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La Sfinge e Dintorni di Ignazio Licata

La Sfinge e Dintorni

di Ignazio Licata   indice articoli

 

Demarcazione tra scienza e non-scienza. Come delimitare il pensiero scientifico?

Dicembre 2012

 

Questa è una bella domanda perché va al cuore di una dicotomia antica che è ormai entrata nel pensiero collettivo, producendo più danni che comprensione. Proviamo a rispondere in modo esauriente, senza sminuire la complessità della questione, poiché in questa domanda c’è tutta la filosofia della scienza. Cominciamo con il vedere cosa non va nella formulazione “dicotomica”. Suggerisce che esistano temi e metodi “di per sé” scientifici, mentre la pratica della scienza è molto più complessa. Ogni disciplina si inventa un metodo, un sistema concettuale, metodologie ed approcci per indagare dei problemi. Questi problemi non sono quasi mai ben definiti quando si comincia. La scienza è un’impresa collettiva e storica, che si sviluppa per integrazioni e stratificazioni successive. Non ci si trova mai davanti a dei “dati” ben precisi all’inizio, quella è già una fase avanzata. I dati vengono fuori quando interroghiamo le regolarità del mondo inventandoci linguaggi e strumenti. C’è un  fraintendimento a proposito dell’induzione, a volte sembra che i dati suggeriscano le teorie, e queste rispecchiano forme del mondo che sono “già lì”, scritte nel tessuto profondo del mondo. E il “metodo” è qualcosa di simile ad uno strumento astorico ed affilato che affonda in questo tessuto, ed estrae. L’immagine è piuttosto cruda, e credo che l’idea della scienza “bisturi” abbia contribuito ad una certa percezione dell’attività di ricerca come oggettivamente “fredda” e decontestualizzata. La scienza è artigianato, gli scienziati costruiscono strumenti finalizzati ad un’ intenzione di conoscenza. Per far questo si osserva (partendo da ciò che abbiamo alle spalle, una tradizione di conoscenze, teorie più o meno consolidate, modelli,  paradigmi, idee generali, e non di rado anche mode e tendenze), e ci si concentra su alcune regolarità. Ci inventiamo grandezze che definiamo operativamente, tramite pratiche di laboratorio, che ci permettono di descrivere in modo preciso queste regolarità e di indagarle sperimentalmente. In genere in questa fase si ha già un’idea di come le cose possono essere correlate tra di loro, comincia a prendere forma un modello, ossia un quadro formale o semi formale delle relazioni tra queste grandezze. Il modello ci permette di esplorare le nostre congetture, provare a fare previsioni. Già in questa fase capiamo che i dati sono “muti” se non interrogati da un modello. Anzi, spesso prendono forma e  ci “parlano” solo quando interroghiamo un pezzo del mondo (un sistema) con un preciso quadro concettuale. Un altro punto importante e non banale è il collegamento tra il modello “neonato” ed il corpus di teorie storiche accreditate. L’intera Meccanica Quantistica nasce dalle difficoltà di trovare un modello adeguato per descrivere in termini classici il comportamento radiazione-materia, il famoso problema del “corpo nero”. E non fu subito chiaro a tutti, forse neppure allo stesso Planck, che da questo problema, e dalla soluzione euristica dei “pacchetti d’energia”, i quanti appunto, sarebbe venuta fuori una nuova, straordinaria fisica, assai diversa da quella newtoniana-maxwelliana. Del resto, proprio lo sviluppo della meccanica quantistica ha mostrato come le grandezze scelte per descrivere un certo livello d’esperienza spesso devono essere modificate più o meno drasticamente quanto si passa ad un altro. Posizione, velocità e traiettoria, che sembrano scelte così naturali quando si parla di particelle newtoniane, non funzionano allo stesso modo quando si descrive un sistema quantistico, dove entrano in gioco funzione d’onda e non –località. Anche la termodinamica e la fisica statistica sono un esempio classico di come bisogna inventarsi nuove grandezze per descrivere il “more is different”: pressione, temperatura ed entropia descrivono grossi ensemble di particelle, ma non hanno alcun senso per una singola particella. Infine, una precisazione va fatta anche sulla questione della “predicibilità”. Sono molto poche le cose che possiamo predire con precisione in natura. L’obiettivo della scienza non è solo quello di prevedere, ma soprattutto di comprendere. Ci sono teorie scientifiche validissime il cui obiettivo non è quello di dare garanzie di predicibilità impossibili, ma di ampliare il nostro scenario di comprensione dei fenomeni. Un magnifico esempio è la teoria dell’evoluzione, che non è certo meno preziosa perché non ci fornisce una previsione sulle forme viventi possibili.

