L'intellettualismo etico di Socrate e le sue implicazioni.

Aperto da Socrate78, 03 Dicembre 2022, 13:36:34 PM

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Socrate78

Secondo la filosofia etica di Socrate sostanzialmente il virtuoso e il giusto è colui che conosce il bene, mentre il malvagio è un ignorante che non conosce che cosa sia il vero bene e il concetto di giustizia.  Per Socrate insomma l'etica è una questione di sapere, di conoscenza: se si conosce veramente la nozione di bene in tutte le sue implicazioni, non si può non volere il bene, perché il bene è l'oggetto della volontà di ogni uomo (anche del malvagio), e quindi una condotta deviante dal giusto è semplicemente il frutto di un'ignoranza di che cosa sia il vero bene per la persona.
Ma è davvero così, cioè è sufficiente sapere che cosa sia il bene per volerlo? Io non credo, ad esempio io posso benissimo essere consapevole che per una persona sia bene avere amici, ma posso rifiutare la sua amicizia con disprezzo, posso benissimo sapere che per un povero sia bene avere cibo e denaro, eppure posso rifiutare la sua richiesta di beni di prima necessità, gli esempi sono innumerevoli. La conoscenza quindi non sembra bastare per l'azione virtuosa, ma sembra necessaria la presenza di un sentimento di benevolenza (o compassione) che orienta la volontà verso il bene, perché altrimenti la pura razionalità non è garanzia di virtù. Anche Kant secondo me riprende l'intellettualismo etico, perché l'imperativo categorico della coscienza nascerebbe dalla ragione ed orienterebbe automaticamente la volontà all'azione virtuosa, perché com'è noto in Kant l'aspetto emotivo/sentimentale dell'etica è escluso e considerato anzi un elemento che inquinerebbe la purezza dell'azione morale.
Secondo voi è sufficiente conoscere veramente che cosa sia il bene (il bene assoluto intendo) per volerlo? Oppure è necessario un elemento in più che non sia la pura conoscenza per orientare la volontà verso il bene?

Jacopus

Davvero un bel argomento Socrate. Il topic potrebbe fare la fine di quello sul libero arbitrio se trova qualche facinoroso  :D. Da parte mia penso che processi cognitivi e processi emotivi sono sempre collegati, nel senso che di solito, a meno che non si sia schizofrenici, quello che si "pensa" deriva da quello che si "sente" o si è "sentito". Ad esempio, aver avuto un padre premuroso che non ha fatto mai mancare nulla al figlio e che gli ha voluto sinceramente bene, permetterà a quel figlio di essere a sua volta un padre premuroso, e questo è genericamente un bene. Ma se quel padre, durante la "all-day-life", avesse avuto pensieri e avesse diffuso in famiglia la sua ideologia fascista/comunista/liberista, quel figlio avrà molta difficoltà a scindere quel padre premuroso e la sua ideologia ed è molto facile che abbraccerà, proprio attraverso il contatto emotivo con il "buon padre", quella ideologia fascista/comunista/liberista.
Concludendo, i processi cognitivi non ci garantiscono di trovare una volta per tutte "il bene", ma neppure i processi affettivo-relazionali.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Socrate78

Se si fa tuttavia dipendere l'etica dal sentimento (come fa Hume quando pone alla basa dell'etica la "Simpatia") ecco che sorge un altro problema di non poco conto: essendo i sentimenti selettivi (si può infatti di volta in volta provare amore e odio a seconda delle persone che si incontrano), allora non si potrà mai essere virtuosi SEMPRE, ma a seconda delle persone con cui si avrà a che fare si potrà essere buoni, indifferenti o persino malvagi se si odia o si disprezza fortemente.  Quindi, se è vero che la pura conoscenza sembra non bastare per produrre la giustizia e la virtù, è anche vero che il sentimento non è in grado di dare all'azione etica quell'universalità che è necessaria affinché l'umanità, nel suo complesso, migliori e progredisca. Di conseguenza il dilemma sembra essere quasi insolubile o di difficilissima soluzione: dobbiamo fondare l'etica sulla ragione o su sentimenti che sono per definizioni selettivi e transitori?

niko

Uno dei problemi della dottrina dell'intellettualismo etico e' l'egoismo umano nudo e crudo: quello che secondo verita' e' "bene" per me, potrebbe non essere "bene" per un altro.

