La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 2 - Come migliorarci
Paragrafo 2 - Esseri autopoietici di terzo ordine
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Maturana e Varela ci danno senz’altro un grande aiuto per soffermarci sul problema in modo consapevole e scientifico. Aggettivo quest’ultimo che piace tanto oggi e che sembra originare una fiducia senza confronti.
Nel loro libro L’albero della conoscenza, al fine di mettere in risalto il carattere circolare della conoscenza, mettono in campo l’ipotesi che gli esseri viventi pluricellulari possano avere attraversato nel loro sviluppo una serie di passaggi e dato origine a diversi sistemi autopoietici di grado diverso, ad iniziare dalle forme di vita più semplici come la cellula.
Così all’inizio del processo autopietico possiamo mettere la cellula eucariote, composta da un insieme di organuli, che potrebbero essere stati anticamente esseri viventi autonomi dotati di specifiche competenze. Secondo l’ipotesi già avanzata da Lynn Margulis gli organuli (mitocondri, cloroplasti, ecc) sarebbero stati originariamente dei batteri specializzati in differenti attività che in qualche modo si sono ritrovati uniti in un nuovo e più ampio sistema. Vari organismi procarioti sarebbero quindi arrivati a costituire un evento simbiotico e olistico come la cellula eucariote. Quest’ultima avrebbe poi dato origine ad un sistema di cellule accoppiate strutturalmente tra loro, arrivando a costituire un nuovo evento anch’esso simbiotico e olistico più complesso del primo, che possiamo quindi battezzare di secondo ordine, e che sarebbe l’attuale individuo pluricellulare.
Allo stesso modo, si può quindi pensare come fanno Maturana e Varela, spinti da una serie di motivazioni riconducibili al comportamento, che più esseri pluricellulari starebbero inoltre cercando di accoppiarsi strutturalmente tra loro, per dar vita ancora ad un nuovo più ampio sistema che dovremmo chiamare di terzo ordine o anche più semplicemente: società.
Secondo questa idea presa in considerazione da questi validi scienziati ci sarebbe un ricorso storico anche se ancora non ne conosciamo le motivazioni e le cause.
Anche se l’intento di Maturana e Varela non è stato quello di mostrare questa ricorsività come la molla che potrebbe spingere oggi gli esseri viventi superiori verso certe mete e sviluppi, ma quello di dimostrare, come loro stessi ammettono, che il fenomeno della conoscenza genera la domanda della conoscenza (pag 198), credo sia lecito utilizzare i loro studi e le loro intuizioni per capire come migliorarci e alla fine riuscire a vivere una vita più serena e gioiosa.
Comprendere in modo esaustivo come si genera la conoscenza e l’enorme potenziale che ancora può mettere in campo significa poter utilizzare la razionalità in maniera diversa, più corretta. Soprattutto è importante ripercorrere una strategia di sviluppo che con la sua circolarità, con la costruzione di unità autopietiche di grado sempre superiore, chi induce a renderci conto e a sostenere come fanno loro, che non si possono comprendere le basi biologiche della conoscenza solo mediante lo studio del sistema nervoso, ma occorre capire come questi processi sono radicati nell’essere vivente preso nella sua totalità.
Maturana e Varela danno, quindi, un contributo interessantissimo per riportare la nostra attenzione dai piccoli e circoscritti pezzettini di materia che sembra essere ogni essere vivente al sistema globale, ai legami che intercorrono necessariamente tra i vari enti.
Anche il sociologo E. Morin nel suo Metodo 2° - La vita della vita, ipotizza qualcosa di analogo a quanto proposto da Maturana e Varela. Egli pure sostiene che la vita sarebbe passata attraverso tre ordini di complessità e che sarebbe di grande aiuto riuscire a comprendere questa complessità, piuttosto che mirare ad eccessive semplificazioni che ci portano continuamente fuori strada.
