che non è più far quel che si vuole o quel che personalmente si crede sia il da farsi, ma divenire il progetto di Dio su di lui.
Quindi concordo pienamente il tuo: missione dopo missione, digiuno dopo digiuno, ma la chiamata può essere anche di restare - con fede in quel segreto ormai rivelatosi - nel commercio, tra le persone, con la violenza.

Ma nessun cristiano sa con certezza se un proprio desiderio viene da Dio o dal Nemico.
"Sei dei nostri?", si chiedevano i monaci del deserto, esperti in questioni demoniache.
O, in termini psicoanalitici, nessuno può essere certo che una voce venga dall'inconscio, dalla propria singolarità, e non piuttosto dai maneggi compensatori del proprio Io – il traditore per eccellenza –, o dal sadismo di una morale esterna o di un Padre beffardo.
Così Francesco vive gli stessi dubbi di noi dilettanti.
Improvvisa. Si mette a fare il muratore, poi l'infermiere, quindi il predicatore vagabondo e via dicendo. E intanto si precisa lo stile di vita di questi "pezzenti". Ed entra in scena la tentazione dell'ascesi.
Infatti liberarsi dalla proprietà delle cose, dalle preoccupazioni materiali, a un certo punto non sembra più bastare.
Così come pregare un po', quando prima ci si limitava a biascicare qualche formula durante la messa della domenica, non sembra cosa sufficiente.
Di più, sempre di più.
Tommaso da Celano ci vorrebbe convincere che Francesco, ricevendo un segno dallo Spirito, arriva a concludere che la sua missione debba consistere nella predicazione: "infatti – scrive Tommaso – eran tutti caduti in profondo oblio del Signore e in torbida noncuranza dei suoi comandamenti".
Mentre dopo, grazie alla sua opera: "tutta la regione si mutò e divenne più ridente, perdendo il suo orrore".

Ma non è così. C'è sempre stato bisogno di piegare l'uomo allo spirito. Di umanizzare l'uomo, se così si può dire. Il punto non è questo.
Il problema è che non siamo capaci di vivere e mai lo saremo.
Manchiamo di qualcosa di fondamentale. E anche se arriviamo a capire che questo vuoto non si colmerà mai con i beni terreni, rimane il fatto della sua presenza e della necessità di inventarci un cammino – sempre illusorio – attraverso cui sanarci dal niente che ci abita.
Ecco perché la povertà arriva a trasformarsi da strumento di consapevolezza in un vero e proprio fine, qualcosa che ha valore di per sé, mentre il suo unico significato dovrebbe essere quello di mostrarci che senza beni terreni siamo più liberi e tranquilli. E a quel punto dovremmo allora iniziare a vivere, ma appunto, come ho detto, questo ci risulta semplicemente impossibile.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Koba

La tesi iniziale di questo topic, secondo cui la vicenda cristiana comporterebbe una certa staticità basata sul fatto che di fronte all'indiscutibilità della Legge del Padre non resta che la devozione, e quindi la permanenza nello status di figlio, può essere messa in discussione anche riflettendo sull'esperienza del mistico.
Il mistico, come abbiamo visto da qualche accenno sulla vita di Francesco d'Assisi, si imbatte a un certo punto nella chiamata, nell'irruzione dell'Altro. A cui segue una caduta dell'interesse per le cose del mondo. La rinuncia, almeno all'inizio, è completamente spontanea. Poi, in un secondo momento, diventa un metodo.
Metodo per che cosa? Per avvicinarsi a Dio, per farne "esperienza", per interagire con Lui, per viverne la presenza.
Il mistico dirà di se stesso: sono uno che cerca Dio, tutto qua, non molestatemi con i vostri dubbi teologici!
È questo il punto: qui non c'è devozione della Legge del Padre, ma piuttosto ricerca del senso che sta alla base di essa. C'è uno sforzo, a volte persino disumano, di decifrare la Parola di Dio, la sua volontà.
Ma il figlio che rimane per sempre tale non si interroga sul senso delle disposizioni paterne: si limita a eseguirle con la maggiore precisione possibile (come si vede nel fariseo, oggetto non a caso di un'intensa polemica evangelica).

L'ascetismo, che è la prima risposta naturale all'irruzione dell'Altro, può diventare però nel tempo una fuga e una soluzione completamente controproducente.
In pratica l'ascetismo anziché essere un indebolimento dell'Io in funzione di un abbandono al divino, può nascondere il suo opposto, ovvero il miraggio di un volontaristico controllo del cammino verso l'Altro. Che però, proprio a causa di questo rafforzamento dell'Io finisce per ritirarsi.
Nell'anoressia per esempio il digiuno diventa tecnica sopraffina per tenere a distanza di sicurezza l'Altro e per chiudersi in un godimento di cui si ha il pieno controllo.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Duc in altum!