La classica situazione della competizione nello sport o nella lotta, in cui ognuno vuole vincere, e in cui agli occhi di ognuno e' un "bene" la vittoria, bene che pero' si puo' raggiungete solo a scapito degli altri.

Dunque e' aporetica la collocazione della figura dell'egoista puro (ad esempio, l'homo economicus moderno) all'interno di una dottrina dell'intellettualismo etico "puro": egli conosce, e fa, il bene per se', ma non per gli altri!

Bisogna comunque riconoscere che il Socrate platonico aveva un concetto abbastanza alto di giustizia da ritenere colui che facesse il bene solo per se stesso escludendo gli altri non un vero "buono", ma un buono deviato, non conoscitore del vero bene, e quindi di fatto un malvagio.

Il bene del Socrate platonico prevede l'intersoggettivita', e quindi la giustizia.

In generale la dottrina dell'intellettualismo etico valorizza sopra ogni cosa la conoscenza: in essa la conoscenza dischiude l'accesso al bene, la conoscenza salva.

La conoscenza in Platone, e quindi nel Socrate platonico, e' reminiscenza, e' legata a uno stato disincarnato prenatale, nel quale avvenne la contemplazione delle idee, e quindi l'unica vera possibilita' di conoscenza, che comunica con il presente tramite il ricordo.

E se la conoscenza e' salvezza, ed e' anche reminiscenza, la salvezza stessa e' reminiscenza.

Dipende dal nostro rapporto col passato, dalla chiarezza teoretica di questo rapporto.

Naturalmente si puo' svalutare il mito dell'iperuranio prendendolo come una metafora, ma io personalmente credo che il sentimento del tempo in Platone, e vieppiu' nella cultura in cui egli e' vissuto, sia fondamentale, ed e'un sentimento del tempo che valuta come migliore il passato.

La conversione al bene come antecedente logico, la ricerca delle cause del mondo materiale nell'intelligibile, parla la lingua della conversione al bene come antecedente temporale, la lingua della della nostalgia.



Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

Ipazia

La soluzione etica è,  fin dalla notte dei tempi, intersoggettiva, ponendo nelle tavole della legge principi cui tutti devono sottostare. Gli antichi deliberanti avevano già risolto l'inghippo della "simpatia", lasciando ai metafisici i rovelli del dubbio, e delle eccezioni che interessano pure i detentori del potere etico e politico.

Che Platone ci faccia un panegirico a ritroso nel cuore dell'iperuranio è un rafforzativo retorico per convincere anche i più diffidenti che il bene è una cosa seria.

Dire che questi metafisici antichi del bene guardassero nostalgicamente indietro mi pare riduttivo della coscienza che essi avevano della loro missione intellettuale. Uno non scrive "la Repubblica" e non inventa il mito della caverna per nostalgia, ma perché guarda avanti, nel futuro.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

bobmax

Le nostre scelte etiche non hanno a che fare con ciò che conosciamo, ma con ciò che siamo.

Non è la conoscenza che determina il nostro comportamento, ma il nostro stato attuale.

La conoscenza può, forse, incidere nel tempo su ciò che siamo.
Ma non è comunque il conoscere in quanto tale ad agire su di noi, è invece la sofferenza.
E la sofferenza ha sempre una sola motivazione: l'amore negato.

Direi perciò che ciò che ci può cambiare è l'inferno.

E all'inferno ci condanniamo noi stessi, proprio per quell'amore negato di cui siamo venuti a conoscenza.

Secondo me, la sofferenza ha lo scopo di farci migrare dal non essere, che è il nostro stato iniziale, all'essere.

Tutto avviene sotto la spinta dell'Amore.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Jacopus

