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Mondo e Linguaggio - Sul Possibile E Sul Dicibile

La Chimera Dell’Oggetto Chiamato "Io" E Questioni Correlate

 

Parlare di ‘Io’ (o di ‘mente’) in termini di oggetto/organo (di qualsiasi natura: spirituale, mentale, fisica…) è profondamente forviante. Questo concetto rappresenta solamente l’esercizio di certe capacità che possediamo, quali il ricordare, l’immaginare, l’amare, il calcolare, il meditare, il parlare, l’avere aspettative, l’esser felici… ed innumerevoli altre.
Quindi la mente è un sistema molto complesso ed interconnesso di capacità che dialoga continuamente con il mondo.
Però molta gente non si accontenta di questo: vede che si può calcolare, che si può immaginare, che si possono avere aspettative sul futuro, che si può ricordare, che si può amare etc... ma questa gente cerca un ente/organo (alcuni materiale, altri immateriale, altri ancora spirituale) che fa tutte queste cose, che collega misteriosamente tutte queste cose, ma tale ente metafisico non c'è.
La mente non può essere ridotta alla fisica (e chimica) del cervello, è però ovvio che sarebbe estremamente sciocco negare il forte legame tra cervello e mente, ma ciò non deve degenerare in una identificazione tra i due: uno è un oggetto l’altro no.
Un riduzionismo qui è inattualizzabile per il semplice motivo che queste nostre abilità, anche se si potessero mappare sulla conformazione fisico-chimica del cervello, comunque sarebbe delle abilità e non delle reazioni chimiche: se io odio una persona ciò può essere tradotto in termini materialistici, ma così facendo si perde il mio sentimento.
Credo che sia profondamente forviante parlare di ‘pensiero’ come se ci si stesse riferendo ad un oggetto, infatti esistono uomini che pensano, ma non pensieri: come già dissi, il pensiero è una capacità di un essere vivente e come tale deve esser trattata.
Ovviamente è sensato parlare di ‘mentale’ ma no risulta affatto chiaro come si possa ritenere sensato ‘mentale’ quando si parla di un regno autonomo di fenomeni mentali.

Un uomo può accrescere sempre più le proprio conoscenze sull’Io generalizzato (o Io-prototipo), ma analizzare a fondo il proprio Io è cosa impossibile. Infatti qui ci si imbatte nel problema dell’autoreferenzialità (la mente studia se stessa) che rende vano il tentativo.

Il “io penso dunque io sono” è della forma “(io esisto Ù io penso) Þ io esisto”, dunque è una tautologia e non dice nulla sul mondo. (Si commette una petizione di principio, assumendo per vero ciò che si vorrebbe dimostrare).
In realtà il discorso è più facile di quel che sembra, infatti non v’è nulla da dimostrare: noi possediamo svariate capacità (ci arrabbiamo, abbiamo aspirazioni e aspettative, fantastichiamo, etc…), ma noi siamo tali capacità! Quindi l’Io esiste. (Badate che io non ho dimostrato nulla, ho solo mostrato.)

La morte dell’Io avviene quando tali capacità cessano di esistere. La morte dell’Io non è un fatto del mio mondo, ma un fatto del mondo.

L’anima non è l’Io o l’uomo, se definiamo ‘anima’ come ente indivisibile, e dunque immutabile. La forte mutabilità e scindibilità dell’Io (che, tra l’altro, non è un oggetto, si potrebbe dire che l’anima è un sistema di capacità immutabili, ma questo non coglie il suo significato originale e non risolve comunque il problema) e dell’uomo non lasciano dubbi sull’inconciliabilità di questi con l’anima. Dunque l’anima è impersonale, non dipendente da una dato tipo di mente.
La vita eterna è così meramente la sopravvivenza dell’anima (se si accetta l’esistenza di tale entità), non dell’Io o dell’uomo. Se continua a vivere solamente l’anima, completamente indipendente dall’Io e dall’uomo, non è certo corretto affermare che noi sopravviviamo, perché appunto né l’Io né l’uomo sopravvive.
Che soddisfazione darebbe saper la nostra mano immortale?
Possibilità di raggiungere noi stessi la divinità o di partecipare al ciclo di rinascite non v’è, secondo i credenti stessi. Eventualmente, è quindi l’anima, e solamente l’anima, a continuare il viaggio dopo la nostra morte.

Neodeterminismo, indeterminismo. Indipendentemente da quale sia la situazione effettiva, il libero arbitrio è un concetto non impossibile, ma insensato. Ce se ne accorge quando si tenta di definire il termine ‘libero arbitrio’. Si potrebbe anche definirlo chiaramente, ma così facendo ci si renderebbe conto che non è quel che volevamo definire, anzi è l’esatto contrario. Si và così a favorire la tesi opposta.
Non è: penso a cosa pensare e poi penso; bensì penso e basta. Ciò sarebbe infatti impossibile, perché si verificherebbe un regresso infinito, non compatibile con la natura della nostra esistenza.
Una figura per ciò: la nostra vita sarebbe come un segmento di retta, con estremo sinistro escluso ed estremo destro incluso, in cui tutto dipende dall’estremo sinistro, che appunto non v’è.
Alcuni vorrebbero dire, per sostenere il libero arbitrio: “posso scegliere questo, indipendentemente dal mio Io”.
Va bene, però, anche se ciò fosse vero (cosa assai dubbia) ho forse provato che io abbia scelto?
No, ho provato esattamente l’opposto.