Certo avere fino ad oggi cercato di spezzettare la materia per guardarvi dentro e renderci conto di cause sempre più interne è stato utilissimo per comprendere tante cose. Ma riuscire a ricostruire questa enorme frammentarietà secondo quello che potrebbe apparirci come un possibile disegno-progetto sarebbe altrettanto utile. Solo una ricostruzione adeguata e fedele di ciò che oggi nelle nostre menti si trova sparpagliato, potrebbe davvero farci comprendere il perché dell’egoismo e dell’altruismo. Di come metterli in relazione tra loro ed eventualmente modificare i concetti sull’uno come sull’altro.
Proprio a proposito proprio di questi temi Maturana e Varela, forti della loro visuale, sostengono:
“Lo studio degli accoppiamenti ontogenetici fra organismi, e la considerazione della loro grande universalità e varietà, ci indicano un aspetto tipico del fenomeno sociale. Si può dire che, quando l’antilope si attarda e rischia più degli altri, è il gruppo a trarne beneficio e non essa direttamente. Si può anche dire che, quando una formica operaia non si riproduce, e si occupa invece della ricerca del cibo per tutte le forme larvali del formicaio, è il gruppo, ancora una volta, a trarne beneficio e non essa direttamente. Tutto avviene come se ci fosse un equilibrio fra mantenimento e sopravvivenza dell'individuo e mantenimento e sopravvivenza del gruppo come unità più ampia che include l'individuo. Di fatto, nella deriva naturale si raggiunge un equilibrio fra il piano individuale e quello collettivo perché gli organismi, accoppiandosi strutturalmente in unità di ordine superiore (che hanno un loro dominio di esistenza), includono il mantenimento di queste unità nella dinamica del loro stesso mantenimento (172).”
Come dire che se dei mattoni formano una casa sarà poi questa a garantire che ogni mattone resti quella possibilità unitaria che era in origine.
Ecco il continuo della loro riflessione:
Gli etologi hanno chiamato «altruiste» quelle azioni che possono essere descritte come aventi effetti benefici per la collettività, e hanno utilizzato un termine che evoca una forma comportamentale umana carica di connotazioni etiche. Questo è forse accaduto perché per molto tempo, fin dal secolo scorso, era comune una visione della natura «con denti e artigli rossi di sangue», come disse un contemporaneo di Darwin. Spesso si sente dire che quello che Darwin propose ha a che vedere con la legge della giungla, per il fatto che ognuno persegue i propri interessi, egoisticamente, a scapito degli altri, in una competizione implacabile. Questa visione del mondo animale come di un mondo egoista è doppiamente falsa. In primo luogo perché la storia naturale ci dice che da qualunque lato noi la possiamo osservare, le cose non stanno così e che gli aspetti. comportamentali che possono essere descritti come altruisti sono pressoché universali. È falsa, in secondo luogo, perché i meccanismi che si possono postulare per comprendere la deriva animale non richiedono assolutamente questa visione individualista in cui il beneficio per un individuo comporta il danno per un altro; al contrario, questo sarebbe incompatibile con quei meccanismi.
E ancora:
Nel corso di questo libro abbiamo infatti visto che l'esistenza del vivente durante la deriva naturale, sia onto- che filogenetica, non si basa sulla competizione ma sulla conservazione dell'adattamento, in un'interazione fra individui e ambiente che porta alla sopravvivenza dell'organismo adatto. Dunque, come osservatori, noi possiamo cambiare il livello di riferimento nella nostra osservazione, e considerare anche l'unità di gruppo di cui gli individui fanno parte e per cui, nella sua dinamica in quanto unità, la conservazione dell'adattamento è per forza valida anche nel suo dominio di esistenza. Per il gruppo come unità, l'individualità dei componenti è irrilevante, e tutti essi in linea di principio sono sostituibili da altri che possano intraprendere le loro stesse relazioni. Per i componenti del gruppo, in quanto esseri viventi, l'individualità è invece la condizione di esistenza. È importante non confondere questi due livelli al fine della totale comprensione dei fenomeni sociali.