Niko usa una parola che mi sta molto a cuore e che (in un'altra vita) vorrei approfondire: l'intersoggettività. L'etica è racchiusa in questa parola ed è il precipitato culturale di un modello biologico che abbiamo tutti noi mammiferi socievoli. Il bene potrebbe essere quel meccanismo per cui ci immedesimiamo negli "altri". Questo discorso attraversa tutta la storia culturale dell'uomo. Era sicuramente più semplice un tempo, quando gli "altri" erano i componenti della propria tribù/clan, gente che si conosceva, con la quale si andava a caccia, che erano cognati, nonni, nipoti, mogli, mariti, figli. In fondo questa è la nostra base antropologica e funzionerebbe benissimo anche oggi, se non avessimo sfidato gli dei e mangiato la mela del bene e del male. Da qualche millennio abbiamo così iniziato ad interrogarci: "chi sono gli altri a cui posso/devo fare del bene e gli altri cui posso/devo fare del male?".
A questa domanda il cristianesimo ellennizzato dei Vangeli ha dato una risposta affascinante, al punto che Katolikos significa "universale". Ma davvero siamo in grado di fare del bene all'universalità dell'umanità. Cosa significa volere il bene di 8 miliardi di individui?
E' questa una delle aporie fondamentali del nostro tempo. La globalizzazione ci ha universalizzato in quanto a stili di vita, consumi, beni, desideri...ma non riesce (forse perchè è impossibile) a globalizzare il nostro sentimento di "bene" nei confronti dell'universalità dell'umanità. Del resto è la nostra stessa storia a renderci difficile voler bene a tutti. Per quanto ci sforziamo vorremmo sicuramente più bene a chi condivide con noi i ricordi della serie televisiva "Happy days", piuttosto di chi invece si ricorda la saga di Bollywood di cui noi non sappiamo nulla.
Esistono diversi tipi di soluzione a questo problema:
1) Soluzione di Voltaire: "curare il proprio giardino". Soluzione elegante ed anche altamente etica, anche se venata di un certo egoismo.
2) Soluzione di Marx: " rendere l'umanità priva di classi sociali e quindi uguale". Il bene deriva da questa imposizione violenta iniziale, attraverso la quale l'umanità trova finalmente la sua armonia. A dire il vero questa visione, che ho ovviamente molto semplificata, mi ricorda sempre le immagini delle riviste dei testimoni di Geova, dove in copertina c'è un'allegra famigliola che campeggia dolcemente insieme a leoni e tigri, tutti lietamente.
3) Soluzione di Smith: "non esiste il bene etico, ma il bene economico, che se ben diretto contribuisce al bene e alla felicità di tutti". Anche in questo caso, come nel precedente, sembra di poter vivere nel migliore dei mondi possibili. Là bisogna però attraversare una rivoluzione, una escatologia quasi religiosa. Qui basta adoperarsi tecnicamente affinchè le regole già presenti dell'economia vengano razionalizzate e ben oliate, affinchè la mano invisibile non produca i suoi frutti. Purtroppo spesso la mano invisibile produce invece quel fenomeno che si chiama "fuck fisting".
4) Soluzione di Habermas/Honneth: "il bene etico va costruito attraverso il confronto e la sua determinazione da parte di una opinione pubblica all'altezza della complessità sociale". E' questa la soluzione che preferisco, che rieccheggia in modo democratico quello che già professava Platone, ovvero la necessità di una pedagogia della politica, affinchè la politica non diventa usurpatrice e maligna.

In tutto questo discorso tornano come un basso continuo i tre principi della rivoluzione francese, libertè, egalitè, fraternitè. La difficoltà consiste nell'applicare questi principi, non più ad una tribù, e neppure ad uno stato, ma all'intero agglomerato umano del pianeta terra.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

Citazione di: bobmax il 03 Dicembre 2022, 16:27:45 PMLe nostre scelte etiche non hanno a che fare con ciò che conosciamo, ma con ciò che siamo.

Perfettamente d'accordo. Fossimo puri spiriti potremmo pascerci, come il commendatore di Mozart, di cibo celeste e verrebbero meno le opere di misericordia corporale dell'etica cristiana

CitazioneNon è la conoscenza che determina il nostro comportamento, ma il nostro stato attuale.

Attuale inteso come actual, ovvero "reale". Concordo pure su questo.

Concordo pure sulla sofferenza, come viatico verso una vita, e una conoscenza di essa, più elevata.

"Ciò che non uccide, rafforza" disse un saggio sofferente. Ma limitarla alla parte spirituale e a carenze amorose mi pare tirare l'acqua ad un mulino metafisico decisamente esclusivo.

Amore è, come Dio, un variegato prezzemolo metafisico buono per qualsiasi teorema rigorosamente indimostrabile.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

viator

Salve. Le radici dell'etica affondano nella condizione preumana della istintività.

Sono esse a rappresentare la coscienzalizzazione dell'istinto di sopravvivenza.

Superata la condizione animale, l'"arrivo" della coscienza ha permesso all'uomo di poter affiancare all'istinto di sopravvivenza individuale e "solitario"......la capacità di astrarre e quindi "sentire", "capacitarsi", anche dell'esistenza dei propri simili e poi della stessa propria "alterità" nel confronti del mondo, della natura e della vita.


