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Sulla Coscienza
Susan Blackmore e l'illusione della coscienza
di Astro Calisi
Luglio 2011
La psicologa inglese Susan Blackmore ha pubblicato recentemente un libro, Coscienza (1) nel quale, seguendo molto da vicino le orme del filosofo americano Daniel Dennett, cerca di convincerci dell’illusorietà dell’esperienza cosciente e del nostro sé interiore.
L’esperienza cosciente è ciò che viene vissuto, con coinvolgimento più o meno profondo, nella dimensione soggettiva di ciascuno di noi. Essa riguarda in primo luogo sensazioni e percezioni, come pure sentimenti ed emozioni, ma comprende anche i diversi contenuti che fanno riferimento alla sfera del pensiero. E il sé?
Il sé è un’immagine che emerge a poco a poco in seguito al ripetersi di esperienze vissute, per lo più in relazione alle attività poste in atto dall’individuo. Non ci sarebbe un sé se non fossimo soggetti di esperienza, cioè se non fossimo in grado di vivere in prima persona – in maniera consapevole – un gran numero e una gran varietà di esperienze.
In ogni caso, l’esperienza cosciente, così come il sé che essa implica, si presentano a noi come fenomeni assolutamente centrali nella nostra esistenza. Qualsiasi tentativo di render conto di essi dovrebbe avere come punto di partenza le forme e i modi con cui vengono sperimentati a livello soggettivo. Sono questi i dati originari, o – se preferiamo – i “fatti” con cui la funzione della coscienza si rivela a noi. Può darsi che un giorno ci vedremo costretti a modificare una simile impostazione, ma ciò dovrà avvenire in seguito alla scoperta di nuovi fenomeni in conflitto con essa, non dalla considerazione che l’esperienza cosciente è inconciliabile con gli attuali paradigmi scientifici.
Eppure, è precisamente questa la motivazione che sta dietro all’operazione intrapresa dalla Blackmore. La vediamo infatti sottolineare in più punti della sua opera quanto le caratteristiche della mente siano lontane dai modelli scientifici correnti (2). Preparando così il terreno per il passo successivo, dove ci viene presentato un lungo campionario di casi in cui la coscienza ci inganna, mostrandoci contenuti che non corrispondono alla realtà delle cose. Lo scopo finale di questa strategia è quello di condurci, poco per volta, a dubitare della stessa realtà dell’esperienza cosciente.
Il percorso argomentativo seguito è all’incirca il seguente: se siamo soggetti a un gran numero di illusioni percettive, se spesso non ci accorgiamo di certi particolari dell’ambiente o siamo come ciechi di fronte ad alcuni cambiamenti che avvengono attorno a noi, cosa ci impedisce di pensare che l’esperienza cosciente possa essere, essa stessa, un’illusione?
E’ importante notare che la Blackmore non afferma mai in modo categorico e netto che l’esperienza cosciente o il sé non esistono. Ciò la esporrebbe inevitabilmente a gravi problemi di ordine concettuale dai quali sarebbe molto difficile venir fuori. Ella sceglie piuttosto la strada dell’ambiguità, cercando di promuovere la sua idea in forma sotterranea, implicita, in modo da lasciarsi comunque aperta la strada per eventuali ritirate. Comincia con lo “spiegarci” che un’illusione non è qualcosa che non esiste, bensì qualcosa che non è come sembra (3). Applicata alla coscienza, questa concezione dovrebbe portarci a sostituire all’idea che la coscienza non esiste, quella (apparentemente più moderata) che la coscienza è diversa da come appare. (4)
Ma com’è allora la coscienza? Cosa dovremmo intendere quando parliamo di esperienza cosciente, secondo la prospettiva delineata dalla Blackmore?
Nel suo libro, per quanto si cerchi, non si trova altra caratterizzazione che sia compatibile con le argomentazioni sviluppate, se non quella che riduce la coscienza a un’illusione di cui, per amore del progresso scientifico, dovremo cercar di liberarci. In tale accezione, sfido chiunque a dimostrare che l’illusorietà della coscienza possa essere qualcosa di diverso dalla non esistenza.
Riguardo al sé, la Blackmore riconosce che ognuno di noi ha la schiacciante sensazione di esistere: «Quando penso alle mie esperienze coscienti, mi sembra che ci sia qualcuno che le provi. Quando penso ai movimenti del mio corpo, mi sembra che ci sia qualcuno che li compia. Quando penso alle decisioni difficili della mia vita, mi sembra che qualcuno debba prenderle» (5). Ma – osserva la Blackmore – «la scienza non ha bisogno di un sé interiore». (6). Perciò è ragionevole guardare al sé come a «una semplice convenzione, un nome dato a un insieme di elementi» (7). Questo significa «ammettere che, ogniqualvolta mi sembra di esistere, si tratta solo di una finzione temporanea e non di quel “me” che sembrava esistere un momento fa, o l’altra settimana, o lo scorso anno». (8)
Lascio al lettore decidere se questo modo di presentare l’illusorietà del sé non rappresenti semplicemente un diversa forma – forse più velata – per affermare l’inesistenza dello stesso sé.
Perché è problematico negare esistenza all’esperienza cosciente o al nostro sé interiore?
