Il servo dell'arbitrio libero
di Riccardo Piazza - indice articoli
L'etica della prossimità perduta
Novembre 2021
Recentemente ho avuto l’onore di partecipare ad un ciclo di incontri sulla riflessione filosofica tenuti dal prof. Giacomo Bonagiuso. Un frangente in particolare è stato dedicato alla definizione del desiderio metafisico ed alla trascendenza.
Il professor Emilio Baccarini, lieto relatore della giornata, ha quindi esplicitato meglio l’etica della prossimità e l’ermeneutica del soggetto, in rapporto all’anelito dell’infinito, secondo le prospettive di Jean Nabert, sino ad allora a me sconosciuto, e di Emmanuel Lévinas, a me decisamente più noto.
Mentre ascoltavo gli altri partecipanti e le questioni che si susseguivano prendevo alcuni appunti su un foglio protocollo di carta A4: l’ossatura di quello che state ora leggendo.
Il movimento di significato che dal soggetto finito porta necessariamente alla tensione verso l’infinito è complesso da articolare in breve e non è il centro di questo articolo.
Tuttavia, la direzione intrapresa dalla coscienza individuale, la relazione dell’io con il mondo, è il propulsore che mi permette di tracciare un breve seminato in ordine all’idea della scelta e della libertà, o meglio, liberalità, del bene.
Assistiamo continuamente, complice l’attualità di più stretta pregnanza sanitaria, a facilonerie e dissacranti speculazioni sui concetti di “Bene”, “Libertà” e “Rapporto con il prossimo”.
Secondo Nabert, se non lo conoscete vi invito ad erudirvene di più, magari ci ritroveremo insieme come apprendenti, la dialettica tra il finito e l’infinito si risolve soltanto grazie alla, e nella, torsione direzionale verso il secondo e non verso il primo.
In altre parole, ci costituiamo soggetti apprendenti nonché parlanti ascoltatori soltanto in base a ciò da cui ci differenziamo e da cui proveniamo: l’infinito. Lévinas accentua il riconoscimento del singolo nel volto dell’alterità.
Se questo è vero, è allora necessario, a partire dalla fecondità teoretica di quanto appena riportato, supporre una etica della prossimità che ci “costringa” a riconoscere il nostro essere per l’altro, soltanto nell’altro.
Una euristica che tenda quindi a raccogliere il bene supremo nei frammenti del puzzle della realtà che ogni giorno affrontiamo, e che va al di là del nostro semplice orticello di scelte, dolori, pensieri, scopi, evoluzioni.
Le nostre decisioni dipenderanno sempre dal desiderio di raggiungere uno scopo primario, ma prima di compierle dovremmo cercare di attuare uno sforzo ulteriore per guardarle su un orizzonte più ampio, quasi come se le stessimo visualizzando dall’alto, noi fuori da noi: una sorta di drone (ne ho una paura matta) del desiderio metafisico.
Questo darebbe origine, probabilmente, ad una società dell’uso consapevole dell’intenzione e della determinazione condivisa: un tutto, che è più della somma delle sue singole parti.
Sin qui ho carteggiato due prospettive del trascendentale, chiudo con il mio eretico preferito, Meister Eckhart: «Soltanto nel distacco da noi, potremo realmente ritornare a Dio, cioè a noi stessi in lui.»(1)
Riccardo Piazza
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NOTA
1) Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano, 10ª ediz, 1985.
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