Citazione di: Koba il 11 Febbraio 2025, 09:59:58 AMLa tesi iniziale di questo topic, secondo cui la vicenda cristiana comporterebbe una certa staticità basata sul fatto che di fronte all'indiscutibilità della Legge del Padre non resta che la devozione, e quindi la permanenza nello status di figlio, può essere messa in discussione anche riflettendo sull'esperienza del mistico.
Non c'è nessuna discussione: la creatura (il figlio) non può e non potrà mai divenire il Creatore (il Padre).

E' questo il cosidetto "peccato" delle origini (da cui derivano tutti gli altri "peccati"): illudersi di poter diventare o sostituirsi al Creatore.

Solo l'arrendersi ragionevolmente con fede (viste le nefaste alternative) a questo progetto divino, dona la serenità del cuore e la consapevolezza di essere un autentico umano e non una bestia.

Ma si può sempre - grazie alla fede - decidere di non arrendersi ed esistere nell'illusione...

"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

Phil

Citazione di: Koba il 11 Febbraio 2025, 09:59:58 AML'ascetismo, che è la prima risposta naturale all'irruzione dell'Altro, può diventare però nel tempo una fuga e una soluzione completamente controproducente.
La "naturalità" della risposta, secondo me, sta nell'istintivo rifiuto della trascendenza, nel senso di non accettare che la divinità sia estranea alla cercabilità (e reperebilità) nel mondo; e in questo il fenomeno dell'incarnazione "confonde", per così dire, ancora di più il credente che asseconda tale naturale avversione (anche come timore, vertigine, etc.) per l'eccedenza extra-mondana. Il voler incontrare, o addirittura rapportarsi a Dio, stando sulla terra, da vivi, è il rifiuto della divinità in quanto divina e al contempo dei limiti della propria umanità, nella speranza che l'umano possa incontrare il divino umanamente, con chiarezza e certezza, quasi fosse qualcuno difficile da trovare, ma pur sempre qualcuno, non un dio. La richiesta di Dio all'uomo (a quanto pare) è invece di avanzare nella vita terrena come Orfeo, senza "voltarsi" e pretendere di vederlo in volto; ma la natura dell'uomo è quella del Tommaso che "se non vede, non crede" e quindi, proprio come Orfeo a cui la legge sovra-umana impone di camminare con accanto Euridice ma senza guardarla, se invece vogliamo guardare, è il nostro stesso sguardo (a suo modo "libidico") a condannarci al fallimento (in questo senso Dio è un po' come "il gatto di Schrödinger").
Questo significa che, se per cercare Dio ci allontaniamo dal prossimo, percorrendo via ascetiche, creandoci un nostro mondo di solipsistica ricerca divina in questo mondo, un nostro mondo il cui l'altro umano è poco più che una comparsa da non calpestare, allora il messaggio di fratellanza del Dio cristiano (e della sua incarnazione) è maldestramente tradito ed è quindi presunzione sperare che, abbandonando gli altri, Dio si riveli e ci venga a "fare compagnia" placando la nostra sete di Alterità (il Dio che parlava in prima persona ai prescelti è Antico Testamento).
Per altre religioni, l'ascetismo può essere magari un percorso più "coerente" (v. sufi, induismo e altri), ma per il cristianesimo, dato il messaggio "filantropico" (etimologicamente) di Cristo, l'egocentrismo che ambisce al rapporto personale con Dio e vede eventualmente l'altro solo come poco più che un'"esca" per ingraziarselo, chiaramente si presenta come una forzatura (fallimentare) della volontà di Dio, la cui legge non è "Trovatemi nella solitudine!", in una sorta di "nascondino esistenziale", ma di altro tipo (almeno stando a quanto Cristo pare abbia detto).

Koba

[Rispondo a Duc e a Phil con lo stesso post, prima a Duc poi a Phil, più o meno...]

