La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 5 - Ipotesi sulla conoscenza
Paragrafo 2 - Dai procarioti agli eucarioti
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Per evitare di dare un’immagine di fantasia credo sia più opportuno ricorrere alla descrizione organizzata da F. Pratico nel suo lavoro La tribù di Caino. L'irresistibile ascesa di Homo Sapiens.
Milleottocento milioni di anni fa, narrano i resti fossili, la Terra era popolata esclusivamente da migliaia di miliardi di esseri microscopici: batteri, alghe azzurre fotosintetizzatrici, cianobatteri e così via, tutti "procarioti", ossia organismi unicellulari sprovvisti di nucleo, il cui materiale genetico era immerso nel citoplasma, nella "carne" cellulare, al contrario delle cellule di noi animali superiori, dove è ben custodito da una membrana che lo separa accuratamente dal resto della cellula. Quegli esseri vivevano e si riproducevano velocemente nelle dense e tiepide acque lagunari, ondeggiando placidi a mezza altezza, catturando l'energia che il nostro Sole faceva piovere loro addosso e nutrendosi delle sostanze in sospensione nell'acqua. In realtà, a quanto pare, non solo di quelle: le ricostruzioni dei biologi dell'evoluzione ci assicurano che in quel mondo apparentemente pacifico era in corso una feroce concorrenza per il cibo e per lo spazio. Esistevano già allora predatori e prede: il batterio più grosso o più aggressivo divorava letteralmente quello più piccolo o più debole. Queste guerre batteriche durano ancora oggi. I Bdellavibrio – narra la biologa americana Lynn Margulis – sono microbi che utilizzano l'ossigeno per la respirazione e fanno letteralmente a pezzi le loro prede, divorandole dall'interno. Aggrediscono la preda, fissandosi a essa e ruotando come una trivella dal moto vorticoso: così penetrano all'interno della loro vittima e ne frantumano il materiale genetico. Dopo essersene serviti per sintetizzare i propri geni e proteine, rompono l'ormai inutile e vuoto sacchetto che costituiva il corpo dell'ospite andato distrutto. Sono in pratica le stesse strategie che producono in molti casi in noi animali pluricellulari malattia e morte a opera di germi patogeni.
E’ una ricostruzione scientifica di come si doveva presentare la vita nelle sue primissime fasi.
In quell'alba della vita, - continua Prattico - con l'impoverirsi delle materie organiche prebiotiche in sospensione nell'ambiente (costituito dalle tiepide acque vicine alle coste) aggressione e concorrenza spietate, fino al cannibalismo, erano divenute quindi la regola per la sopravvivenza, almeno per molti di quegli organismi unicellulari.[…] Quindi i nostri antenati procarioti erano – nella loro piccolezza – già molto affaccendati a farsi la guerra, il più grosso a nutrirsi del più piccolo, il più furbo a sfruttare le risorse del rivale a proprio vantaggio. Un'ipotesi oggi condivisa da gran parte del mondo scientifico e proprio questo gioco al massacro avrebbe portato alla nascita delle grandi, maestose, raffinatissime cellule che formano i nostri corpi: le cellule eucariote, appunto. Il batterio "grosso" avrebbe cioè inglobato dentro di sé, nel tentativo di digerirlo, quello più piccolo; il più piccolo, ma meglio attrezzato per esempio per sfruttare a fini energetici processi ossidativi (ormai indispensabili alla sopravvivenza poiché la composizione dell'atmosfera cominciava a trasformarsi, grazie al fino ad allora velenoso ossigeno, prodotto di scarto dei processi vitali del mondo batterico), avrebbe scelto di trasformarsi in parassita del più grosso, per risparmiarsi il lavoro necessario a procacciarsi da vivere. In questo caso una sorta di lieto fine: la simbiosi.
Sembra ormai certo – scrive ancora la Margulis, che è forse oggi la maggiore teorica della simbiogenesi – che i mitocondri fossero in passato batteri liberi che, per un periodo di tempo prolungato, abbiano stabilito un rapporto di simbiosi ereditaria con ospiti ancestrali i quali, alla fine, evolvettero in cellule animali, cellule vegetali e cellule che non rientrano né nell'una né nell'altra di queste categorie.