Praticare comportamenti etici e quindi tipicamente umani significa appunto essere diventati COSCIENTI della possibilità di sostituire (quando ciò venga giudicato di valore superiore e più collettivamente "vantaggioso") - al proprio naturale egoistico vantaggio...........dei comportamenti che potrebbero anche contraddire il proprio personale istinto di sopravvivenza e vantaggio immediato. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

niko

#9
Citazione di: Ipazia il 03 Dicembre 2022, 16:04:59 PMLa soluzione etica è,  fin dalla notte dei tempi, intersoggettiva, ponendo nelle tavole della legge principi cui tutti devono sottostare. Gli antichi deliberanti avevano già risolto l'inghippo della "simpatia", lasciando ai metafisici i rovelli del dubbio, e delle eccezioni che interessano pure i detentori del potere etico e politico.

Che Platone ci faccia un panegirico a ritroso nel cuore dell'iperuranio è un rafforzativo retorico per convincere anche i più diffidenti che il bene è una cosa seria.

Dire che questi metafisici antichi del bene guardassero nostalgicamente indietro mi pare riduttivo della coscienza che essi avevano della loro missione intellettuale. Uno non scrive "la Repubblica" e non inventa il mito della caverna per nostalgia, ma perché guarda avanti, nel futuro.


Platone e' anche il Platone dell'eta' dell'oro e del mito di Atlantide, il Platone che guarda al passato in un mondo, che guarda al passato...

la Repubblica non ha una collocazione specificamente futuristica e futura, come potrebbe averla una comune socialista o anarchica propria dell'utopia moderna, ma ha una collocazione secondo il kairos e l'occasione: laddove si verifica  l'occasione (un re che si "converte" e diventa filosofo oppure un gruppo di filosofi che fanno il colpo di stato e prendono il potere) li' si concretizza la Repubblica, che quindi e' una possibilita' che occupa tutta l'estenzione del tempo, passato presente e futuro.

In generale l'utopia moderna (socialismo, fascismo, anarchia, liberalismo...) si propone di forgiare l'uomo nuovo, e quindi ha una vera e reale preferenza etica verso il futuro; viceversa la Repubblica, che costituisce una, per modo di dire, "utopia antica", si suppone sia possibile proprio perche' nell'anima dell'uomo (considerata nella sua eternita', e soprattutto attualita') c'e' gia, una parte buona, e degna; quindi la sua possibilita'/kairos occupa tutto l'arco del tempo, senza preferenze per un avanti o un indietro nel tempo stesso.

Ovunque sia "ubicata" la Repubblica nel tempo, ovunque si trovi l'isola felice del "momento magico" nell'oceano di fango di un "triste tempo", il saggio e' gia', cittadino della Repubblica, perche' si lascia guidare gia', dalla parte migliore della sua anima.

L'iperuranio non e' un panegirico, proprio perche' in Platone e' serio il tentativo di ricondurre la conoscenza, come tecnica e virtu', alla dinamica memoria/oblio.

Il ricordare e' intermedio tra il sapere e il non sapere, e' il "filo" della filosofia, l'amore della sapienza: il ricordare e' la dimensione, piu' che la condizione, in cui vive Socrate.

E il ricordare implica una certa preferenza nel tempo e in quello che si vuole "ottenere" dal tempo, implica lo scrutare nel passato con l'aspettativa, e il desiderio, di vedere.

Platone vive in un mondo che prende sul serio la morte, la fredda morte: il mondo greco la morte non la occulta, pensando allo shopping di natale e altre cose amene, come facciamo  noi, e non si racconta la favola del paradiso cristiano, come magari potevano fate i nostri bisnonni; e, fregandosene della magra consolazione dei "campi elisi" considera come unica forma di sopravvivenza "importante", tale da far quasi sopportare l'orrore del non senso, l'accesso del singolo alla memoria collettiva tramite il potere dell'epica e della poesia: considera l'immortalita' di Ettore, di Achille e di Elena, e, al limite le vicende di Orfeo e Euridice.

La possibilita' stessa di sopravvivere alla morte, era consegnata a una dinamica collettiva, e dunque in certo grado intersoggettiva, di memoria/oblio; Platone visse presso un popolo epico, oltreche' tragico.

Popolo che stava passando da una cultura orale a una cultura scritta con forti complessita' e resistenze, che riverberarono nella posizione -ambigua- stessa che Platone assunze rispetto alla tecnica della scrittura.