Il comportamento dell'antilope che si attarda (per fare da guardia al gruppo) è correlato con la conservazione del gruppo ed esprime caratteristiche proprie delle antilopi nel loro accoppiamento di gruppo, in quanto il gruppo esiste come unità. Nello stesso tempo, tuttavia, questo comportamento altruista nei confronti dell'unità di gruppo si realizza nell'individuo antilope come risultato del suo accoppiamento strutturale in un ambiente che comprende il gruppo, ed è espressione della conservazione del suo adattamento come individuo. Non c'è contraddizione nel comportamento dell'antilope in quanto essa si realizza nella sua individualità come membro del gruppo: è «altruisticamente» egoista ed «egoisticamente» altruista, perché la sua realizzazione individuale comprende la sua partecipazione al gruppo.
La conclusione del discorso li porta poi a dire che:
Tutte queste considerazioni sono valide anche nel dominio umano, sebbene vadano modificate in relazione con le caratteristiche del linguaggio, quale modalità di accoppiamento sociale umano.
A questo punto la loro visione che coincideva perfettamente con la nostra, compie una brusca sterzata e inizia a divergere. Perché?
Per il fatto che le considerazioni fatte precedentemente, scrutando sostanzialmente il mondo animale, crediamo che non continuino ad essere valide nel dominio umano.
E questo perché come appare chiaro anche a molti altri pensatori (ad esempio il già citato Ciaravolo) la realizzazione individuale umana non trova affatto la sua naturale conclusione nel gruppo.
Una vera e propria società, individuabile come nuova unità autopoietica di ordine superiore, nel contesto umano non si è mai formata. La società umana non si può assolutamente assimilare a nessun organismo. L’umanità è si una società ma di un tipo che definirei anomalo. Una società, come ammettono gli stessi Maturana e Varela, dove l’autonomia degli individui è massima rispetto a quella davvero minima degli individui negli organismi.
Si può, è vero, ragionevolmente sostenere che vi possono essere in natura società di vario tipo; ma devono comunque essere delle società: delle strutture unitarie con legami di una certa solidità che tengono insieme i singoli individui.
Nel caso umano questa regola sembra valere sono per quanto riguarda i legami costituiti dalla conoscenza emotiva, le emozioni, i sentimenti, mentre la razionalità questi legami, checché se ne dica, tende piuttosto a reciderli, per installarne al suo posto altri di tipo diverso che possono essere sciolti con relativa semplicità. Questo potrebbe voler dire che la razionalità, in quanto nuova modalità conoscitiva, si è bloccata sul vecchio aspetto autopoietico di secondo ordine e non ha preso seriamente in considerazione la possibilità di farci trascendere, sintetizzare collettivamente, in una nuova unità.
Insomma la razionalità avrebbe cercato di perseguire un compromesso tra la vecchia unità individuale e la nuova che avrebbe dovuto essere la società. Un compromesso che però non giova né alla soggettività, né alla socialità, perché ci fa rimanere in una sorta di limbo dove si alimentano notevolmente le contraddizioni.
Proponendo la scala qui di seguito riportata,
dove a metà gli organismi e le società umane vengono collocati gli insetti sociali o rigide forme sociali come è avvenuto un tempo per Sparta, si tende a mostrare che l’evoluzione naturale ottimale è proprio quella che si abbiamo avuto. Un’evoluzione dove per l’appunto gli individui godono di una grande autonomia individuale e dove è possibile far sussistere un fenomeno sociale purché si ami e si accetti l’altro.
