COVID19 - Contagio - Responsabilità del datore di lavoro - Onere della prova

Aperto da Eutidemo, 16 Maggio 2020, 13:07:30 PM

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Eutidemo


Circa i "rischi" che correrebbero gli imprenditori, in quanto responsabili civilmente e penalmente degli eventuali  contagi contratti dai propri dipendenti sul luogo di lavoro, vedo che sui giornali si scrivono un sacco di sciocchezze "terroristiche", amplificate dalle TV e dai "social network"; per cui, nei limiti delle mie possibilità, ritengo opportuno fare un po' di chiarezza al riguardo.
Ed invero, almeno secondo me, gli imprenditori in buona fede  non hanno alcun motivo di preoccuparsi; se costoro seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
Vediamo perchè.
;)


***
PREMESSE NORMATIVE


1)
ART.2087 c.c.
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 20364 del 26 luglio 2019, ha ulteriormente  ribadito la portata  dell'art. 2087 c.c., il quale prevede che: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Tuttavia, a scanso di fraintendimenti,  la Corte di Cassazione, è stata ben lontana dal ritenere l'articolo 2087 c.c. un'ipotesi di "responsabilità oggettiva", ovvero una norma portatrice di un "obbligo assoluto" di rendere l'ambiente di lavoro del tutto privo di rischi (il che sarebbe ovviamente impossibile); per cui, in ogni caso, va dimostrata la responsabilità dell'imprenditore.


2)
D.Lgs. n. 81/2008.
Il D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) coordina, all'interno di un unico testo, tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro e stabilisce una serie di interventi da osservare per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.


3)
Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd "Decreto Cura Italia" all'art. 42 comma 2 nonché la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.
Ovviamente, anche l'infezione da coronavirus deve essere fatta rientrare nell'alveo delle malattie infettive e parassitarie previste dal D.Lgs. n. 81/2008 sopra citato, e, come tale, è senza dubbio meritevole di copertura INAIL per gli assicurati che la contraggono "in occasione di lavoro"; lo stabilisce, oltre che il più banale buon senso, anche iI Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd "Decreto Cura Italia" all'art. 42 comma 2 nonché la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020.
La copertura INAIL, tuttavia, non implica necessariamente una responsabilità del datore di lavoro per l'infezione da coronavirus contratta da uno o più dei suoi dipendenti.


4)
Art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020.
Premesso quanto sopra, restava solo da stabilire quali fossero le "norme di sicurezza anticovid19" a cui ciascun imprenditore si sarebbe dovuto attenere; violando le quali, sarebbe potuta scattare la sua responsabilità (civile e penale).
A tal fine, l'art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020,  impone a tutte le imprese che non hanno sospeso o hanno ripreso la propria attività di osservare il " protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro" sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali ed aggiornato lo scorso 24 aprile 2020".
Tale norma, impone:
- in primo luogo, in capo al datore di lavoro un obbligo di informazione, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, circa le disposizioni delle Autorità e l'obbligo della rilevazione della temperatura corporea dei dipendenti;
- in secondo luogo, il datore di lavoro  deve prevedere una serie di misure relative alla protezione individuale, alla igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro (mettendo anche a disposizione degli erogatori di disinfettante) nonché alla gestione di eventuali persone sintomatiche e sulla sorveglianza sanitaria.



***
ONERE DELLA PROVA
Ciò premesso, però, come ho detto all'inizio, occorre comunque dimostrare la responsabilità del datore di lavoro; e l'onere della prova, ovviamente, non ricade su di lui, bensì su chi intende imputargli detta responsabilità.
Al riguardo la Circolare n. 13/2020 dell'INAIL sostiene due differenti linee guida:

a)
"Nell'attuale situazione pandemica da COVID19, l'ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la <<presunzione semplice>> di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l'utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della <<presunzione semplice>> valido per gli operatori sanitari."
Al riguardo, rammento che le "presunzioni semplici" sono quelle previste dall'art.2729 cc., cioè quelle definite "gravi, precise e concordanti".
Le stesse:
- non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni;
- contro di esse è sempre ammessa la prova contraria.
Tuttavia, a leggere bene la la circolare n. 13/2020 dell'INAIL  (che, comunque, non è vincolante per nessuno, a parte l'INAIL), credo se ne possa desumere che nei casi elencati :
- si presume che il contagio derivi dall'attività lavorativa, in quanto è in sè stessa a rischio;
- non si presume affatto, però, che tale inevitabile rischio "naturale" sia stato aggravato dall'inosservanza delle norme ANTICOVID da parte del datore di lavoro.
Tale inosservanza, infatti, non può essere "presunta", ma deve essere "provata" a parte, ai fini dell'addebito di responsabilità!

b)
"Per tutti gli altri lavoratori, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa stabilendo l'onere della prova a carico dell'assicurato."
Tale seconda parte della circolare, addossa al lavoratore una "probatio diabolica":
- sia per quanto concerne la prova che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa;
- sia per quanto concerne la prova che la malattia sia stata contratta durante l'attività lavorativa...a causa dell'inosservanza delle norme ANTICOVID da parte del datore di lavoro.
Che, come già detto, non sono esattamente la stessa cosa.


***
In generale, comunque, per il lavoratore infettato, è ben difficile poter escludere altre possibili cause di contagio, quali la vicinanza ad altre persone positive nei luoghi di aggregazione necessaria come supermercati o mezzi pubblici o altrimenti il contatto con familiari conviventi contagiati.


***
Al riguardo, comunque, occorre tenere ben distinte:
- le ipotesi per le quali il dipendente ha diritto al risarcimento INAIL (meramente collegato al fatto che il contagio sia stato contratto sul lavoro)
- le ipotesi per le quali il dipendente avrebbe diritto anche ad un risarcimento dei danni da parte del datore di lavoro, in quanto costui ha colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID.
Ed infatti può accadere:
- che sia dimostrato che il contagio è stato contratto sul lavoro, ma non che il datore di lavoro abbia colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID.
- che sia dimostrato che il datore di lavoro abbia colposamente omesso di rispettare le norme ANTICOVID, ma non che il contagio sia stato contratto sul lavoro, in conseguenza del mancato rispetto di tali norme.


***
In ogni caso, al datore di lavoro potrebbe essere sufficiente:
- dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere in capo a sé ogni responsabilità;
- ovvero dimostrare che nei giorni precedenti l'ipotizzato contagio, il dipendente non abbia sempre e con rigore osservato le precauzioni imposte quali l'uso della mascherina o dei guanti, in aperta violazione di quanto prescrittogli in azienda.


***
Per cui, secondo me, quantomeno ai fini penali:
- risulterà molto difficile per il PM ed il lavoratore costituitosi parte civile, fornire la prova "al di là di ogni ragionevole dubbio" (art. 533 c.p.p.) e corroborare la tesi della colpevolezza del datore di lavoro escludendo con sufficiente certezza l'esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità del datore di lavoro;
- risulterà molto facile per il datore di lavoro difendersi penalmente, se costui ha scrupolosamente osservato tutte le prescritte norme ANTICOVID;  e, purtroppo, secondo me anche se non l'ha fatto.


***
Ai fini civili ovviamente, l'eventuale contagio da coronavirus all'interno del luogo di lavoro non esenta il datore di lavoro dal risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 cc; però, anche in questo caso,  l'onere della prova resta a carico del danneggiato il quale deve provare il nesso di causalità fra l'evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta attiva o omissiva dei datore di lavoro, sebbene non "al di là di ogni ragionevole dubbio", come, invece, prevede l'art. 533 c.p.p.