 

Abbiamo adesso tutti gli ingredienti per provare a rispondere alla domanda. Non esistono argomenti di per sé scientifici. Scienza galileiana vuol dire decidere cosa osservare e definire procedure operative su come farlo. Galilei distingueva tra “qualità primarie” (che possono essere misurate con precisione oggettiva, ovvero inter-soggettiva), come lunghezze, tempi, etc., e “qualità secondarie”, che dipendono invece dallo specifico osservatore. Ai tempi di Galilei erano i colori, gli odori, i sapori, e così via. Oggi non è più così, disponiamo ad esempio macchine che ci permettono di indagare con grande precisione su differenze infinitesimali nella gradazione dei colori. Resta però l’idea generale che la scienza sia più efficace laddove possiamo fare enunciati generali su classi di eventi (le leggi) attraverso qualità osservabili suscettibili di trattazione formale. Il modello perfetto di questo tipo di scienza è la fisica, ma non bisogna concludere in modo affrettato che la scientificità di una scienza sia la misura della sua stretta parentela con la fisica! Anzi, il fisicalismo come ideale di scientificità ha spesso limitato le potenzialità e la saggezza della biologia, della psicologia e dell’economia, per fare tre esempi storici di scienze che storicamente si sono confrontate spesso con la fisica. Possiamo dire che man mano che trattiamo eventi singolari e contingenze, salendo nella scala della complessità, la scienza diventa meno efficace. I sistemi complessi sono proprio sistemi dove le condizioni al contorno (il qui ed ora, e come) sono di importanza pari, se non superiore, alle leggi. Sono casi in cui l’enunciato generale dice poco, l’equazione a volte è impossibile, ed è necessario utilizzare altri approcci metodologici, più mirati a cogliere le caratteristiche di un processo che una struttura logica generale ed astorica. La biologia utilizza molti modelli formali, soprattutto in biologia molecolare, ma le caratteristiche dell’evoluzione non sono “zippabili” in un’equazione. La storia evolutiva è una storia di contingenze irreversibili, come l’emergenza di quello specifico ponte tra invertebrati e vertebra fissato dalla pikaia gracilens il protocordato precursore dei cordati, il phylum tassonomico che include i vertebrati. Le storie complesse sono del tipo “è andata così”, implicano cioè una comprensione storica del sistema, oltre che quella strutturale, che spesso è così poco definita da non permettere l’enunciazione di leggi ma piuttosto soltanto di strategie generali d’approccio. In questo senso la complessità è “semplice”, perché i sistemi complessi hanno molte caratteristiche generali comuni, indipendenti dal tipo di costituenti, e permettono metodologie d’approccio che non si concretano nella costruzione di una specifica equazione. In questi casi il modello è piuttosto un insieme di prescrizioni su cosa osservare e come. E più il sistema è complesso, più aumentano i modelli possibili, perché il sistema cambia in continuazione, è soggetto ad emergenze ed offre una pluralità di comportamenti osservabili. Ad esempio sono possibili molti modelli di sistemi come un gruppo di agenti sociali ed economici che prendono decisioni, il volo di uno stormo di uccelli, i processi di categorizzazione e apprendimento, il folding di una proteina, ognuno mirato ad illuminare un aspetto del processo. Il termine “illuminare” è molto appropriato, perché per contrasto rende bene l’idea che un approccio ed un modello possono farci acquistare informazione su alcuni aspetti del processo e farne restare altri al buio, per i quali saranno necessari altri modelli complementari. Non è un caso se questa situazione ricorda un po’ il principio di indeterminazione di Heisenberg sulle osservabili complementari della fisica quantistica (“se misuro la posizione avrò una forte indeterminazione sulla velocità e viceversa”), ed in effetti il cibernetici sovietici avevano dimostrato quest’analogia. Si potrebbe pensare che mettendo assieme un certo numero di modelli potremmo coprire esaustivamente tutti i comportamenti del sistema, ma così non è. Non dimentichiamoci che un processo è fatto di emergenze, legate a specifiche condizioni al contorno, fluttuazioni, una lunga serie di “contingenze”. Forse la chiarezza cristallina della fisica newtoniana ci ha fatto dimenticare che un osservatore non è qualcosa di astratto e lontano, dalle parti dell’occhio di Dio, ma è un agente umano, immerso nel mondo, con specifici strumenti e problemi e tensioni storicamente condivise con il resto della comunità. Uno scienziato è un uomo che fa delle scelte e costruisce approcci. I modelli sono mappe, ma non va mai fatto l’errore di confondere mappa e territorio. Il legame è più raffinato. Le mappe storiche della conoscenza definiscono il territorio da osservare e questo a sua volta, facendo resistenza alle “mappe”, produce nuova conoscenza. Forse è proprio questo resistenza del mondo ai modelli sbagliati o infecondi la forza peculiare e propulsiva della scienza. Quando ad un enunciato non corrisponde nulla di definibile attraverso procedure operative sperimentali, direi che non stiamo facendo scienza ma altro. Anche qui, è necessaria un’altra precisazione. C’è un grosso dibattito, in larga misura dovuto ad ingenuità epistemologiche, sulla coscienza. E’ un argomento scientifico o no? Questo è un tema in cui è davvero decisiva la distinzione tra leggi e contingenze, tra enunciati generali e logiche evolutive e fatti specifici. Sicuramente è possibile costruire una teoria della coscienza, ce ne sono parecchie in giro, di tipo neuronale (G. Edelmann), evolutivo (N. Humphreys), quantistico (W. Freeman - G. Vitiello), e sono anche piuttosto feconde. E’ chiaro che sono teorie, come avrebbe detto F. Varela, “in terza persona”, ossia non parlano di una specifica coscienza, ma del ruolo della coscienza nella storia biologica  cognitiva delle specie. Una teoria può dire che significato hanno i qualia, gli stati di soggettività radicale (ad esempio, rendono le nostre risposte al mondo non algoritmiche ed estremamente diversificate ed imprevedibili, persino per noi!), ma una teoria di questo tipo non dice nulla sulla coscienza fenomenologica “in prima persona”. Quella, più che inespugnabile, è indifferente alla scienza, perché è il nostro essere qui, ora e così. E nel momento in cui lo enunciamo linguisticamente siamo già altro, con la memoria di quell’istante. Gli enunciati generali tanto cari al fisico, devono  lasciare il posto alla capacità di ascolto dello psicologo, mirata al soggetto. Il biologo, lo psicologo, l’economista ed il sociologo non sono nelle loro pratiche meno scientifici del fisico, lo sono in modo diverso perché diversi sono i processi studiati, ed i motivi per cui li studiamo. La medicina è basata sulla biologia, ma i medici sanno benissimo che il malato non è mai soltanto “nient’altro” che la sua malattia, ma quella malattia in quell’organismo, e quella storia. Come abbiamo visto, accade in fisica la coesistenza di livelli di descrizione diversi - termodinamica e fisica statistica - ,ed  aumenta con la complessità dei processi studiati, per cui sono sempre più importanti l’obiettivo per cui il modello è stato costruito  e  le sue interpretazioni. Sotto questo punto di vista teorie e modelli della fisica sono privilegiati perché “convergenti”. In altre parole, la definizione di grandezze che si conservano sempre, come l’energia, rende i modelli fisici più facilmente confrontabili ed armonizzabili tra loro. Quando descrivo una popolazione di agenti cognitivi è evidente che non si possono avere indicazione prescrittive così comode sui modelli possibili, ed è dunque possibile che si verifichi un profondo contrasto sul modo di trattare i dati e farli rientrare in un modello. Il duello intellettuale è una grande molla di confronto e miglioramento, non dimentichiamoci che anche in fisica, dove tutto sembra sempre più chiaro, ci sono forti discussioni tra sostenitori di teorie “fondamentali” come loops, stringhe ed altre forme di gravità quantistica.

