La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 6 - Cosa possiamo fare individualmente e politicamente
Paragrafo 5 - Iniziare dalla “comunità” più piccola e più collaudata emotivamente: la coppia
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Ad una prima fase in cui ognuno dovrà cercare di impiegare, magari anche faticosamente, un po’ della propria volontà (intesa come desiderio di arrivare a determinate soluzioni) per crearsi le giuste condizioni interiori, dovrà poi seguire una seconda fase in cui si potrà cominciare a individuare le azioni corrette per l’effettivo sviluppo razionale di una socialità autentica.
È questa una fase egualmente delicata in cui non ci si potrà permettere di sbagliare. Si dovrà soprattutto cercare di non cadere nell’errore di sviluppare quelle azioni che ci porterebbero ad un altruismo, inteso appunto come cura dell’altro, e non della “società” che si vuole costruire. Una società che sarebbe logico farla iniziare da pochi componenti; addirittura da due soli come nella coppia.
Per affrontare questa fase abbiamo a disposizione una visione razionale che ci permettere di fondere due entità in una sola ed una visione emotiva formata da sensazioni e spinte emotive che possono indicarci se il tipo di azione individuato fa effettivamente al caso nostro.
Se ci scrolliamo di dosso l’idea, molto generalizzata, che nel rapporto di coppia si deve utilizzare l’altro per realizzare i propri desideri ed interessi o anche l’altra, ugualmente perniciosa, che ci si deve offrire incondizionatamente all’altro per essere a nostra volta utilizzati, e le sostituisce con l’idea che la coppia sessuata ha tra i suoi obiettivi quello di fondersi in un’unica struttura unitaria (anche solo per un tempo determinato) dalla quale è possibile ricavare realizzazioni altrimenti impossibili, almeno fino a poco tempo fa, si può avere un’idea pertinente di cosa dobbiamo effettivamente ricercare.
Il desiderio, la passione, che spinge un amante tra le braccia dell’altro è come la fune, il legame, a cui abbiamo fatto riferimento. Cos’altro può tenere insieme due esseri così diversi come un uomo e una donna? Di sicuro altre complementarietà, che se alimentate da un dialogo efficace, possono portare il singolo individuo a non sentire più il peso di un isolamento e di una solitudine scaturenti da un senso di estraneità al mondo fondato sull’esiguità di legami che non raggiungono la materialità necessaria per essere nettamente individuati. Dove c’è poca energia e poca materia la mente razionale vede il vuoto, poiché non ha la stessa sensibilità di una mente emotiva.
Quel vuoto però non è detto che debba esserci. Neppure però possiamo immaginare che non ci sia, che la compattazione, cioè, si realizzi sul piano puramente spaziale. Su questo piano la femmina e il maschio dovranno continuare a rimanere distaccati l’uno dall’altro, liberi, il che non esclude però che cerchino di legarsi attorno ad un nucleo rappresentato da un progetto comune. Se sapranno identificarsi con esso e scambiarsi vicendevolmente sensazioni, emozioni, pensieri, allora potrebbero riuscire a intrecciare una relazione capace di promuoverli entrambi ed insieme ad una nuova unità. Si riesce così a formare un laboratorio esistenziale essenziale dove imparare “naturalmente” la maniera di regredire da una forte soggettività per avviarsi verso una spiccata socialità.
Nel caso di una società minima come la coppia si deve solo tener presente che il “legame” emotivo serve per far tornare indietro ad una condizione ancestrale in cui probabilmente erano già un tutt’uno e non per andare avanti verso una nuova compattazione che serve invece per creare un modulo, una molecola, con cui poi costruire forme sociali più complesse.
Se ricorriamo al mito, narrato da Platone nel Simposio, dove Giove divide a meta, con un fendente ben assestato, un originario essere androgino divenuto un po’ troppo superbo e altezzoso, derivandone due metà sessuate, ci appare chiaro cosa intendiamo per “ritorno” ad un’ancestrale condizione.
Si tratta, in questo caso, di un mito che probabilmente vuole cogliere l’essenza profonda e sostanziale della sessualità; nata dalla necessità di snellire strutture in origine forse troppo complesse e macchinose per avere un ulteriore sviluppo. Da qui la necessità di introdurre un meccanismo sperimentale più snello, come la sessualità, che rimescolando continuamente i geni riesce a creare sempre nuove opportunità, pur nel rispetto di un’invarianza capace di tutelare processi vitali collaudati.