CONCLUSIONE
Alla stregua di quanto sopra, come già anticipato in premessa, a me sembra che gli imprenditori, almeno quelli in buona fede, non abbiano alcun motivo di preoccuparsi; ed infatti, se costoro seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che essi possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.
Capisco che le misure ANTICOVID19 abbiano un costo (così come ce l'hanno i caschi e le ringhiere sulle impalcature); ma la tutela della salute e della vita, sia degli imprenditori che dei loro dipendenti, ha un inevitabile prezzo, che non ci si può esimere dal dover pagare.
Se tale prezzo verrà pagato, il lavoratore correrà meno rischi di ammalarsi, e l'imprenditore, pur gadagnando un po' meno, correrà meno rischi di doverlo risarcire (oltre che di ammalarsi anche lui).
;)

anthonyi


Ciao Eutidemo, nel tuo excursus mi sembra non hai sollevato il punto fondamentale del quale gli imprenditori sono preoccupati, cioè il fatto che l'infezione da COVID sia considerata infortunio sul lavoro e non malattia professionale. A quanto loro dicono questo li esporrebbe al rischio di conseguenze penali per il semplice fatto che un loro dipendente si ammali.
Personalmente, per la conoscenza che ho degli atteggiamenti pregiudiziali di tanti magistrati, "toghe rosse", nei confronti degli imprenditori quando si trovano in conflitto con un loro dipendente, tendo a credere che questa preoccupazione sia fondata.


Eutidemo


Ciao Athony :)
Quanto al fatto che gli imprenditori siano preoccupati per il fatto che l'infezione da COVID sia considerata "infortunio sul lavoro" e non "malattia professionale" (detta anche "tecnopatia"), occorre tener presente che, con la Sentenza n.20774 del 17/08/2018 la Cassazione ha ribadito che la malattia professionale deve rientrare nell'ambito del degli artt. artt. 3 e 1, 3 0 comma T.U. 1124, per cui  il "rischio rilevante" deve essere comunque connesso, anche se indirettamente, con le lavorazioni di cui all'art. 1 del d.p.r. n. 1124 del 1965.
D'altra parte (come rilevava pure il tribunale di primo grado), mentre "l'infortunio" è oggetto di tutela assicurativa se avvenuto "in occasione di lavoro", la "malattia professionale" in base all'articolo 3 è tutelabile a condizione che sia stata contratta "nell'esercizio ed a causa delle lavorazioni"; e quindi deve essere causalmente collegata alla "specifica attività" svolta dall'assicurato, mentre nessun rilievo può essere attribuita all'organizzazione del lavoro.
Peraltro, a proposito dell'art.3 TU e delle malattie professionali, nella sentenza n. 3227/2011, sempre della stessa Cassazione,  la protezione assicurativa, è stata estesa anche alla malattia riconducibile all'esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi di lavoro; la quale è stata ritenuta meritevole di tutela ancorché, certamente, non in quanto dipendente dalla prestazione pericolosa in sé e per sé considerata (come "rischio assicurato"), ma soltanto in quanto connessa al fatto oggettivo dell'esecuzione di un lavoro all'interno di un determinato ambiente.
Considerazione, questa, che, forse, potrebbe essere estesa per analagia anche all'ipotesi del contagio da COVID19.
Tuttavia, sul punto, per adesso preferirei non pronunciarmi, perchè dovrei rifletterci meglio!
Un saluto! :)

Ipazia

Per l'esperienza acquisita in decenni di cause per infortuni sul lavoro posso assicurare che le preoccupazioni per le inesistenti toghe rosse sono del tutto infondate se il ddl ha adottato correttamente le procedure di prevenzione prescritte, fornito i dpi necessari e formato i lavoratori. In altro caso non si tratta di toghe rosse ma di comportamenti criminali asseverati da prove oggettive. In dubbio pro reo o, al massimo: concorso di colpa.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Citazione di: Ipazia il 16 Maggio 2020, 15:20:06 PM
Per l'esperienza acquisita in decenni di cause per infortuni sul lavoro posso assicurare che le preoccupazioni per le inesistenti toghe rosse sono del tutto infondate se il ddl ha adottato correttamente le procedure di prevenzione prescritte, fornito i dpi necessari e formato i lavoratori. In altro caso non si tratta di toghe rosse ma di comportamenti criminali asseverati da prove oggettive. In dubbio pro reo o, al massimo: concorso di colpa.