Come ha già spiegato Pio si entra nella vita, si diventa veramente umani, solo accettando il limite. Solo accettando un certo grado di castrazione. Non si può insomma avere tutto, non si può diventare come Dio.
Quindi si può andare in giro per il mondo proprio perché si riconosce l'esistenza della Legge.
Ma il fine di questo aggirarci per il mondo è la ricerca di ciò che abbiamo perso all'inizio. Ricerchiamo versioni minori di quell'Uno a cui abbiamo dovuto rinunciare.
Il senso delle cose non siamo noi a stabilirlo a tavolino, non è opera dell'Io. Quello che possiamo fare, qualsiasi sia la nostra fede sulla natura dell'Origine del senso, è accoglierlo. Che venga da Dio, dall'inconscio, dalla cultura, è lo stesso: trascende la vita reale.
Così cercare Dio è paradossale quanto cercare il senso delle cose della vita. Infatti cercando Dio non si cerca un oggetto reale, così come il senso della vita non è un aggregato di fenomeni.
Sono d'accordo sul fatto che il rifiuto di questa trascendenza porti al fallimento. E noto che tale fallimento è appunto analogo a quello di chi voglia possedere e controllare il mistero dell'arte. Anche qui, ci si può solo abbandonare alla creatività.
Ma l'ascetismo non implica necessariamente la separazione dagli altri per una vocazione esclusiva verso Dio. Se il mistico sceglie di isolarsi lo fa perché gli altri sembrano essere solo portatori di desideri mondani. Parlano di beni terreni e non capiscono come ci si possa rifugiare in una grotta a pregare perdendosi tutto ciò che il mondo può offrire. Da questo punto di vista la scelta più opportuna è la solitudine. Che nella storia di tanti santi si ribalta poi nella vita comunitaria, una volta trovati dei compagni di strada adatti.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Koba

Ma ammettiamo ora che il Padre sia in verità il nemico: il primo Padre innanzitutto, quello celeste, e poi a seguire tutti gli altri, creature più o meno inadeguate che ne hanno incarnato l'autorità, esercitando su di noi la loro sovranità tossica.
In effetti Laio, padre di Edipo, è la causa di tutta la tragedia familiare i cui effetti si faranno sentire fino alla terza generazione con Antigone e i suoi fratelli.
La colpa di Laio non è quella di avere abbandonato nella foresta il figlio neonato, condannandolo a morte (cosa che a quanto pare nella Grecia antica era una pratica legittima, un po' come per noi l'aborto), ma di averlo generato.
La maledizione si scatena nel momento in cui Laio si abbandona al desiderio sessuale per la moglie Giocasta, mettendola incinta.
Pur avendo avuto dagli dei, attraverso l'oracolo, il messaggio di non fare figli – secondo le parole di Eschilo: "non avere figli, salverai la patria", un'alternativa quindi: se vuoi essere un buon Re non devi fare figli – Laio, il lussurioso, responsabile qualche anno prima dello stupro del giovane figlio del suo amico e benefattore Pelope, non riuscendo a dominarsi si accoppia con Giocasta, che darà alla luce il piccolo Edipo.
Si può quindi presupporre che anche se il piano di Laio di sbarazzarsi per sempre del figlio fosse andato a buon fine, sarebbe stato comunque soggetto alla maledizione (ma in questo caso almeno il destino avrebbe colpito solo lui, non i suoi eredi che appunto non sarebbero mai esistiti).
Il peccato insomma era ormai stato commesso. Il classico peccato della tracotanza nei confronti degli dei. Non avere accettato i limiti.
Dunque Laio riesce nell'impresa di trasgredire per ben due volte la legge del Padre: per primo nei confronti degli dei, non volendo accettare l'imposizione degli dei a non generare, poi nei confronti del figlio, che una volta nato viene trafitto alle caviglie in modo che non sia in grado di camminare e poi abbandonato nella foresta per una morte certa.
In pratica Laio una volta commesso un crimine preferisce commetterne un secondo piuttosto che rischiare la vita (la minaccia dell'oracolo).
Ma se Freud può vedere nelle gesta di Edipo una verità nascosta (l'odio per il padre e l'amore incestuoso per la madre), noi possiamo vedere in Laio un complesso altrettanto inconscio: l'odio per il figlio che minaccia di prendersi ciò che gli appartiene, a cominciare dalla moglie.
Un complesso che precede cronologicamente quello di Edipo e che quindi ne influenza inevitabilmente le dinamiche.
La verità della Legge del Padre, che sul piano esplicito consiste in un equilibrio tra castrazione e iniziazione alla vita, è sul piano inconscio invece una minaccia di morte. 
Il figlio si vedrebbe così costretto o a rinunciare alla vita, vivendo nell'ombra e nella sottomissione al Padre – e solo così mi spiego come ci si possa adattare alla vita meschina del lavoratore moderno – o a farsi largo nel mondo a bastonate (come fa appunto Edipo all'inizio della sua carriera).
Il problema non sta tanto nel fatto che alcune declinazioni del Padre siano più simili a Laio che al buon Dio. Il problema sta nella possibilità di un assorbimento inconsapevole della verità di fondo. Il figlio finisce per assomigliare al padre, sempre. Fisicamente certo, ma anche nella sua eventuale pazzia.
Così, è questa la conclusione: in ognuno di noi alberga il nemico, che è la parte selvaggia del Padre, unica eredità sicura per tutti i figli.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Koba