 

Direi, avvicinandoci alla conclusione, che quando siamo lontani da procedure osservative condivise e dalla possibilità di costruire modelli confrontabili con quella che abbiamo definito la resistenza del mondo, abbiamo bisogno di altri giochi culturali e non della scienza. Inevitabile fare un riferimento all’idea di Dio. Può esserci un fisico teorico come Frank Tipler (tra l’altro solitamente molto bravo, ve l’assicuro) che ha costruito una sua “teologia scientifica” basata su uno scenario teorico di cosmologia quantistica, ma naturalmente la sua identificazione della singolarità finale in cui collasserà e si conserverà tutta l’informazione finale dell’universo con Dio (e della funzione d’onda d’universo con lo Spirito Santo), è assolutamente arbitraria, dunque non direi che ha fatto della teologia una scienza, piuttosto ha mischiato due linguaggi diversi, credo mortificandoli entrambi. E’ bene che di Dio continuino a parlare i mistici ed i teologi, che hanno un loro “rigore” – come i letterati e gli artisti -, che è altro rispetto a quello scientifico. La conclusione è che “scienza” non è parola monolitica ed univoca, indica una pluralità di linguaggi, un’ecologia di strategie cognitive in cui è centrale la ricerca, tramite la scelta delle osservabili e la costruzione di modelli, di forme di attrito con il mondo.

 

     Ignazio Licata

 

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