Non si può dire che il mondo dipenda dalla volontà di un uomo. La volontà di un uomo fa parte del mondo.
Il mio mondo è il mio mondo, mentre il mondo è il mondo. Non si può asserire “Così non può essere perché a me non piacerebbe”.

Alla nostra nascita il mondo ci è dato. Noi, quindi, dipendiamo da esso. Da qui il nostro senso di dipendenza da una volontà esterna a noi.

E’ la possibilità di crearci immagini del mondo che sta alla base della nostra felicità o infelicità. Oggetti senza volontà non sono infelici, infatti essi, in un certo senso, non hanno aspettative sul futuro o rimpiangono il passato. Se noi riuscissimo a vivere il presente, accettando il mondo per come è, allora non vivremmo infelicemente. Dovremo, cioè, annullare la nostra volontà.
Ma è possibile non volere nulla? In altre parole: è possibile che esista l’Io ma non la volontà?
Una volta eliminata l’infelicità, come si farebbe a vivere anche felicemente? Infatti, in assenza di infelicità non è detto che inizi a sussistere la felicità, anzi.
In più: perché dovremmo voler un vivere felici? Forse voler esser felici è un sorta di tautologia.
In generale: noi vogliamo qualcosa. Se la nostra volontà trova riscontro con la realtà, noi siamo felici. Dunque, dal momento che noi vogliamo, vogliamo che si realizzi ciò che volevamo, quindi è inevitabile che noi vogliamo la felicità.
Appunto, la base della felicità è il volere.
Non volere è il presupposto della non infelicità. Volere è il presupposto della felicità.
Semplicemente: o si vegeta immobili o si vive oscillando.

L’esistenza di altre menti coscienti (oltre la mia) è una faccenda non decidibile. Noi osserviamo la struttura degli oggetti e le relazioni tra essi, non possiamo dire nulla se possiedono o meno coscienza. (Il mio amico ha la coscienza? Lo scimpanzé ha la coscienza? Il cane ha la coscienza? Il topo ho la coscienza? Il pesce ha la coscienza? La mosca ha la coscienza? Il battere ha coscienza? Una cellula della mia pelle ha coscienza? Il computer ha la coscienza? Il sasso ha la coscienza? L’elicottero ha coscienza? La Terra ha coscienza? L’Universo ha coscienza? Il mondo la coscienza?)
So che io ho (sono) una mente e per analogia fisiologica deduco che ogni oggetto che mi assomiglia ne possiede una. Questo passaggio è assolutamente arbitrario.
Spesso si discute riguardo il test di Turing e si osserva che non asserisce nulla, casomai che esso parla solamente dell’indistinguibilità esterna tra intelligenza naturale e la stupidità artificiale.
Mi chiedo: se, dopo aver costruito una perfetta copia di un essere umano, lo dotassi di un computer interno tale che posto il corpo presso una fiamma egli urlasse, posso dire che è veramente umano? “No” mi si risponderebbe a ragione. Ma se dotassi il computer di un programma così complesso da poter far reagire il corpo in modo umano sotto ogni aspetto (compreso il parlare ed elaborare dati sensoriali qualunque) e che potesse apprendere, allora non potrei affermare che questo oggetto è intelligente? “No, sembrerebbe umano, ma non lo sarebbe” si risponderebbe.
Però la nostra volontà si manifesta così, inevitabilmente, proprio come la volontà del robot. Non v’è forte analogia tra volontà umana e programma del robot. V’è qualche differenza, se non l’hardware?
“Ma l’Io muta mentre il programma è statico”, in genere sì, ma qui si parlava della possibilità di apprendimento del robot, ossia dato un input l’output non è sempre lo stesso: quindi si parla di programmi dinamici.
Ma il robot si rende conto di pensare? Cioè è cosciente?
Probabilmente no.
Ma non si può programmare il robot perché possa fare anche questo?
Forse, ma che significa ‘essere cosciente’? ‘Essere cosciente’ sta a significare ‘rendersi conto di ciò che si pensa e si fa’.
E allora cosa significa ‘rendersi conto di ciò che si pensa e si fa’?
Forse una figura per il ‘rendersi conto di ciò che si pensa e si fa’ potrebbe essere: un occhio che guarda l’Io.
Ma come può l’Io scrutare se stesso, non si cade nei problemi dell’autoreferenzialità? No se si afferma che l’occhio guarda solo una parte dell’Io, quella che non osserva.
E quanti livelli gerarchici di occhi riusciremo a generare?
Se i livelli fossero in numero limitato (come sembra realmente essere), questo non starebbe a significare che forse consapevoli non siamo e che più livelli raggiungiamo, più l’illusione di essere consapevoli è forte e dura da eliminare?

 

Matteo Perlini (Epicurus)

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