Una regola elementare di strategia militare è: cercare sempre di confondere il nemico. Usare ogni mezzo per creare subbuglio.
Ma se il nemico è dentro di noi, come dicevo sopra, che fare?
Il dott. Benway, noto per essere "un manipolatore e un coordinatore di sistemi simbolici, esperto di interrogatori, lavaggio del cervello e controllo" (W. Burroughs, Naked Lunch, p. 32), negli anni '50 proponeva tecniche che conducevano il soggetto a convincersi di avere qualcosa di spaventosamente sbagliato e di meritare quindi severe punizioni.
L'accettazione del controllo, delle varie manipolazioni del corpo, delle più diverse forme repressive – da una burocrazia misteriosa e complessa a perquisizioni tanto arbitrarie quanto invasive –, diventavano concretamente possibili tramite l'assioma della colpa.
Una colpa originaria che nasce – questo è il punto – dal convincimento di avere in sé un nemico. Qualcosa di oscuro da cui necessariamente difendersi.

La psicoanalisi, come scriveva Elvio Fachinelli, "dopo lo squarcio iniziale ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare..." (E. Fachinelli, La mente estatica, p. 15).
"L'idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno" (E. Fachinelli, p. 16).
Percezione generale di un pericolo, quindi ricerca di sicurezza, quindi accettazione del controllo.
Così possiamo dire che l'opera di ingegneria sociale del dott. Benway si basava su un luogo comune "deviante" che viene dalla psicoanalisi stessa: una rappresentazione della mente in cui al centro c'è la necessità della difesa anziché la spinta all'apertura, all'abbandono.
L'inizio politico di questo topic andrebbe così rimesso in discussione da queste conclusioni: non è soltanto il monoteismo a spingere verso una società regressiva e paurosa, ma anche la psicoanalisi, o almeno una sua versione, che è poi quella probabilmente maggioritaria.
"Siamo qui in forma umana per imparare i geroglifici umani dell'amore e della sofferenza" [William S. Burroughs, lettera a Jack Kerouac del 24 maggio 1954, Tangeri]

Jacopus

Pensare alla psicoanalisi come ad uno strumento di repressione può cogliere una parte del messaggio psicoanalitico, ovvero quello classicamente freudiano, secondo cui il bambino perverso polimorfo va dotato di super-Io. In origine, secondo questa visuale, l'uomo è originariamente egoista e va disciplinato attraverso il senso del limite in modo che non giaccia con la propria madre e non uccida il padre, che simbolicamente rappresentano i limiti del vivere in società. A mio parere questa visione se completata da ciò che la psicoanalisi ha aggiunto in seguito, non ha nulla a che fare con la repressione.Anzi è il suo esatto contrario. Freud paragona spesso la psicoanalisi all'archeologia, ovvero ad un metodo di studio che tende a riscoprire ciò che è nascosto, nella convinzione che parte del nostro vero sè non è quello che mostriamo e che riteniamo sia la nostra identità. In questa ricerca del sommerso si esprime la famosa dichiarazione di F. secondo il quale "non si è piu padroni neppure in casa propria". Che questa logica possa essere usata da abili manipolatori è possibile, come del resto è avvenuto con Tommaso, con Hobbes, con Nietzsche, perfino con Cristo. Ma Freud è in realtà uno degli ultimi figli dell'illuminismo. Vuole rischiarare ciò che è oscuro, ciò che di noi, si appiattisce in cantina. Pensare di avere una modalità esclusivamente liberatoria e solare è un equivoco ancora più pericoloso di chi ammette di avere una natura ambivalente. Solo dalla ammissione dei nostri limiti e delle nostre contraddizioni può iniziare a nascere un mondo meno repressivo. Come puoi intuire in ogni caso, anche lo stesso cristianesimo invia messaggi che accolgono l'ambivalenza umana, ma alla fine c'è un padre che la supera quella ambivalenza e dice "io non sono ambivalente, perché sono oltre la vita e la morte".
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Discussioni simili (5)