Tale decadenza, e tale contemplazione eticizzante del passato come dolce accompagnamento alla morte, che caratterizza il mondo OMERICO, in cui nasce e si muove Platone, poteva solo essere trasfigurata, e in un cero senso razionalizzata, nella "nuova" (propriamente platonica) teoria della reminiscenza e della conoscenza salvifica/intellettualismo etico, non poteva essere superata in nessun socialismo ante litteram di uomini titanici, che guardassero al futuro con speranza.

Il theorein stesso, in quel mondo, la possibita' di guardare contemplativamente, era riservata al presente e al passato, non al futuro. Tanto che i poeti e gli indovini, che al futuro "guardavano", per modo di dire, erano ciechi.

Al futuro, caratterizzato da mancanza insanabile di oggetto noto, da realta' vivente della contraddizione, si accedeva con i sensi non della teoria.

La morte, era il futuro.

Il contrario esatto dei panorami visionari futuristici della scienza e dello sviluppo, il contrario di quello che siamo noi adesso.

Nella sostituzione dei discorsi ai miti, il fondamentale sentimento del tempo resta lo stesso, anzi si rafforza.

Quello che cambia, soprattutto e' che il theorein che scruta nel passato per sfidare la morte, da principalmente sonoro, e comunitario -epica e poesia- , diviene, con Platone e con l'inizio di una filosofia culturalmente egemone, principalmente visivo, e attinente all'individuo -teoria delle idee, cioe' delle forme-.

Da cui tutto dipende, compreso il bene come conoscenza salvifica.


Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

Ipazia

Non affermo che i pensatori antichi fossero affetti da fregole sulle magnifiche e progressive sorti e non contesto che la loro attenzione al passato fosse effettualmente forte (basti pensare all'argomento cardine della difesa di Antigone), ma erano pure saldamente radicati nel presente, luogo elettivo dello zoon politikon. Radicamento nel presente laddove l'orizzonte finale, la morte, non era edulcorato come nelle rivelazioni escatologiche che prenderanno poi il sopravvento. Ma era ricco di una humanitas - stoici, epicurei - tutt'altro che irriducibilmente tragica, ma epicamente presente.

Da questa centralità, anche temporale, umanistica - hic et nunc - abbiamo molto da imparare. Per bene che ci vada.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Jacopus

Molto interessante anche il discorso dell'etica collegato alla temporalità. Anch'io penso, come Ipazia, che nella storia del pensiero vi siano stati dei varchi che l'umanità non ha oltrepassato. Chissà cosa sarebbe accaduto in Occidente  se il successo del Cristianesimo lo avesse ottenuto lo stoicismo.

Tornando invece alla questione posta da Socrate, vorrei porre un esempio di storia verosimile per sottolineare come le scelte etiche siano complesse, anche senza scomodare l'uomo grasso da buttare sui binari.

Immaginiamo un tedesco che si arruola negli anni '30 nelle S.S. Una decisione che nasce da molti fattori, che non indaghiamo per brevità. Costui va in guerra e attraverso la guerra, le convinzioni già ferree, diventano inscalfibili, poiché accanto a quelle convinzioni teoriche precedenti ora deve aggiungere la morte o il ferimento dei suoi commilitoni, dei suoi amici. Di fronte a ciò, ogni ragione, ogni possibilità di fare una revisione delle proprie convinzioni, di ciò che è bene e ciò che male, recedono per far posto allo spirito di gruppo, alla difesa di Klaus e di Fritz e di Hermann, che sono persone in carne e ossa, che ridono e piangono ed hanno fatto delle cose con te. I processi cognitivi sono inutili a questo livello.

Se questo è vero, ogni ricerca del bene dovrebbe stare il più lontano possibile da ogni scissione in bianco e nero del mondo e delle idee del mondo, poiché in questo modo si creano le premesse per la divisione noi/loro, bene/male, amico/nemico e una volta attivata la scissione con la violenza non è più possibile integrare emozioni e ragione intellettuale, se non in casi molto particolari e con un dispendio di energie e risorse notevole, come nel caso della Commissione in Sudafrica volta a far riconoscere ai bianchi i loro crimini contro i neri.