Condivido, in quanto, anche secondo me, gli imprenditori onesti ed in buona fede  non hanno alcun motivo di preoccuparsi.
Ed infatti, come da me argomentato, se seguiranno scrupolosamente tutte le prescrizioni ANTICOVID19, è quasi impossibile che possano venire perseguiti:
- sia penalmente;
- sia civilmente.

anthonyi

Citazione di: Eutidemo il 16 Maggio 2020, 14:00:46 PM


Peraltro, a proposito dell'art.3 TU e delle malattie professionali, nella sentenza n. 3227/2011, sempre della stessa Cassazione,  la protezione assicurativa, è stata estesa anche alla malattia riconducibile all'esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi di lavoro; la quale è stata ritenuta meritevole di tutela ancorché, certamente, non in quanto dipendente dalla prestazione pericolosa in sé e per sé considerata (come "rischio assicurato"), ma soltanto in quanto connessa al fatto oggettivo dell'esecuzione di un lavoro all'interno di un determinato ambiente.
Considerazione, questa, che, forse, potrebbe essere estesa per analagia anche all'ipotesi del contagio da COVID19.
Tuttavia, sul punto, per adesso preferirei non pronunciarmi, perchè dovrei rifletterci meglio!
Un saluto! :)



Per associazione, Eutidemo, io sarei portato a considerare l'infezione da COVID19 come il fumo passivo al quale ti riferisci, per cui dovrebbe essere considerata malattia professionale, e allora perché l'INAIL parla di infortunio ? Per me è solo uno dei segni di quella cultura anti-impresa che, soprattutto nel nostro apparato pubblico è dominante.

Eutidemo


Ciao Anthony. :)
Al riguardo, per prima cosa, "sine ira ac studio", esaminiamo un po' meglio i due concetti.

1)
INFORTUNIO SUL LAVORO
Giurisprudenza a parte, sotto il profilo amministrativo, per "infortunio sul lavoro" si intende ogni lesione originata, in occasione del lavoro, da causa violenta che determini la morte della persona o ne menomi parzialmente o totalmente la capacità lavorativa.
Per cui, in sintesi, secondo il Ministero del Lavoro (ed anche, sostanzialmente, secondo la giurisprudenza) gli elementi integranti l'"infortunio sul lavoro" sono:
a)
La "lesione", cioè un danno fisico e/o psichico subito dal lavoratore; ed il contagio da COVID19  può sicuramente considerarsi tale, in maggiore o in minor misura.
b)
L'"occasione di lavoro", e, cioè, che vi sia un nesso causale tra il lavoro e il verificarsi dei rischio cui può conseguire l'infortunio; e, nel caso del COVID19, tale nesso causale indubbiamente sussiste nella misura in cui esso si possa ragionevolmente presumere (infermieri, medici ecc.), ovvero nella misura in cui esso si possa adeguatamente dimostrare (altri tipi di lavoratori).
c)
La "causa violenta", invece, secondo me, nel caso del contagio da COVID19, è un elemento la cui giuridica ricorrenza è molto controvertibile; salvo a voler omologareil concetto di "violenza" con quello di "virulenza". Ma sul punto tornerò più avanti.

2)
MALATTIA PROFESSIONALE
Giurisprudenza a parte, sotto il profilo amministrativo, per "malattia professionale" si intende una patologia la cui causa agisce "lentamente" e "progressivamente" sull'organismo (cioè, una causa diluita e non una causa violenta e concentrata nel tempo, come nel caso dell'infortunio);  deve, peraltro, trattarsi di una "causa diretta ed efficiente", cioè in grado di produrre l'infermità "in modo esclusivo o prevalente".
Come, ad esempio:
- l'"antracosi", che è una malattia polmonare di tipo cronico (pneumoconiosi), tipica di chi lavora nelle miniere di carbone;
- l'"asbestosi", che è una malattia polmonare cronica conseguente all'inalazione di fibre di asbesto (amianto), che è stato molto utilizzato in passato come materiale in campo prevalentemente edilizio, soprattutto per le sue caratteristiche refrattarie.
ecc.
In altre parole, nella "malattia professionale", diversamente che nell'"infortunio", l'influenza del lavoro nella genesi del danno lavorativo deve risultare "specifica"; ciò, in quanto la malattia deve essere contratta proprio nell'esercizio ed a causa di quell'attività lavorativa o per l'esposizione a quella determinata forma patogena.