Se consideriamo la coppia attraverso una tale ottica ci rimarrà facile convincerci che il desiderio, la complicità, la tenerezza, la mutua cura, sono dovute a conoscenze pre-razionali che si propongono come finalità la ricostruzione concettuale, per un periodo limitato di tempo, di quella struttura che probabilmente aveva in sé la possibilità di rigenerarsi, di ricostituirsi, per poter superare la barriera tanto del decadimento strutturale avanzato, quanto di un migliore e costante aggiornamento delle singole strutture conoscitive rispetto all’ambiente.
La razionalità non dovrebbe fare altro che “imitare” l’emotività, ponendosi come obiettivo non vecchie ma nuove e più ampie strutture. La Logica della socialità rimane in fondo questa; e non certamente quella che gli abbiamo finito per attribuire considerandola come strumento per alimentare ulteriormente l’egoismo.
Guardando, dunque, alla coppia come una costruzione sociale costruita dall’emotività, possiamo farla diventare un laboratorio dove la razionalità può operare per allenarsi al dialogo e al rispetto della soggettività altrui.
Se si riesce a far diventare la coppia una fucina dove imparare la convivenza, la tolleranza, il dialogo, l’esercizio della logica, il calo della soggettività, ed altro, avremo davvero molto possibilità di compiere quel tipo di azioni che ci permettano di diventare quei sistemi molto più aperti che dovremmo essere; “moduli” sempre più adatti per affrontare nuove e complesse realizzazioni.
Tutto si gioca sul filo sottile della sperimentazione, sul gioco appassionato a rincorrere la speranza di un futuro migliore, che non può assolutamente riferirsi al futuro del singolo individuo, che invece è una misera illusione.
A molti la cosa apparirà, purtroppo, assurda e per niente auspicabile. L’idea che una comunità possa in futuro muoversi e operare come se fosse un singolo individuo pluri-personale, andando oltre la pluri-cellularità, cozza fortemente con l’attuale propensione ad alimentare la monovalenza dell’individualità. Oggi sicuramente può atterrire l’idea di diventare qualcosa di simile alle società degli insetti, quali api, termiti o formiche. E non riusciamo certo a concepire, come Hofstaedter, che, invece, tali individui stanno sperimentando come diventare “strutture superiori”, con un percorso simile a quello compiuto dalle nostre cellule che sono arrivate a costruire noi: eventi di straordinaria potenza e bellezza.
Purtroppo a bloccarci ulteriormente è il timore che se non promuoviamo e sviluppiamo convenientemente la soggettività si corre il serio pericolo di vedercela colonizzata, utilizzata, strumentalizzata, da coloro che ricorrono facilmente all’uso della violenza. Un timore che può essere fugato solo gustando antipasti di gioia e felicità, per i quali vale la pena mettere perfino in discussione una certa sicurezza individuale. L’hanno fatto, ad esempio, i primi cristiani che non hanno avuto timore ad esporsi, facendosi anche trucidare pur di portare a compimento i loro ideali. Possiamo rifarlo anche noi se ci apparirà chiaro il motivo per operare simili scelte.
Riescono a rendersene conto coloro che ancora sono capaci di forme emotive d’amore, non essendo la loro natura stata completamente intrappolata dall’egoismo e la loro tendenza, quindi, rimane ancora quella primordiale di riuscire a “legarsi” con l’intero universo. Anche se queste realtà non se ne trovano molte in giro, fortunatamente non sono scomparse del tutto e riescono ancora con il loro esempio a dettare spesso negli altri dei comportamenti più fraterni.
Ovviamente, non è detto che l’amore debba per forza essere sperimentato nei soli laboratori costituiti dalla coppia e dalla famiglia, ma sicuramente diventa più complicato costruire con “moduli atipici” una società ben strutturata.
Un amore concettualizzato come la necessità di costruire strutture superiori legando tra loro gli individui, anche se ovviamente non nella dimensione spaziale ma in quella temporale, ci offre la possibilità di intendere le spinte altruistiche, il dare disinteressato, ed altro ancora, in maniera del tutto coerente col bisogno di soggettività.
Allo stesso modo risulta più comprensibile l’amore tra genitori e figli, che per la conoscenza emotiva sono sostanzialmente la stessa cosa; ma che per la razionalità diventano due enti distinti.
