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Riflessioni sugli anni settanta
di Davide Riccio
Giocare negli anni ‘70
- seconda parte - Agosto 2006
Giocare negli anni ’70 voleva anche dire suonare. Come per il francese “jouer” e per l’inglese “to play” (entrambe significanti “suonare” e “giocare”), finalmente le due parole coincidevano anche in Italia. Fu allora che apparvero i primi strumenti musicali giocattolo che andavano un po’ più in là del tamburo e il sonaglio per l’infante o il flauto dolce scolastico, e un po’ più in qua della pubertà costretta al solfeggio e alla tortura del vero studio su veri strumenti musicali sotto severi e pretenziosi genitori (v. David Helfgott in “Shine”) e maestri di musica. Noi bambini potevamo finalmente suonare giocando, o giocare suonando con strumenti musicali che non suonavano forse benissimo, ma neanche portavano a frustrazioni precoci o a farci odiare lo studio della musica e la musica in toto. Credo che questo ci diede un approccio giocoso e gioioso tale che, chi veramente interessato, è poi approdato con tutta tranquillità e piacere a strumenti più seri e veri. La Bontempi, in particolare, produceva tutta una vasta gamma di strumenti giocattolo come la diamonica (o clavietta), la cetra (zither), il sassofono e la tromba di plastica argentata con le chiavi colorate, la chitarrina, la fisarmonica, piccole batterie complete… e il mitico organo od organo pianola ad aria, in vari modelli, bicolore grigio e arancione, con gli accordi d’accompagnamento minori e maggiori e le tablature per suonare cose come “Adeste fidelis”.
Ma va anche ricordata la Hohner, con i glockenspiel e le armoniche a bocca. Finalmente i bambini potevano avere un organo senza dover impegnare i genitori a comprarne o, più verosimilmente, a rifiutarsi di comprarne di costosissimi e ingombranti tipo Hammond, Thomas o Farfisa. Nacquero quindi i primi organi elettrici per bambini quali Bontempi, Eko, Casio e Giaccaglia, con o senza reggitastiera e sgabellino. Anch’io ebbi il mio Bontempi… Be’, devo ammettere che nel mio modello superbase la ventola dell’aria faceva un rumore terrificante, il volume non si poteva regolare, l’estensione di due ottave fisse era “castrante” e il suono, simile a quello di una diamonica e senza possibilità di regolare le dinamiche, era assordante e abbastanza irritante. Ce n’era abbastanza da farmi recedere da ogni velleità musicale. Ma ve n’erano di migliori, su cui misi le mani a casa degli amichetti, coi quali improvvisammo o componemmo le nostre primissime cose, registrandole sui portatili a bobine. A distanza di trent’anni tutti quegli strumenti giocattolo e quelle sonorità sono state rivalutate da molti musicisti e gruppi, non soltanto i cosiddetti “demenziali” (anche gli Skiantos), ma schierati anzitutto tra le fila raffinate del neo-lounge e del lo-fi/indie-pop-rock ed altri alternativi, inclusi il jazz e la musica contemporanea erede della classica fin dal grande John Cage. L’elenco sarebbe ormai lunghissimo: in Italia, A Toys Orchestra, Pecksniff, Bz Bz Ueu e le tremendissime Allun, i geniali Elio e le Storie Tese e la canta-poetessa demenziale Luisa Sax, i tedeschi Hassel Sound, l’ottetto Architecture di Helsinki, Father Murphy e le newyorchesi stralunate Coco Rosie, i favolosi islandesi Sigur Ros, il jazzista sloveno Zlatko Kaucic, il compositore contemporaneo Mauro Lanza nell’opera “Barocco” e Tomi Räisänen (Dreamgate, per strumenti musicali e nastro magnetico) fino alle ricerche sonore di alto concetto dello statunitense Steve Roden e avanti… La Playtoy Orchestra è invece una vera orchestra di 7 elementi che suona brani easy listening con strumenti giocattolo e sono sponsorizzati niente di meno che dall’azienda Bontempi (cd consigliato, Groovy lounge music). Pascal Comelade, eclettico compositore franco-catalano, degli strumenti musicali giocattolo è considerato invece il più grande virtuoso (ha collaborato con P.J. Harvey, Vinicio Capossela, Roy Paci, Robert Wyatt, ha suonato ovunque, composto colonne sonore, inciso una trentina di dischi utilizzando da sempre strumenti giocattolo e in un modo tale da conferire loro quasi pari dignità degli strumenti veri… Ma cos’è poi il vero? Cosa non vero? E forse più vero un pianoforte a coda Bosendorfer nelle mani di un incapace?) Anche l’elettronica ha voluto dire la sua, creando la figura del “circuit bender”, una sorta di hacker musicista. Circuit bender è chi modifica vecchi strumenti, spesso pensati come giocattoli, ampliandone o stravolgendone le caratteristiche attraverso un intervento sulla loro elettronica. Ogni anno a New York ha luogo il Circuit Bender Music and Art Festival, dove si riuniscono artisti da tutto il globo in performance, concerti e workshop. Reed Ghazala è uno dei guru di questo filone.
