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Musica e liturgia
di Francesco Scoditti
- Novembre 2024
Da tempi immemorabili tutte le varie forme di liturgia religiosa si è sono avvalse di diversi linguaggi, anche non verbali, che hanno sostenuto l’azione liturgica, fornendo al credente l’esperienza del “sacro, del santo” tramite un mondo ricco di segni e immagini dense di contenuti. Il principio è sempre lo stesso: attraverso i riti e le preghiere il Mistero si rivela e si rende presente. L’arte del celebrare è quindi un intreccio di più linguaggi, parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori e oggetti liturgici.
In tutto questo la Musica, nell’espressione del canto liturgico cristiano, si pone, come afferma Benedetto XVI, necessaria vel integralis liturgiae pars, poiché nel rito della Chiesa è fondamentale che il Popolo, radunato per la celebrazione, canti le lodi di Dio: per tale motivo, in tanti secoli di storia, il rito ha creato e continua a creare musica e canti integrati nella forma propria della celebrazione, in una sacra corrispondenza con i tempi e le parti liturgiche.
Già nei popoli antichi la Musica veniva considerata «sede di forze segrete dello spirito”: si tengano presente, ad esempio, gli antichi miti, Orfeo che trascinava i sassi, le piante e le belve col suo canto, Anfione che costruì le mura di Tebe a suon di musica, Arione salvato dai delfini evocati suo stesso dal canto. Così in Egitto gli dèi erano cantori e insegnavano agli uomini le melodie più deliziose, in India la musica offriva la salvezza e liberava dal ciclo della reincarnazione, in Cina l’ordine del mondo era rappresentato dalla scala pentatonica e l’arte dei suoni era correlata all’ordine cosmico.
Esiste però un elemento fondamentale di ogni ritualità, anche antica: i riti non possono essere accompagnati da musiche indipendenti dal cerimoniale, ma da musiche che devono servire alla maggiore realizzazione del rito stesso. In tale ottica, il cristianesimo durante i secoli, nel tentativo anche sofferto di rispettare tale principio, ha sicuramente contribuito, in tanta produzione soprattutto corale, nel delineare la civiltà musicale del mondo occidentale e il suo modo di concepire e praticare la musica.
Sin dalle origini della liturgia cristiana verbum, rito e canto, quindi, erano strettamente connessi e appannaggio dell’intera Assemblea. Affermava Agostino a tale proposito che non ci fosse niente di più utile e di più santo, per il popolo, che cantare i Salmi, anche se fu da subito chiaro quanto l’energia autonoma del canto e quindi i suoi insiti “pericoli” potessero inficiare la sacralità del cerimoniale. Difatti, negli scritti dei Padri della Chiesa si insisteva fortemente sulla necessaria semplicità e modestia dei cori, proibendo l’uso degli strumenti musicali, diffusi nei culti pagani e in grado con il loro potere seduttivo di impedire il sincero ascolto della Parola.
La Chiesa nei secoli ha sempre mirato ad una valorizzazione del canto liturgico, cercando però di mettere in guardia il credente, per sua natura creatura di Dio ma umanamente soggetto a fallibilità, contro gli eccessi possibili di una Musica che apportasse un eccessivo diletto dei sensi e di compiacenza mondana.
Tale preoccupazione non era infondata perché effettivamente nei secoli si è assistito ad una sorta di perdita di funzionalità spirituale della Musica liturgica, provocata da una sempre più netta separazione tra il popolo e la cosiddetta schola, dedita ad una pratica corale specializzata. Soprattutto si è assistito ad una crescita della ricerca meramente estetica nell’ambito del rito, che ha ineluttabilmente provocato una diminuzione della partecipazione del popolo. Dal V secolo in poi la Musica ha intrapreso una sorta di percorso verso la totale indipendenza sia rispetto al testo che al rito: tropi, sequenze, canzoni profane, formazione specialistica dei cantori a scapito della crescita spirituale, sviluppo incontrollato delle forme polifoniche, tecniche contrappuntistiche complesse.
Tutto ciò ha provocato la netta separazione fra Musica e Rito, per cui la Parola di Dio ha perso la sua funzione centrale e il testo è divenuto opportunità per ardite sperimentazioni musicali, con sovrapposizioni di testi differenti e vocalizzi interminabili, sostituzione di parti dell’Ordinario con altri testi, in totale disaccordo tra lo stile compositivo-esecutivo e lo spirito dell’azione liturgica. «Abbiamo introdotto nelle chiese una musica artificiosa e teatrale, un tumultare di voci diverse, quali nemmeno di Greci ed i Romani intesero mai, se non mi inganno, nei loro teatri” queste le parole quanto mai sconfortate di Erasmo da Rotterdam alla vigilia del Concilio di Trento.