In qualche modo il seme della violenza (e del male) e della incomprensione sta proprio in quella divisione originaria così netta, in quell'albero della conoscenza del bene e del male. Ma in quello stesso albero e nelle successive azioni di Adamo ed Eva vi è anche la prima apparizione di Prometeo e quindi della civiltà come noi oggi la conosciamo. La scissione bene/male ci ha introdotto ad un primo livello di civiltà, mentre prima non era possibile la civiltà. Ora si tratta di superare quel livello ed accettare l'ambiguità del bene e del male e considerarci tutti portatori dello stesso bene e dello stesso male. Insomma, quel livello che è stato introdotto dal Cristianesimo ma che non è mai stato attuato a fondo a causa del suo profondo esito rivoluzionario se davvero fosse attuato.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

daniele22

Una volta ebbi a dire a una persona che è facile sottostare ad una legge se non si compie alcuno sforzo per sottostarvi. Può esser questo sufficiente a sostenere che l'essere virtuosi possa anche essere una questione di fortuna? Secondo me sì, anche se certamente si tratta di casi particolari ... questo l'ho detto soprattutto perché vorrei togliere almeno un po' di terreno al mito della persona virtuosa. Toccando terra, poi, si dà il caso che io sia un fumatore. Io so, conosco, che fumare fa male, ma mi chiedo: realizzo il mio bene continuando a fumare noncurante delle conseguenze, oppure lo realizzo impegnandomi a smettere? Beh, intanto lo so ... poi vedremo.
Dovessi poi dire qualcosa sullo stato delle nostre attuali e umane conoscenze, beh, cos'è che intendiamo con conoscenza? Qualsiasi cosa si possa dire, secondo il mio modestissimo parere alla fine varrà sempre il mio caso di fumatore che sa che fumare fa male e qualcosa deciderà di fare

PhyroSphera

Citazione di: Socrate78 il 03 Dicembre 2022, 13:36:34 PMSecondo la filosofia etica di Socrate sostanzialmente il virtuoso e il giusto è colui che conosce il bene, mentre il malvagio è un ignorante che non conosce che cosa sia il vero bene e il concetto di giustizia.  Per Socrate insomma l'etica è una questione di sapere, di conoscenza: se si conosce veramente la nozione di bene in tutte le sue implicazioni, non si può non volere il bene, perché il bene è l'oggetto della volontà di ogni uomo (anche del malvagio), e quindi una condotta deviante dal giusto è semplicemente il frutto di un'ignoranza di che cosa sia il vero bene per la persona.
Ma è davvero così, cioè è sufficiente sapere che cosa sia il bene per volerlo? Io non credo, ad esempio io posso benissimo essere consapevole che per una persona sia bene avere amici, ma posso rifiutare la sua amicizia con disprezzo, posso benissimo sapere che per un povero sia bene avere cibo e denaro, eppure posso rifiutare la sua richiesta di beni di prima necessità, gli esempi sono innumerevoli. La conoscenza quindi non sembra bastare per l'azione virtuosa, ma sembra necessaria la presenza di un sentimento di benevolenza (o compassione) che orienta la volontà verso il bene, perché altrimenti la pura razionalità non è garanzia di virtù. Anche Kant secondo me riprende l'intellettualismo etico, perché l'imperativo categorico della coscienza nascerebbe dalla ragione ed orienterebbe automaticamente la volontà all'azione virtuosa, perché com'è noto in Kant l'aspetto emotivo/sentimentale dell'etica è escluso e considerato anzi un elemento che inquinerebbe la purezza dell'azione morale.
Secondo voi è sufficiente conoscere veramente che cosa sia il bene (il bene assoluto intendo) per volerlo? Oppure è necessario un elemento in più che non sia la pura conoscenza per orientare la volontà verso il bene?

L'Imperativo di cui diceva Kant è in quanto tale non una necessità impellente ma un'esigenza a cui l'uomo può sottrarsi, per scelta. Nulla di automatico. Quanto al sentimento, Kant in realtà lo aveva rivalutato nella Critica del giudizio. Per Kant dipende dal sentimento l'accordo tra sfera intellettuale e sfera pratica.

Mauro Pastore 

viator

Salve Mauro. Non conosco Kant ma solamente un pochino il senso comune e la lingua italiana.

Sei sicuro che l'interpretazione che ci hai dato sia corretta ?. Citandoti " L'Imperativo di cui diceva Kant è in quanto tale non una necessità impellente ma un'esigenza a cui l'uomo può sottrarsi, per scelta".

A me sembra che "una (non) necessità impellente a cui l'uomo può sottrarsi" rappresenti UNA FACOLTA' e non CERTO UN IMPERATIVO.

Quella soprastante quindi la trovo una ben strana specie di castroneria. Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

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