Insomma, siete avvisati: oggi suonare strumenti o vecchi strumenti giocattolo fa molto tendenza. E’ assolutamente à la page. Se ne avete, non buttateli. Se suonate, riscopriteli! Se fate dei dischi, farete pure un figurone.
Tra le tante giocate sonore o musicali degli anni ’70, noi più vicini ai padri dei padri di decenni e secoli più lenti, ricordo che si tramandavano ancora cose vecchie o antiche (è così ancora?), semplicemente senza tempo. Una di queste era l’irridente e pernacchioso suono dell’ancia labiale su certi fili d’erba, o erba sonora, quando si andava nei prati (già, perché allora l’andare per i prati alla domenica era un qualcosa di consueto e ampiamente condiviso, dove fra l’altro raccogliervi il tarassaco detto cicoria era cosa gustosa uguale per poveri o per ricchi, e soprattutto possibile, prima che tutto divenisse proprietà edificata e privata… Il che meriterà un articoletto a sé).
L’erba sonora non era meno antica del pettine sonoro. Me l’aveva insegnato mio padre, che con un foglio di carta velina, un elastico e un pettine, si poteva ottenere un rudimentale strumento musicale. Si prendeva un pettine, lo si ricopriva con la carta velina, fermata per lungo da un elastico. Si accostava la velina alle labbra, ci si soffiava sopra modulando le vibrazioni come su un’armonica. Il suono era quello di un kazoo.
Noi lo vedemmo suonare in televisione da Renato Rascel e ci sembrava un gioco nuovo, ma invero era così antico da essere citato fin dal Seicento anche ne “L’Adone” dal poeta barocco e manierista Giovan Battista Marino, che delle poesie pastorali pur divenne un maestro:
Stava costui con pettine sonoro
sollecitando armonico stromento.
Un cinghiale in disparte, un cervo, un toro
teneano a quel sonar l'orecchio intento.
Ad ogni modo, crearsi per gioco degli strumenti musicali primitivi (e giocattoli e giochi in genere) era pratica diffusa tra noi bambini. Allora i detersivi venivano commercializzati in fustini cilindrici e rubaspazio. E quei fustini erano per noi tamburi, rullanti da suonare con bacchette o stecche variamente rimediate. Facevamo suonare di tutto. Ricordo un gioco a casa di un amico, in cui dovevamo improvvisare, far suonare dietro certi dischi qualunque oggetto a portata di mano in salotto, incluso il corpo (come nell’album di Ron Geesin e Roger Waters dei Pink Floyd – Music from the body e quel brano d’apertura in cui i due si esprimevano con varia materia corporale seduti su un water…) Non c’era davvero bisogno di animatori musico-terapeuti per inventarci questi trastulli, perché nascevano in noi spontanei. A me piaceva anche far ronzare gli elastici, variandone l’estensione, portandoli all’orecchio o costruendovi apposite casse armoniche con scatole varie. E questo mi fa ricordare anche altre cose. Sparare gli elastici addosso ai compagni di classe, per esempio, che comportava varie tecniche di più o meno pesante potenza di tiro e offesa, uso a mo’ di fionda incluso con proiettili più o meno sostanziosi come le palline di gomma-pane. Ma anche un certo gioco, che vedevo spesso fare al mio amichetto vicino di casa quando giocavamo sullo stesso balcone lungo col ballatoio. Si faceva rigirare un elastico tra le dita delle mani, componendo e sciogliendo con movimenti vari intrecci e figure. Ma io quello, non riuscì a impararlo mai. Tutt’altra faccenda era invece il gioco dell’elastico. Lo si giocava almeno in tre. Due tenevano l’elastico ai due estremi, prima alle caviglie e poi sempre più su intorno al corpo fino al collo, mentre il terzo doveva superare una serie di figure regolate saltando dapprima, poi usando le braccia e le mani per aggirare o intrecciare l’elastica fettuccia… Io credo che non lo giochi più nessuno ed è un vero peccato, specialmente se penso che il “gioco dell’elastico” oggi fa pensare piuttosto al bungee jumping… Che pur bello sarà, ma certo, spero, non per i bambini. Lo giocavamo anche nel cortile della scuola, e credo che quel gioco avesse un particolare pregio: in quei tempi di fresca promiscuità (poco prima esistevano le classi separate e i giochi soltanto maschili o soltanto femminili), il gioco dell’elastico si giocava insieme maschietti e femminucce indistintamente. E i giochi che si giocavano insieme non erano affatto molti. C’era molto razzismo sessista da entrambe le parti. Forse quello fu addirittura l’unico gioco comunemente accettato, senza vergogne e riserve maschili da una parte o costumatezze e riserve femminili dall’altra. Ne divenni così dipendente, da dovermelo giocare anche a casa da solo, mettendo la fettuccia elastica tesa tra due sedie messe una di fronte all’altra.
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