Filosofia della Medicina
di Federico E. Perozziello
Il dolore come dimensione personale e sociale
Giugno 2011
pagina 1/2
- pagina successiva
“… Dunque, limitiamoci ad occuparci del dolore. Concedo loro e volentieri, che sia il peggior accidente della nostra esistenza; di fatto io sono un uomo che lo odia quant’altri mai e quant’altri mai lo fugge, per non aver avuto finora, grazie a Dio, grandi rapporti con esso.
Ma sta in noi, se non annullarlo, per lo meno diminuirlo con la pazienza e, quand’anche il corpo ne fosse scosso, mantenere l’anima e la ragione ben salde …”
Michel de Montaigne, Saggi, I, 14 (1)
La corporeità di San Sebastiano è da sempre, nella Storia dell’Arte, una delle maggiori dimostrazioni di capacità di illustrare l’anatomia e la fisicità del corpo. La figura di San Sebastiano costituisce un’icona della rappresentazione del corpo che attraversa il tempo e le culture europee, unendo in modo indissolubile, nell’immaginario collettivo, la materia al dolore. Nel personaggio di San Sebastiano corpo e dolore sembrano essere legati da un vincolo ineludibile, in una forma di evoluzione, ma sarebbe meglio dire di diversificazione, che si trasferisce da Antonello da Messina ad Andrea Mantenga e oltre.
Rappresentare il dolore permette infatti delle visioni didascaliche e agiografiche che possono essere proposte come modelli positivi, nonostante alcune possibili ambiguità interpretative, come nella rappresentazione del santo operata da El Greco, in cui il dolore del corpo sfuma nella sensualità dell’immagine. Sempre naturalmente che il dolore non entri nella vita umana in modo assolutamente ingovernabile, inspiegabile e soprattutto improvviso.
Il 21 aprile del 2010, durante una gita scolastica, morirono sull’isola di Ventotene due giovani studentesse romane. Avevano entrambe quattordici anni. Era un vuoto incolmabile quello lasciato da Sara e Francesca, che non si sono più sedute, come facevano tutti i giorni, nei loro banchi della III E della scuola media "Anna Magnani" a Morena, nella periferia Sud di Roma. Genitori, parenti, amici e insegnati hanno dato il loro addio alle due ragazzine morte nel crollo di una parete rocciosa a Ventotene, un isola dell'arcipelago pontino. I funerali sono stati celebrati nella chiesa di Sant'Anna, nel quartiere romano dove vivevano le due studentesse e dove le famiglie hanno voluto che fossero tenuti in forma privata, lontano da qualsiasi autorità. Nella chiesa gremita erano presenti solo i famigliari e gli amici. Così si era espressa la volontà delle due famiglie di origine e tale è stata rispettata.
Le due ragazzine innocenti, nel fiore degli anni della loro giovane vita, prendevano il sole durante una gita scolastica. Improvvisamente, un costone di roccia tufacea crollò su di loro e le uccise. Perché avvengono questi fatti? Il sindaco dell'isola affermò davanti ai media: «La zona non era a rischio».
Il preside dell'istituto ha dichiarato a sua volta, subito dopo la disgrazia: «I compagni hanno chiesto di tornare a scuola, hanno bisogno di parlare».
Anche in questo, come in innumerevoli altri casi, il dolore e la sofferenza entrano nella vita delle persone in un modo che non può essere spiegabile soltanto attraverso le categorie della ragione e della comprensione umana. Per i superstiti, per chi almeno per questa volta non è stato toccato dalla disgrazia, si apre un momento di riflessione complesso e una presa di coscienza difficile dei propri limiti e del proprio ruolo.
Scrisse ancora l’Agenzia giornalistica ANSA il 21 aprile 2010:
“… Un gruppo di amici di Sara e Francesca, le due studentesse vittime del crollo avvenuto sulla spiaggia dell'isola di Ventotene, ha sfilato in un corteo silenzioso nel quartiere Morena, alla periferia sud di Roma, recandosi alle abitazioni delle due giovani. I ragazzi avevano tra le mani dei fiori. Nella scuola “Anna Magnani” e' stato osservato un minuto di silenzio per ricordarle …”.
In uno dei biglietti commemorativi appesi a un albero, nei pressi dell’edificio scolastico, una delle loro compagne ha lasciato scritte delle parole significative che raccontano di stupore e sgomento davanti all’ingiustizia e all’assurdità di queste morti: «Io sento che è anche colpa mia».
La scomparsa simultanea e imperscrutabile di vite innocenti provoca un trauma nella coscienza individuale e in quella collettiva. Sprofonda l’Io dell’osservatore in una condizione di incredulità e di dolore compassionevole. Possiamo partire da un dato di fatto indubitabile, almeno in apparenza: il dolore esiste in tutte le società come parte integrante della condizione umana. Costituisce un fenomeno non separabile dalla vita di ogni giorno e dall’esperienza di ogni persona. E’ il sintomo più comune incontrato nella pratica della medicina, oltre a essere una caratteristica di molti cambiamenti fisiologici, quali la gravidanza, il parto, le mestruazioni e via elencando.