Se, quindi, la razionalità interpretasse la realtà in modo del tutto simile all’emotività non ci meraviglieremmo più di tanto, ad esempio, che un bambino appena nato si rivolge al capezzolo della madre per succhiarne il latte. Non ci chiederemmo: chi glielo ha insegnato. Il neonato non è, infatti, l’inizio di qualcosa che arriva dal nulla ma il ripresentarsi di una serie di situazioni un tempo problematiche che le esperienze fatte con successo in epoche remote hanno risolto e codificato come “conoscenza” trasmettibile geneticamente. A questa conoscenza, nel corso della vita andrà poi ad aggiungersi quella fatta direttamente con l’esperienza, con le situazioni nuove che hanno bisogno di essere “registrate”, “incorporate” per poterci adeguare ad un ambiente che muta in continuazione. L’ambiente, ricordiamocelo sempre, non è solo quello inorganico, inanimato, ma è oggi anche e soprattutto quello vivente, quello umano, che non ci è consentito impunemente di utilizzare con cinismo per accrescere la nostra soggettività. Se lo facciamo, possiamo star certi che prima o poi arriveranno dei conti salati da pagare.
Scienziati come il neuropsicologo Panksepp (pag. 166 – felicità..) cominciano a prendere sul serio la visione secondo cui la natura stessa e non la ragione degli esseri superiori spingerebbe ad instaurare rapporti stabili e duraturi con i nostri simili. E’ in questo modo che la tendenza alla socialità viene vista correttamente, come dovrebbe, e cioè un comportamento piuttosto antico che si svilupperebbe già nel sistema conoscitivo emotivo e non solo con l’avvento del sistema conoscitivo razionale. C’è oramai tutta una letteratura che sta procedendo ad allargare le nostre vedute in tal senso.
Tiffany Field (167 – La felicità) dell’Università di Miami ha dimostrato che le carezze accelerano lo sviluppo nei bambini. Ella, infatti, prendendosi cura di un gruppo di bambini nati prematuri e tenuti perciò in incubatrice prese ad accarezzarli tre volte al giorno muovendone leggermente le braccia e le gambe. Bastò questa semplice premura per far si che questi neonati si sviluppassero molto più velocemente di quelli che non erano stati fatti attenzione di tali cure.
Purtroppo oggi ci ritroviamo tutti costretti ad indossare fin da piccoli delle pesanti armatura dentro le quali cresciamo convinti che in questo modo possiamo più facilmente difendere la possibilità di esseri autopoietici di secondo ordine che comunque siamo arrivati a rappresentare con una buona efficienza. E’ indiscutibile che queste armature culturali ci bloccano e ci stanno vietando di esprimere una naturale socialità che avrebbe invece bisogno di essere perfezionata al punto da essere in grado di trasformarci collettivamente in realtà più ampie e pregne di senso.
Partendo dal nostro punto di vista non si può sostenere che è casuale quanto emerge dalla teoria dei giochi, iniziata a suo tempo da John Von Neumann e che si occupa di “calcoli morali”.
La strategia vincente in “partite a somma zero” giocate tra “competitori” di una stessa comunità è risultata quella nota come “tip for tap” (questo per quello), in cui a determinate azioni si risponde sempre con azioni dello stesso tipo. Si risponderà, quindi, alle azioni di un competitore in modo leale quando quello si comporterà lealmente, ma si ripagherà fermamente con la stessa moneta una sua scorrettezza. Questa strategia mette così in evidenza che alla lunga, quando la posta in gioco non è acquisibile esternamente, il comportamento egoistico non paga assolutamente. Al più le scorrettezze possono essere utili se a pagarne le spese è un terzo che va così ad alimentare un montepremio che può essere vinto da uno piuttosto che dall’altro.
Quello che sembra emergere con una certa chiarezza da questa teoria è che si dovrebbe cercare di costruire onestamente la società, perché è così che ognuno può guadagnarne. Il guadagno di un’autentica crescita sociale, anche se minima, è costituito da nuove possibilità che ognuno può utilizzare. Una crescita soggettiva, egoistica, per quanto ampia, invece, costituirà sempre un bilancio complessivo deficitario per la comparsa di tensioni e contrasti che andranno a minare le conquiste già acquisite. Eppure, è in questa direzione che si è sviluppata la crescita razionale dell’uomo, alimentata anche dalla relativa facilità con cui siamo riusciti fino ad ora a depredare i “terzi” delle loro risorse: la natura, gli animali, gli altri uomini meno scaltri. I ricchi e i potenti sono diventati in questo modo sempre più ricchi e potenti, i poveri e i diseredati sempre più poveri e sempre più diseredati. E quando non avranno più i “terzi” da depredare si rivolgeranno, come hanno già iniziato a fare, gli uni contro gli altri in una partita a somma zero. E intanto l’umanità sta per essere annientata dalle enormi energie che sono state liberate per ricavarne quegli spiccioli su cui l’ingordigia umana si è buttata a capofitto come una belva dai mille tentacoli.
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