antimafia e stato di diritto

Aperto da davintro, 21 Novembre 2017, 00:41:45 AM

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davintro

Già poco tempo prima della sua morte accaduta in questi giorni si era aperto un dibattito riguardo la necessità di assicurare una morte in carcere pietosa e dignitosa a Toto Riina. Molte voci si sono levate scandalizzate al pensiero di tale necessità mettendo in discussione l'idea che la dignità dovesse essere riservata a un individuo resosi responsabile di crimini talmente efferati, affermando che Riina "non è un detenuto come gli altri". Su questo punto in particolare mi piacerebbe soffermarmi: in cosa consisterebbe specificatamente "non essere un detenuto come gli altri?". A me pare che un discorso circa la validità di un trattamento verso un detenuto possa essere impostato in modo razionale, vale a dire ricercando negli atteggiamenti concreti la coerenza con i princìpi fondamentali dello stato di diritto, vale a dire carattere rieducativo e non punitivo-vendicativo della detenzione, umanità e rifiuto di barbarie come tortura o pena di morte, oppure da un punto di vista emotivo e istintivo per il quale apparirebbe del tutto lecito provare una rabbia verso uno spietato criminale, come certo Riina era, al punto da non tener conto di alcuna umanità nel trattamento, ma al contrario auspicando in nome dello spirito di vendetta che soffra il più possibile, quando i crimini compiuti superano una certa soglia di gravità. Dunque mi pare che il concetto "Riina non è detenuto come gli altri" cada totalmente nel secondo approccio al problema, quello nel quale la rabbia e l'emotività offuscano la lucidità e il distacco necessari all'applicazione coerenti dei princìpi dello stato di diritto. Il problema che pongo è, accettato come legittimo tale approccio emotivo e demagogico, chi si arroga il diritto di stabilire in cosa consisterebbe la soglia che dovrebbe separare la categoria dei "detenuti normali" (per cui varrebbe ancora il rispetto della dignità come uno stato di diritto coerentemente richiede) e la categoria dei "detenuti speciali" a cui apparterrebbe Riina e per cui sarebbe considerata lecita tortura, pena di morte, sospensione delle garanzie giuridiche? Quali sarebbero i criteri di demarcazione? Se fossi un detenuto con 2 omicidi alle spalle dovrei essere considerato ancora nella prima categoria, mentre con 3 omicidi dovrei passare alla seconda, quella dei "superdetenuti"? (come, volendo ironizzare un po', in una sorta di videogioco con dei livelli da superare, da normale a super...). Son chiare le derive pericolose che si annidano all'interno di un approccio di tal genere... lo stato di diritto, imperniato sul principio della finalità rieducativa e su una visione della giustizia non vendicativa perderebbe il suo carattere di riferimento universale, ma verrebbe relativizzato sulla base di differenziazioni riguardo la gravità dei delitti commessi, differenziazioni però totalmente arbitrarie, in quanto fondate su criteri puramente emotivi, soggettivi, umorali, basate sulla "giustizia" di piazza, da social, dove impera la demagogia e la rabbia popolare. Sarebbe il caos. La difesa dello stato di diritto in nome del quale si reputano tortura, pena di morte, linciaggio popolare, come incivile forme di barbarie, non potrebbe più porsi come riferimento universale ed una società priva di riferimenti etico-giuridici aprioristici e fondativi cadrebbe nel caos e nella confusione, segnando la fine dello stato democratico così come ora lo conosciamo. Questo è il rischio che vedo. Soffermandoci un attimo su ciò che alimenta l'approccio emotivo al tema, trovo sarebbe interessante iniziare una riflessione critica non sull'Antimafia intesa come complesso del lavoro in cui magistrati, forze dell'ordine, società civile cercano di combattere il fenomeno mafioso, ma su una certa "retorica" intorno ad essa, portata avanti a livello mediatico, tra libri, film, serie tv che da molti anni, se certamente ha avuto un ruolo estremamente positivo nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica riguardo i valori della legalità, nella formazione di una coscienza civile per la quale la mafia non viene più vista come realtà alla cui presenza rassegnarsi, se non legarsi in forme di complicità, bensì nemico da abbattere e che può davvero essere abbattuto col tempo, ruolo certamente da lodare e valorizzare, ha però anche provocato a mio avviso l'effetto collaterale di instillare nella percezione popolare l'idea di un'esasperata separazione tra il concetto di "mafia" e di "mafioso" da un lato e tutto il resto della comune criminalità, attribuendo alla lotta alla mafia un carattere eccessivamente speciale, al punto che in molti si sentirebbero in diritto di considerare tale lotta da portare avanti con mezzi, appunto, speciali, per i quali lo stato di diritto non appare più come necessità vincolante e potrebbe in fondo essere sospeso senza troppi rimpianti. E nel momento in cui il "mafioso" non è più un criminale comune di fronte al quale mirare alla rieducazione, ma diviene quasi una figura antropologica a se stante, una sorta di categoria di mostri irrecuperabili allora apparirebbe lecito per gran parte dell'opinione pubblica poter auspicare vendette, linciaggi, sedie elettriche ecc.  mentre parlare di "morte dignitosa" appare come uno scandalo inaccettabile.  Insomma, la questione non è ovviamente, continuare a ritenere la mafia come un male da combattere, certo che lo è, ma chiarire se la guerra (già il termine "guerra" rischia di creare pericolose ambiguità, ma per ora lasciamo stare) debba restare azione contestualizzata all'interno della cornice dello stato di diritto, oppure condotta sulla base di una nuova concezione dello stato e della giustizia, più simile all' "occhio per occhio", che tradisce la sua natura liberale e garantista per adeguarsi al nemico da combattere. La mia speranza è che la classe politica non debba mai mostrare su questo ambiguità da poter far pensare a una sorta di cedimento verso la seconda opzione, magari condizionata dal timore di apparire impopolare e "buonista" agli occhi dell'emotività popolare di cui ricerca il consenso, emotività che porta a confondere "giustizia" e "vendetta" e a sacrificare principi giuridici universali in nome di una rabbia che fa perdere lucidità