Una strategia che sembra destinata a ripetersi con una certa costanza nel corso dell'evoluzione: la concorrenza feroce, che porta inevitabilmente alla distruzione della preda, alla fine si ritorce contro il più forte, che una volta distrutta o impoverita la riserva di prede si vede condannato alla fame o a divenire a sua volta vittima dei suoi consimili. A volte subentra quindi una sorta di alleanza: la cooperazione diviene più produttiva dell'aggressione, più efficace ai fini della sopravvivenza e dell'adattamento all'ambiente, di ciò che chiamiamo "fitness". Un ragionevole arrangiamento, con una distribuzione di compiti, che poi progressivamente da associazione temporanea diviene stabile, dando vita a un unico organismo, nel quale i "soci" coprono ruoli differenti e raggiungono gradi diversi di specializzazione. È un processo che sembra avere segnato l'intero corso dell'evoluzione della materia vivente, ripetendosi a livelli sempre più complessi: per esempio con la nascita delle colonie temporanee di animali unicellulari, che in determinate circostanze di emergenza ambientale si aggregano e "specializzano" tra loro alcuni gruppi in funzioni diverse, indispensabili alla comunità; e infine con l'apparizione dei metazoi (gli animali composti da migliaia o milioni di cellule). La tendenza all'aggregazione, all'integrazione tra organismi elementari per formarne uno più complesso in grado di fornire risposte più duttili ed efficaci ai problemi e alle difficoltà ambientali sembrerebbe quindi una costante nell'evoluzione della vita in tutte le sue forme, se si considerano queste non immobili nel tempo, ma come plastici prodotti dell'evoluzione, risposte mutevoli ma sempre più efficaci all'inquieto trasformarsi dell'ambiente planetario. L'aggregazione e la specializzazione delle parti che ne conseguono sembrerebbero addirittura obbedire a una logica ripetitiva a invarianza di scala, come le curve frazionarie di un frattale, che determinerebbe alla lunga la straordinaria varietà formale e la sostanziale ripetitività delle forme viventi (che in ultima analisi sono composte in modo esclusivo da quattro basi azotate e da venti aminoacidi) e dei loro comportamenti.
Da questo processo non sembra immune lo stesso mondo umano, che nella sua storia di specie e sociale inventa continuamente forme "mediate" di aggregazione e specializzazione che quotidianamente sperimentiamo: come il nostro visitatore alieno potrebbe certamente notare, le società umane composte da migliaia o milioni di individui ripetono al loro interno alcune delle strategie cooperative (che ci piaccia o no) del mondo microbico. Non c'è da stupirsi. La vita è "unica", un unico anello che circonda il pianeta. È possibile che altri fenomeni, singolari come questo, si svolgano su altre Terre lontane: lo spazio è grande e la fantasia della Natura infinita. Ma la vita che conosciamo e di cui siamo parte è sicuramente un prodotto unico e in un certo senso necessario del pianeta. Ed è nel suo complesso indissolubile: ogni sua parte è fortemente intrecciata con tutte le altre, e dove singole forme spariscono è solo per farne apparire altre, come le onde del mare che appaiono e scompaiono per cedere la loro energia ad altre onde, perpetuandosi in esse anche se la loro forma si è dissolta. Ogni forma di vita ha il suo posto, quindi, nell'agitato respirare del bios: ciò che cerchiamo di capire (forse invano) è il ruolo e il significato di quella particolare forma di vita che è rappresentata dalla nostra specie, che ha la caratteristica (forse unica) di "pensare se stessa", di essere cioè cosciente (fino a un certo punto) di essere, e anche delle interazioni con le altre forme che la vita assume su questo nostro piccolo pianeta.
Al di là dei motivi che possono avere fondato quella che a tutti sembra apparire una evidente circolarità dei processi simbiotici nel corso dell'evoluzione, ci interessa dibattere la progressione del sistema conoscitivo che potrebbe essersi originato partendo dagli organismi eucarioti per sfociare in individui pluricellulari.
Dopo aver ringraziato Prattico per queste sue righe così chiare ed esaudienti, cogliamo anche il suo ammonimento che è poi quello di tutti gli epistemologi, secondo cui i ragionamenti per analogia, nella cultura scientifica, sono pericolosi e possono nascondere trappole fuorvianti. Con le dovute cautele, quindi, ci accingiamo a continuare da soli seguendo una congettura che potrebbe nascondere risvolti inaspettati.
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