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Un Dio "solo"?

di Stefano - maggio 2007
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Pagina 1 - Premessa.
Pagina 1 - Cosmologia e Cosmogonia.
Pagina 2 - La vita.
Pagina 2 - Il perché della creazione.
Pagina 2 - Conclusioni.

 

La vita.
La domanda sul “senso dell’esistenza” può costituire il punto di partenza di una serie di riflessioni a cui ciascuno può contribuire con il proprio percorso di fede o con un approccio laico, visto che, inevitabilmente, tutti noi, prima o poi sperimentiamo la necessità di dare una risposta a questo interrogativo.
Personalmente sono sempre stato affascinato dal concetto di “coscienza” in quanto ritengo che esso, più di ogni altro, racchiuda in sé il senso della vita intesa come “materia consapevole” e, quindi, capace di contemplare, contemplarsi e formulare ipotesi sulla propria provenienza, grazie all’innata capacità di astrazione.
Il darwinismo spinto assume che un cervello sufficientemente complesso sviluppi una tale quantità di connessioni neurali da arrivare alla capacità di apprendere, provare emozioni, sviluppare l’affettività e, più importante di tutto, appunto, la capacità di astrazione.
Tutto nell’ambito di un processo evoluzionistico basato sulla selezione naturale dove, al più, esistono diversi stadi di coscienza, a seconda della specie e, nell’ambito di una stessa specie, a seconda dell’età e dello stato di salute psico fisica.
Il metodo scientifico, d’altronde, ci dice che un fenomeno fisico esiste se è osservabile e si riproduce, naturalmente o artificialmente; di conseguenza una teoria è valida se i suoi risultati sono comparabili, commensurabili o, almeno, compatibili con le evidenze strumentali.
Ne consegue che, almeno in teoria, la coscienza dovrebbe poter essere riprodotta con reti neurali artificiali talmente complesse da arrivare a sviluppare anche il “pathos”.
A un tale risultato non ci si è mai lontanamente avvicinati, nemmeno con i computers più potenti né, io credo, si arriverà mai.
Tanto meno si è mai riusciti a creare la vita in laboratorio, nemmeno nelle forme più elementari (non fanno testo le deprecabili sperimentazioni su ciò che già, di per sé, è vita).
A questo punto è lecito, a mio avviso, introdurre il concetto di “anima”, intesa come la percezione dell’unicità dell’esistenza individuale, distinta dall’”alter” e, allo stesso tempo, la manifestazione della trascendenza del corpo “materiale”, anche nelle condizioni in cui l’identità razionale non sia ancora presente o venga meno (come nel caso della mente di un neonato, del decadimento delle facoltà intellettive di un anziano o della pazzia pura).
Il concetto è, a mio parere, estendibile anche al mondo animale e vegetale, ma può essere affrontato soltanto nell’ottica della religione pura con altro tipo di argomentazioni, di tipo esegetico, che esulano da questa trattazione.
Il cervello, allora, per quanto complesso e sconosciuto possa essere, non rappresenta altro che il mezzo con cui l’anima, che è eterna, sperimenta l’esperienza terrena, ovvero il tempo.

 

Il perché della creazione.
Come già detto in premessa, per poter andare avanti nella costruzione “logica” del mio pensiero devo, in maniera poco “ortodossa”, ricorrere all’interdisciplinarietà, attingendo anche alla psicologia, in quanto anch’essa scienza della materia (nell’accezione più generale possibile del termine).
Se ammettiamo, allora, che una causa esterna abbia impresso, nella natura stessa delle cose, le leggi fondanti dell’universo, occorre “motivare” tale “volontà creazionistica”.
Ciò si può fare solamente ipotizzando quello che, non trovando altre definizioni, chiamo “immanentismo inverso”, inteso come pari “dignità di somiglianza” fra creatura e creatore.
Immagino, allora, il senso di solitudine, vuoto e incompiutezza che un’entità eterna, perfetta e “consapevole” possa provare in un ambiente eternamente statico, senza paura, tristezza, dolore, ma anche senza speranza, gioia e, soprattutto, senza amore.
Appare, allora, più chiaro il senso della creazione, della necessità di generare ciò che può contemplare, capire e amare.
Ecco il senso del tempo, necessario per indurre speranze e aspettative, anche a costo di patire paura e sofferenze che il creatore condivide e “sperimenta” con le sue creature “entrando” a sua volta, nel tempo e nella storia. Ciò è avvenuto, per il cristianesimo, con l’avvento di Gesù.
Ecco, di conseguenza, il senso della morte, necessaria a rendere “dinamica” un’eternità altrimenti posta in uno stato cosmico di “morte termodinamica” (lo “zero Kelvin” è un valore “asintotico”).
Ecco, infine, il senso e la necessità del male, inteso come libertà di decidere se cercare e amare, ognuno con i “talenti” a propria disposizione, il Creatore, oppure  lasciare che resti, appunto, un “Dio solo”.

 

Conclusioni.
La conclusione cui sono pervenuto è che l’universo, di per sé, è un paradosso esistenziale, nel senso che, razionalmente, non dovrebbe esistere.
Il miracolo è, appunto, la sua esistenza e quella di ogni essere vivente.
Dimostro con queste argomentazioni, l’esistenza di Dio.
La certezza la ricavo dalla fede.
Mi piacerebbe che un eventuale interlocutore esprimesse un giudizio in merito, contribuendo, con il proprio pensiero, ad arricchire e articolare i contenuti di queste mie “speculazioni”, magari divertendosi a confutarle punto per punto.
In fondo le più grandi scoperte dell’umanità sono scaturite da considerazioni anche banali.

Stefano.

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