Esposta in questi termini la faccenda si presta però alle più svariate interpretazioni. Il modo d’amare e l’accettazione dell’altro finiscono per dipendere dall’obiettivo che si intende conseguire. Il problema andrebbe piuttosto ribaltato: io subordino il tipo d’amore e l’accettazione dell’altro in base all’obiettivo che intendo raggiungere. E l’obiettivo ottimale non può che essere una nuova struttura unitaria che sia veramente tale, che consenta all’individuo di trascendersi in una possibilità superiore.
L’uomo deve tirare in ballo la propria razionalità non solo, come ha sempre fatto, per
strutturarsi al meglio come soggettività, ma soprattutto per capire come pervenire ad una socialità che non sia solo di facciata, ma sostanziale, profonda, esauriente.
E per poterla chiamare in ballo nella maniera corretta occorre che la mente confezioni un’ipotesi, una possibilità alternativa a quella che ci forniscono i sensi. In questo modo si possono cogliere le azioni giuste per traslarci da una condizione interiore all’altra. Non conviene utilizzare la razionalità per farle seguire come un cane da caccia il percorso dell’emotività in maniera da imitarlo. Il come sé della razionalità riferito all’emotività è molto pericolo. Può portarci in situazioni davvero raccapriccianti dalle quale si rischia continuamente di non essere più capaci di uscire.
Se si finisce per credere, come abbiamo visto nel primo capitolo, che l’altruismo è solo una forma differenziata di egoismo, si finisce per avere come obiettivo consapevole una chiusura completa dell’individuo collassato su propri interessi soggettivi.
Maturana e Varela ci dicono chiaramente invece che non può essere questa la via giusta per un essere vivente. Ma poi non specificano sufficientemente il vero obiettivo, che una mente razionale non può tralasciare per potersi muovere con discrezionalità. Una società i cui membri non hanno come finalità un prodotto nuovo compiuto capace di trascendere l’individuo, sono costretti a riconoscere come propria finalità il prodotto vecchio: l’unità autopoietica di secondo ordine.
E’ per questo motivo che un’analisi seria delle società umane non può assolutamente parlare di realizzazione di un sistema di grado superiore all’individuo. Un insieme posticcio, come si presenta di solito la comunità umana, appena coeso da una conoscenza emotiva che però viene costantemente messa in discussione dall’operato della razionalità che non “capisce” dove si vuole andare a parare, è quanto di peggio potessimo realizzare.
Maturana e Varela, in fondo pensano, che l’uomo abbia trovato la soluzione ottimale nell’attuale democrazia capace di restituire all’individuo un valore assoluto pur permettendogli una convivenza pacifica. Così le società umane come Sparta e, si potrebbe aggiungere, come la Russia o la Cina del periodo comunista, vengono a rappresentare degenerazioni del modello societario a cui l’umanità dovrebbe idealmente tendere.
E indubbiamente lo sono! Ma non perché hanno cercato di realizzare una comunità a minima autonomia individuale, bensì perché c’è stata una forzatura legislativa da parte del potere politico sulle coscienze individuali per imporre loro una condizione che non poteva sussistere. Una condizione che ognuno avrebbe dovuto realizzare di pari passo alla realizzazione di una struttura sociale sempre più coesa, sempre più intrecciata da legami sentimentali. Il cosiddetto “centralismo democratico” ha preteso di mettere dei paletti alle coscienze nella convinzione che questi paletti avrebbero “abituato” l’uomo al comportamento sociale. Una convinzione completamente errata. L’unico paletto, se così vogliamo chiamarlo, che può fare tanto è solo la visione razionale desiderabile di una comunità i cui membri siano in grado di vivere in perfetta armonia tra loro. Un’armonia non può venire dettata da nessuno, ma solo, come sostengono giustamente anche Maturana e Varela, da un apprendistato sociale capace di modificare le coscienze e di spostare, diciamo noi, l’asse interno sulla condizione comunitaria piuttosto che su quella soggettiva. Deve esserci una trasformazione delle condizioni interne! Altrimenti non potrà mai esserci una trasformazione delle condizioni esterne.