Si noti, ad esempio, quanto accadde nell’ambito della produzione liturgica secentesca: essa era teatrale, spettacolare, magniloquente, fino a giungere alle ben nota settecentesca Missa Solemnis, una sorta di ibrido tra melodramma e musica per il culto, spesso un capolavoro frutto dell’opera di talentuosi artisti, ma cha ampliava la confusione fra il genere dell’opera seria e le necessità della liturgia cattolica, trasformandosi spesso in un vero e proprio concerto, con profusione di musica strumentale e immancabile divismo dei solisti.
Nel corso del tempo la Chiesa, e soprattutto i Pontefici, hanno tentato di mettere riparo ad una situazione spesso insostenibile, con bolle, encicliche, motu proprio (ad esempio, la ben nota Enciclica Musicae sacrae disciplina, promulgata Il 25 dicembre 1955 da Pio XII), nel tentativo di riportare la musica liturgica ai suoi insostituibili obiettivi, che sono appunto la gloria di Dio, l’edificazione morale dei fedeli e la maggiore efficacia del testo sacro, affinché gli stessi fedeli siano più facilmente guidati alla devozione cristiana.
Tra le diverse indicazioni c’è una in particolare che appare ricorrente negli interventi papali sull’argomento: l’importanza della partecipazione corale dei fedeli, per evitare che assistano alle funzioni sacre come estranei o muti spettatori. A tal fine, le istituzioni liturgiche a vari livelli dovrebbero adoperarsi per curare, o direttamente o con l’aiuto di esperti maestri, l’insegnamento della liturgia e della musica al popolo, quali discipline strettamente unite alla dottrina cristiana. Ciò si otterrà più facilmente se si istruiranno nel campo musicale liturgico le scuole, le comunità dei religiosi sparse sui territori, le associazioni, le pie istituzioni femminili, i vari istituti cattolici di educazione.
Pertanto, se, da una parte la Chiesa ha sempre riconosciuto al canto gregoriano una funzione prioritaria, in quanto canto proprio della liturgia romana, dall’altra, proprio per permettere la massima universalità del canto assembleare, non di rado ha ritenuto utile aprire il rito a nuove composizioni che “rispondano allo spirito dell’azione liturgica”, nell’ambito del canto popolare e della musica tradizionale dei singoli paesi. È importante che nello scegliere il repertorio di musica sacra, sia per la «schola cantorum» che per i fedeli, si tenga conto delle possibilità di coloro che devono cantare, una partecipazione graduata, poiché chiaramente non tutte le assemblee hanno lo stesso tipo di educazione corale e possono, relativamente al canto, partecipare allo stesso modo. A riguardo, nell’importante documento postconciliare l’Istruzione Musicam sacram del 5 marzo 1967 si afferma “La formazione di tutti i fedeli al canto sia promossa con zelo e pazienza, insieme alla formazione liturgica, secondo l’età, la condizione, il genere di vita e il grado di cultura religiosa dei fedeli stessi, iniziando già dai primi anni di istruzione nelle scuole elementari”
In ogni caso, nella celebrazione dei riti liturgici la Chiesa ha sempre incentivato la composizione di nuove melodie, ma perché esse fossero funzionali alla sacralità della cerimonia, solenne o quotidiana, dovevano essere sempre composte da maestri veramente competenti, cioè il frutto di autori preparati a livello musicale e contemporaneamente sensibili all’esperienza rituale. Tali melodie, anche popolari, potevano entrare nel “tempio” se compendiavano le caratteristiche di bellezza, chiarezza, dignità e pietà cristiana, soprattutto il carattere di universalità e totale accessibilità, in modo che i fedeli in qualunque parte del mondo sentissero i brani come familiari, poiché il canto è fattore e segno di comunità. Ancor più Giovanni Paolo II, intervenendo con sollecitudine sulle problematiche della musica sacra, ribadiva con forza come essa debba assolutamente mostrare piena aderenza ai testi, conservando la sintonia con il tempo storico a cui appartiene ma mai distante dal momento liturgico a cui è destinata, in totale e adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone.
La musica liturgica deve nascere «dal rito e dalle preghiere», e in essi deve agire affinché il Verbum prenda corpo e sostanza. Citiamo, in conclusione, le parole illuminanti di Antonio Parisi: “Non basta solo cantare, ma occorre celebrare cantando”.
Francesco Scoditti
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