***
CONCLUSIONI
Ciò premesso, a mio parere, a parte il fatto che l'incubazione del COVID19 è un po' troppo rapida per poterla equiparare al "lento" e "progressivo" decorso delle classiche "malattie professionali", tuttavia, in determinati casi, penso che la si potrebbe anche classificare come tale; ad esempio, nel caso dei chimici, dei biologhi, dei virologhi ecc., i quali passano la maggior parte del loro tempo a stretto contatto con tale virus, per studiarlo e trovarne una cura.
Ed infatti, in tal caso, non c'è dubbio che, se si ammalano di COVID19, la malattia sarebbe stata contratta proprio:
- nell'esercizio ed a causa della loro "specifica" attività lavorativa;
- con conseguente "specifica" esposizione a quella determinata forma patogena.

Nel caso degli altri lavoratori, invece, almeno "strictu iure" tali circostanze non mi sembra che ricorrano quasi mai; in quanto, se, per esempio, il COVID19 se lo becca un impiegato nel suo posto di lavoro, non si può certo dire che se lo sia preso:
- nell'esercizio ed a causa della sua "specifica" attività lavorativa;
- con conseguente "specifica" esposizione a quella determinata forma patogena.

Diciamo allora che il COVID19 costituisce senz'altro un "infortunio sul lavoro"?
Può darsi, ma, come ho scritto sopra, mi sembra un po' arduo considerare il contagio da COVID un "infortunio" (cioè provocato da un "evento traumatico" o da "una causa violenta"), perchè, in ogni caso, si tratta di una "reazione morbosa" di carattere non traumatico (come, invece, sarebbe uno "shock anafilattico"); ed infatti, a nessuno verrebbe mai in mente di dire che una vittima del COVID19 abbia fatto una "morte violenta".
E, come premesso, la "causa violenta" è uno dei tre requisiti necessari per poter parlare, a pieno titolo, di "infortunio sul lavoro"!

***
Semmai, in base a quanto sopra detto, salvo che nel caso dei chimici, dei biologhi, dei virologhi ecc., che passano la maggior parte del tempo a stretto contatto con tale virus, per studiarlo e trovarne una cura, nella maggior parte degli altri casi il  COVID19 sarebbe da definirsi  una "malattia comune", piuttosto che una "malattia professionale".

***
Se così fosse, paradossalmente, nel caso del COVID19, non si tratterebbe nè di un "infortunio sul lavoro", nè di una "malattia professionale", mancando sia i requisiti dell'uno, sia (in genere)i requisiti dell'altra, bensì risulterebbe semplicemente un generico "evento dannoso"; che, in quanto tale, sarebbe eventualmente risarcibile dal datore di lavoro, nel caso in cui tale danno risultasse a lui imputabile (come nel caso in cui costui avesse contagiato di HIV una dipendente, avendo omesso di usare il preservativo).

***
Ma, ovviamente, non penso proprio che questa sarebbe una soluzione soddisfacente per nessuno, nè sotto il profilo giuridico, nè sotto quello logico; per cui, salvo che non intervenga una interpretazione autentica, per il momento, come già ti avevo scritto la volta scorsa, mi riservo di rifletterci meglio.