Oltretutto l’idea di creare una comunità dove gli interessi individuali fossero subordinati a quelli collettivi, ha dovuto fare i conti con il fatto che gli interessi collettivi sono comunque rimasti interessi collettivi di una parte: di quelle parti privilegiate perché detentori del potere politico. Si è fatto, come ha sempre sostenuto Fromm, un restyling della facciata, ma quello che c’era sotto è rimasto sostanzialmente immutato. Così chiaramente quello che si è cercato di realizzare in questi paesi non è stato assolutamente un comunismo. O quantomeno non quell’idea di comunismo che stava nella testa dei teorici.
Chiacchierando con dei musicisti ho sentito dire che dopo avere imparato a suonare uno strumento si avverte il bisogno di suonare in un’orchestra, in una banda cittadina, dove non si richiede certo al singolo musicista di sminuire le proprie capacità per mettersi al passo degli altri e coesistere con loro. L’orchestra è una fusione completa e totale di orchestrali che si mettono a disposizione di un progetto musicale da realizzare nel quale non annullano certo la propria soggettività ma la superano. Così dovrebbe essere pure per la società. Individui pluricellulari che mettono al servizio di un progetto comune le proprie qualità fino a che queste si fondono in un nuovo organismo capace di portare alla ribalta possibilità che nessuno di loro preso singolarmente può attuare.
Dire che gli individui in una società in cui essi abbiano minore autonomia vedano annullata la propria creatività e come sostenere che i componenti di una banda Jazz non sono più capaci di suonare con la maestria di prima solo perché non suonano più separatamente. Casomai è vero esattamente il contrario.
Purtroppo, da quando nell’uomo la razionalità ha iniziato ad interferire in modo pesante con l’emotività non possiamo più parlare di mantenimento dell’equilibrio tra sopravvivenza del singolo e sopravvivenza del gruppo. Lo sviluppo del gruppo si è come arrestato, e siamo sostanzialmente rimasti a quello che era stato realizzato in passato dall’emotività, con la socialità che ha cominciato ad essere utilizzata dalla razionalità per renderla il più possibile funzionale all’individuo: in modo da poterla usare come strumento per accrescerne progressivamente la soggettività.
Un equilibrio interno, dunque, che ha cominciato a rompersi già da molto tempo, ma che non mostra i segni del decadimento, poiché l’uomo è riuscito a puntellarlo con un nuovo tipo di trofallassi sociale: il linguaggio.
Con il linguaggio si riesce a mentire agli altri è, soprattutto, a se stessi. E si può in questo modo costruire una socialità sostanzialmente ambigua in grado di darci l’illusione della massima libertà anche quando si è chiusi ermeticamente nella gabbia della massima soggettività. Il linguaggio, manco a dirlo, non deve però essere venuto fuori per questa finalità. Esso avrebbe dovuto casomai rappresentare una possibilità, un legame speciale per cucire ancora più saldamente insieme gli individui, per farli convergere su un’idea comune. Invece è stato usato per confondere ed ingannare le istanze della conoscenza emotiva, allo scopo di poterci chiudere maggiormente e incondizionatamente nella illusoria sicurezza di una soggettività, che è stata interpretata un tutt’uno con l’individualità.
Nella condizione in cui ci troviamo dovremmo avere chiaro che ciò che siamo diventati non è assolutamente conforme a ciò che avremmo dovuto essere. Al punto in cui ci troviamo non siamo più degli esseri viventi completamente sani, che hanno davanti due obiettivi complementari da perseguire. Siamo un dipolo, sponsorizzato prevalentemente, per quanto riguarda la soggettività, dalla conoscenza razionale e, per opposizione, dall’emotività, per quanto concerne la socialità. Siamo un dipolo destinato ad allungarsi sempre di più, quasi a disintegrarsi, a spezzarsi, sotto una tensione interna sempre più esagerata.