viator

Salve. Né pietà né rabbia né vendetta né perdono. Le leggi, intese come insieme delle norme che dovrebbero tutelare IMPERSONALMENTE la società, di fronte a reati gravi (anzi, come in questo caso, estremi) devono prevedere ogni genere di provvedimento efficace per scoraggiare la reiterazione da parte di chi li abbia commessi e di chi potrebbe trovarsi a replicarli.

Tale criterio non deve tener conto di nessuno scrupolo o tabù morale, men che meno di pietismi, valutazioni psicologiche, situazione personale del reo etc.
Unica attenuante che può venir valutata sarà il pentimento, che nel caso di Riina è sempre mancato.

Come?? Costui ha vissuto nel culto e nella pratica del più sfrenato egoismo individuale (al massimo allargato alla famiglia ed ai compari), strafottendosene delle evidenti conseguenze, ed il Diritto e la Giustizia dovrebbero far caso alle sue umane esigenze o desideri ??

Isolamento completo dalla società cui ha tanto nuociuto, controllo minuzioso della sua condotta carceraria, contatti con l'esterno (famiglia e difensori) ammessi solo per iscritto e dopo censura bidirezionale, cure e somministrazioni appena sufficienti alla sua sopravvivenza....questi sono i provvedimenti di pura efficacia ASSOLUTAMENTE prioritari.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

paul11

#2
Davintro,
è estremamente difficile entrare nella disamina su un capo di un'organizzazione che è in antitesi allo Stato e trattarlo con le stesse regole che lo stato di diritto tratterebbe come per un delinquente comune.
Le organizzazioni terroristiche oppure le organizzazioni mafiose non sono parte del delinquente comune, perchè dietro o c'è una teoria o una forma del tutto sovversiva di fare società.
Questa distinzione è fondamentale poichè il delinquente comune potrebbe avere motivazioni di miseria, di scorciatoie di arricchimento, tenta un "colpo", oppure è un "fuori di testa", ma è dentro e non fuori nelle motivazioni alle regole dello Stato.
la ,diciamo così, premeditazione , nella mafia, è un vero e proprio atteggiamento e teoria cospirativa  del tutto autonoma e mai confacente allo stato di diritto, in quanto ha proprie regole interne, proprie gerarchie, propri scopi di lucro per i suoi adepti.
Insomma è un' altro "stato" dentro lo Stato.
I propri interessi non sono mai e non possono esserlo per natura diversa, dentro le regole dello Stato.

La possibilità di uno Stato che si ponga in modo autorevole e non autoritario, deve derivare da una moralità superiore
e dall'unica possibilità di debellare la mafia, sottrargli il nutrimento nel sociale, il consenso o il terrore su cui vive e prospera,solo allora può comparire la pietà verso chi non può più nuocere in quanto in fin di vita.
Significa che la pietà potrebbe sorgere verso chi ha definitivamente finito lo scopo e le finalità con la sua scomparsa, cioè morto il capo è morta l'organizzazione anti-Stato.
Ma ha ragione Viator, senza un atto di perdono come è possible rispondere ai parenti che hanno avuto uccisi in famiglia che vivono nel rispetto delle regole dello stato di diritto e quindi della giustizia?
Il rischio è fare un torto ha chi ha subito un'estremo dolore e ingiustizia e assommarne un'altro per un atto di indulgenza a chi nemmeno lo ha chiesta?

Se affiorano organizzazioni terroristiche para militari oppure organizzazioni mafiose, significa che nel tessuto sociale che è fatto di politica ed economia, qualcosa di grosso non funziona.Ma se quelle terroristiche durano e sono durate qualche anno, quelle mafiose si perpetuano di generazione in generazione, seppure mutando forme economiche: è un virus mutante che sopravvive sull'inefficienze dello Stato o da storie antropologiche localistiche, ma che tende ad "esportare" a internazionalizzare le sue forme.L'antimafia è la soppressione autoritaria, è la mano violenta difensiva dello Stato, ma non basta senza la creazione di un'economia e politica su cui innestare lo stato di diritto nella legalità.
Chi quindi ha fatto la scelta di vita di essere illegale e in antitesi dello Stato non può pretendere la legalità nello stato di diritto che da sempre ha boicottato .

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