***
Un saluto! :)

Eutidemo


Ciao Anthony. :)
Approfondendo ulteriormente la questione, ho visto  che l'INAIL ha assimilato l'infezione da COVID19 ad altre malattie infettive e parassitarie connotate da "causa virulenta" (quali epatite, Aids etc.); le quali sono state anch'esse ricomprese nella categoria degli infortuni.
Però, come già avevo scritto, secondo me, la lesione derivante da una malattia, per quanto essa possa essere "virulenta", difficilmente può dirsi derivante da una "causa violenta" e "traumatica"; ed infatti si tratta di concetti diversi, assimilabili solo analogicamente ricorrendo ad una "interpretazione estensiva" molto forzata. 
Tuttavia, vedo che con una propria nota la Direzione centrale rapporto assicurativo e della Sovrintendenza sanitaria centrale INAIL del 17 marzo 2020, seguita dalla Circolare del 2 aprile 2020, ha chiarito che "...l'infezione da nuovo Coronavirus va trattata come infortunio sul lavoro (malattia-infortunio). Il presupposto tecnico-giuridico è quello dell'equivalenza tra causa violenta, richiamata per tutti gli infortuni, e causa virulenta, costituita dall'azione del nuovo Coronavirus.
Qualora venga accertato che l'infezione da Coronavirus sia stata contratta in ambienti di lavoro o in itinere, ossia nello spostamento abituale tra casa e lavoro, le prestazioni a tutela dell'infortunato sono di competenza INAIL e sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato".
Credo che varrebbe la pena aprirci un TOPIC a parte.


Un saluto. :)


Ipazia

La causalità nel caso di infezioni virali o batteriche (ad es. brucellosi, negli allevamenti) è assimilata all'infortunio perchè non si tratta di esposizioni prolungate nel tempo ad un agente patogeno che solitamente produce lesioni permanenti (ad es. rumore vs. ipoacusia), ma di fenomeni che, analogamente all'infortunio, hanno un'induzione "istantanea" ed anche gli eventuali postumi sono equiparabili ai postumi di un infortunio invalidante.

La opposizione dei ddl a tale interpretazione, peraltro in linea con tutti i precedenti INAIL, penso sia dovuta al fatto che nel caso di indagine per malattia professionale è più facile sfruttare le aree grigie procedurali e accertative del dolo o colpa e anche i tempi si allungano rispetto all'inchiesta infortuni.

Resta comunque difficile anche l'accertamento dell'"infortunio" da contagio coronavirus in ambito lavorativo, vista la intrusività sociale del virus. Semmai è più perseguibile il comportamento del ddl dopo un primo accertamento di un caso all'interno dell'azienda, rispetto alle bonifiche da effettuarsi e alle azioni di prevenzione e diagnostica nei confronti degli altri dipendenti.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Eutidemo

Citazione di: Ipazia il 18 Maggio 2020, 10:33:53 AM
La causalità nel caso di infezioni virali o batteriche (ad es. brucellosi, negli allevamenti) è assimilata all'infortunio perchè non si tratta di esposizioni prolungate nel tempo ad un agente patogeno che solitamente produce lesioni permanenti (ad es. rumore vs. ipoacusia), ma di fenomeni che, analogamente all'infortunio, hanno un'induzione "istantanea" ed anche gli eventuali postumi sono equiparabili ai postumi di un infortunio invalidante.

La opposizione dei ddl a tale interpretazione, peraltro in linea con tutti i precedenti INAIL, penso sia dovuta al fatto che nel caso di indagine per malattia professionale è più facile sfruttare le aree grigie procedurali e accertative del dolo o colpa e anche i tempi si allungano rispetto all'inchiesta infortuni.

Resta comunque difficile anche l'accertamento dell'"infortunio" da contagio coronavirus in ambito lavorativo, vista la intrusività sociale del virus. Semmai è più perseguibile il comportamento del ddl dopo un primo accertamento di un caso all'interno dell'azienda, rispetto alle bonifiche da effettuarsi e alle azioni di prevenzione e diagnostica nei confronti degli altri dipendenti.



Argomentazioni tutte molto sensate; però, secondo me, equiparare la "virulenza" alla "violenza" resta pur sempre una forzatura ermeneutica (benchè indubbiamente sostenibile, almeno sotto il profilo dell'art.12 delle preleggi).

Quanto all'accertamento "in concreto" dell'"infortunio" da contagio coronavirus in ambito lavorativo, vista l'importanza del tema, ho aperto al riguardo un topic "ad hoc"; dimmi cosa ne pensi, visto che, in materia, mi sembra che tu abbia una notevole competenza (quantomeno molto maggiore della mia, considerato che questo non è certo il mio campo).
https://www.riflessioni.it/logos/attualita/covid-19-contagio-sul-lavoroe-davvero-una-'probatio-diabolica'/

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