L’unica possibilità che abbiamo a questo punto per migliorarci, per evitare di cadere sotto la mannaia della schizofrenia è solamente quella di capire come potrebbe essere strutturata una umanità autentica; come si potrebbero compattare gli individui per superare completamente il retaggio di esseri stati un tempo puri esseri autopoietici di secondo ordine.
Il fatto di continuare ad essere delle entità singole nello spazio tridimensionale non preclude la possibilità di legarci insieme in una dimensione più ampia. In fondo anche se legate insieme le singole cellule di un organismo continuano ad essere delle entità nettamente separate dalle altre. Ciò che le unisce, il minimo comune denominatore è quel DNA che ogni cellula custodisce gelosamente nel proprio nucleo e che costituisce il progetto comune a cui ognuna deve far riferimento. Se anche in ogni mente si riuscisse ad instaurare un’idea, un progetto da perseguire collettivamente, potremmo noi diventare le nuove cellule di un tessuto sociale che oggi non esiste o quantomeno non esiste per perseguire una comune finalità. Un progetto che può essere realizzato solo se si dà il via ad un dialogo incessante tra i membri di una comunità per capire cosa deve essere realizzato. Su questa idea ognuno può poi calibrare la propria individualità basandosi sulla migliore complementarietà tra aspetto soggettivo e aspetto sociale. In realtà il problema della socialità può essere fatto diventare un problema tutto interno all’individualità solo per quanto riguarda la predisposizione all’interazione con gli altri componenti della comunità.
L’idea di un progetto comune potrebbe col tempo diventare anche una questione di DNA poiché una migliore disponibilità naturale a formare un tessuto sociale darebbe il via ad una “selezione” naturale in cui gli elementi più idonei fin dalla nascita alla costruzione del sociale avrebbero sicuramente migliori possibilità di sopravvivenza.
Per molti però l’idea di trasformarci in perfetti esseri sociali appare non solo irrealizzabile, utopistica, ma anche sconveniente, apportatrice di un asservimento dell’individuo alla società. E’ comprensibile. E lo è tanto più quanto purtroppo l’idea di società è venuta a coincidere con l’idea di Stato, di poteri forti, di sottomissione alla volontà di quei pochi che da sempre rappresentano, in un modo o nell’altro, un Gotha politico.
Quindi, anche se si riuscisse a pensare ad un miglioramento delle condizioni individuali andando ad incidere profondamente su un aumento della socialità, invece che su un aumento della soggettività, apparirebbe immediatamente l’esperienza passata che ci ammonisce dicendoci che coloro che intraprendono questa strada sono purtroppo destinati ad essere utilizzati, strumentalizzati, per le esigenze di quelli che continuano a puntare su un aumento di soggettività, sull’egoismo.
E’ evidente, quindi, che è estremamente difficile intraprendere la strada del cambiamento, del rinnovamento, agendo in solitudine. Occorre un piano, una strategia precisa, se si vuole davvero inoculare in se stessi e nella società il seme di un mutamento radicale.
La convinzione che una società frutto di un’unione spontanea di individui sia non solo possibile ma la strada giusta per vivere una vita gioiosa e felice deve, come è logico, trovarsi al primo posto.
E a dirci che una società in cui gli individui possono vivere armonizzandosi tra loro, rifiutando la violenza, sia possibile e auspicabile, non è solo l’intuito, il desiderio di pervenire a certe condizioni, ma anche le numerose testimonianza di studiosi che ci hanno riferito su popolazioni primitive che, sia pure in piccoli gruppi, sono riusciti a tenere sotto controllo l’egoismo e ad utilizzare la soggettività nel modo migliore possibile: per intrecciare un autentico tessuto sociale.
Guardando a molte di queste esperienze in siti dove appena qualche secolo fa l’uomo viveva ancora in modo perfettamente ecologico, inserito a meraviglia nell’ambiente naturale, possiamo ritrovare la certezza che ancora tutto non è perduto.
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Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.
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