Nella coscienza, ciò che appare (o ci sembra) non può che coincidere con la realtà dell’esperienza vissuta. Se mi trovo in un determinato stato d’animo, se provo un qualche dolore, se odo dei rumori o vedo delle luci, può anche darsi che ad essi non corrisponda nulla di reale, cioè di riscontrabile obiettivamente con i metodi della scienza. Così come accade con i sogni e le allucinazioni. Ma è impossibile negare che essi siano reali per me, in quanto esperienze vissute in prima persona. Negare esplicitamente la loro esistenza o affermarne la totale illusorietà in quanto esperienze vissute da qualcuno, costituisce infatti una vera e propria contraddizione in termini.
Non voglio qui cimentarmi in impegnative speculazioni filosofiche circa la possibilità che si abbiano esperienze – fedeli rappresentazioni di una qualche realtà o completamente illusorie – in maniera del tutto impersonale, vale a dire in assenza di una qualche entità in grado di sperimentarle su di sé. Preferisco rivolgere la mia attenzione critica verso altri aspetti della concezione dalla Blackmore assai più facili da smascherare nella loro insostenibilità.
Ci sono due importanti tesi alle quali la psicologa inglese dichiara apertamente di aderire: quella della coscienza intrinseca ai processi cerebrali e quella del sé considerato come “fascio di percezioni”. Secondo la prima di queste tesi, la coscienza sarebbe inscindibile dalla complessità dei processi cerebrali, nel senso che qualsiasi creatura che si sia evoluta fino a sviluppare intelligenza e pensiero, fino a essere capace di percezioni, sentimenti ed emozioni, deve necessariamente essere cosciente. Questo va ovviamente inteso, nell’ottica della Blackmore, come predisposizione alla pericolosa illusione di essere coscienti: “Tutte le creature come noi, che possono vedere, sentire, pensare, innamorarsi, o gustare un buon vino, finiscono inevitabilmente per credersi coscienti”. (9)
Questo modo di considerare la coscienza, apparentemente accettabile, nasconde in realtà un pesante inganno. Ci sembra plausibile perché esso, nella sua stessa enunciazione, si trova a incorporare al suo interno, celandone la vera natura, proprio ciò che vorrebbe eliminare dal mondo reale, vale a dire l’esperienza cosciente. Si possono avere emozioni che non coinvolgano il nostro stesso modo di percepirci? Ci si può innamorare e non esserne consapevoli? Si può pensare senza saperlo? Si può gustare un buon vino senza vivere l’esperienza del sapore?
Quando la Blackmore afferma che la coscienza – o, meglio, l’illusione di essere coscienti – è connaturata al livello di complessità necessario per dar vita alle capacità da lei elencate, non sta parlando di proprietà o caratteristiche che potrebbero essere riprodotte anche in una macchina opportunamente progettata. Si riferisce invece ad aspetti del mentale che appartengono specificamente all’uomo e, in quanto tali, spesso associati alla consapevolezza.
Nessun sistema artificiale finora realizzato si è mostrato in grado di provare emozioni o di innamorarsi, di pensare che non sia semplice elaborazione di dati sulla base di algoritmi predefiniti, di gustare un qualsiasi cibo o bevanda che non si riduca a una mera analisi dei componenti. E’ chiaro che una creatura (o un ipotetico sistema artificiale) capace di “fare tutte le cose che gli uomini di solito fanno” (10), non potrà che essere cosciente; ma ciò soltanto perché il possesso di queste capacita presuppone l’esistenza della coscienza, anche se non sappiamo spiegarci come e perché ciò avvenga.
Discorso fondamentalmente simile si può fare per il sé. L’ipotesi che esso derivi da un gran numero e una gran varietà di percezioni e di sensazioni può anche essere accettata, ma a patto di riconoscere che tali percezioni e sensazioni sono accompagnate da qualche forma di esperienza cosciente, e non si tratti invece di semplici dati acquisiti impersonalmente dall’ambiente o dal proprio organismo. Non è infatti concepibile che una quantità, anche enorme, di informazioni – visive, uditive, tattili – raccolte in maniera del tutto automatica, come potrebbe fare una macchina, possa dar luogo a una qualche immagine di sé, vissuta sotto forma di esperienza cosciente. L’io può anche non corrispondere all’immagine che ciascuno di noi sviluppa nel corso della propria esistenza, ma senz’altro esso non può essere il risultato di informazioni neutre e non correlate a un qualche tipo di vissuto consapevole.
La teoria della coscienza come illusione, così come la teoria del sé come fascio di percezioni, sono ingannevoli perché nascondono al loro interno precisamente ciò di cui vorrebbero negare l’esistenza. Considerano certe caratteristiche della mente come aspetti oggettivi e impersonali della realtà, ignorando (o fingendo di ignorare) che sono esse stesse portatrici di quell’esperienza che si trova all’origine della maggior parte dei problemi che ci troviamo oggi a dover affrontare.
Ma questo genere di inganni è essenziale per poter continuare a sostenere certe posizioni volte a privilegiare le ragioni del metodo scientifico rispetto alla realtà primaria dei nostri vissuti interiori.
Astro Calisi
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Suggeriamo inoltre: Ma che cos’è la coscienza? di Luciano Peccarisi
NOTE
(1) Susan Blackmore, Coscienza, Codice Edizioni, Torino, 2007.
(2) Cfr., ad esempio, Susan Blackmore, Op. cit., pag. 5, pag. 45 e pag. 47.
(3) Ivi, pag. 55.
(4) Ivi, pag. 56.
(5) Ivi, pag. 73.
(6) Ivi, pag. 74.
(7) Ivi, pag. 75.
(8) Ivi, pag. 89.
(9) Ivi, pagg. 12-15.
(10) Ivi, pag. 12.
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