Come è tristemente noto, il dolore accompagna molte malattie, traumi e perfino terapie. Occorre rammentare come il dolore sia un fenomeno di tipo multidimensionale. Possiede una dimensione fisiologica e sensitiva, legata alle strutture materiali del corpo e alla capacità di percepire i cambiamenti del proprio stato, cui si accompagna una dimensione emotiva e affettiva. Sono presenti inoltre una dimensione cognitiva e una dimensione culturale del dolore e infine una dimensione comportamentale.
Ogni essere umano interagisce con le sensazioni dolorose attraverso le categorie che abbiamo appena descritto. Tuttavia, mentre intorno alla dimensione psicologica e culturale del fenomeno le interpretazioni possono trovare più di una spiegazione accettabile, la medicina tende a ridurre l’esperienza del dolore a un sistema di segnali elaborato dagli organi di senso, piuttosto che considerarlo un fenomeno sentito e modellato dall’individuo e dal particolare contesto culturale in cui egli si è trovato a vivere. Uno dei contributi più rilevanti della ricerca antropologica in ambito sanitario è stato quello di mostrare come concetti quali quelli di corpo, sintomo, malattia e dolore da essa generato posseggano valenze culturali molteplici.
Se vogliamo ad esempio comprendere il punto di vista delle diverse culture sulla gravidanza e il parto, con il loro corredo di dolore legato alla nascita, dovremo considerare questi momenti dell’esistenza come fattori che coinvolgono le interazioni tra gli individui all’interno di precisi sistemi di norme e di regole comportamentali. Avvenimenti sociali dei quali gli esseri umani hanno elaborato concezioni differenti, che rinviano a multiformi idee sul corpo e sulla stessa natura umana.
In alcune regioni del Nord Africa, come il Marocco, le donne tendono a rimanere a letto dopo il parto molto più a lungo rispetto alle donne italiane ed europee. Tale comportamento viene mantenuto anche fuori dalla propria nazione di origine. Secondo questa cultura, altre donne aiutano la puerpera ad alimentarsi e ad occuparsi del bambino per almeno quaranta giorni dopo il parto. Un periodo in cui la donna che ha partorito tende a stare a letto ed a farsi aiutare in ogni incombenza. La neo mamma viene alimentata attraverso una dieta speciale, ad alto contenuto calorico, composta da ingredienti tramandati nel tempo, con un’attenzione particolare ai quantitativi del cibo e al modo con cui questo viene preparato, in una forma che tende ad apparire come un rito.
Il periodo di quaranta giorni di assoluto riposo e recupero che segue al parto è infatti una pratica sociale e assistenziale riscontrabile in diverse aree del Medio Oriente e del Nord Africa. In queste regioni si ritiene che la puerpera abbia bisogno di calore, essendo, secondo una credenza diffusa, divenuta più vulnerabile al freddo. Per questa ragione, non appena ha dato alla luce un figlio, la donna viene protetta con delle coperte, evitando qualsiasi esposizione all’aria. Durante il puerperio si tende poi a somministrare dei cibi caldi, dosando con attenzione la quantità di questi ultimi. Sempre secondo la credenza popolare, il loro eccesso potrebbe infatti causare delle emorragie. Esiste infine un piatto speciale per chi ha partorito, a base di pollo e varie spezie, molto calorico.
Il postulato che sta alla base di questa concezione è legato all’ipotesi di un’influenza sulla temperatura corporea da parte di diversi fattori, come il sesso e l’età, oltre che alla condizione fisiopatologica dell’organismo in quel momento. Secondo questa credenza, gli individui di sesso maschile sarebbero pertanto più caldi e quelli di sesso femminile più freddi. Anche i giovani manifesterebbero un più elevato livello termico rispetto agli anziani, soggetti in cui lo spirito vitale tenderebbe a raffreddarsi e ad immobilizzarsi lentamente con il passare degli anni. Tale credenza parrebbe ricollegarsi, in modo non consapevole, all’antica concezione ippocratica sulla natura degli esseri viventi.
Secondo l’antico insegnamento ippocratico, a ognuno dei quattro umori prevalenti che pervadevano il corpo umano, il caldo, il freddo, l’umido e il secco, faceva da riferimento un tipo caratteristico di personalità. Si trattava di una concezione del corpo come un insieme armonico da rispettare nel suo equilibrio, una concezione che è durata per secoli, fino alla nascita della moderna Anatomia e Patologia. Secondo questa credenza del Nord Africa le diverse condizioni della temperatura corporea seguirebbero in parte il secondo principio della Termodinamica. Naturalmente la credenza popolare è all’oscuro di tale parentela, anche se la concordanza argomentativa appare suggestiva. In base al Secondo principio della Termodinamica infatti, si afferma che la dispersione di energia che può avvenire tra due sistemi a temperatura differente, darà luogo ad un aumento dell’Entropia e del disordine molecolare. La conseguenza pratica di tale regola, dovuta alla dispersione del calore, consiste nella impossibilità di costruire motori dal rendimento energetico pari al 100% dell’energia impiegata, perché una parte dell’energia adoperata non sarebbe più riutilizzabile dal sistema che l’ha prodotta.
Ludwig Boltzmann (1844-1906), probabilmente il più geniale fisico della sua epoca, aveva intuito verso il 1880 come la materia, in determinate condizioni di stato e temperatura, non si comportasse come avevano predetto dovesse accadere degli illustri scienziati suoi predecessori, quali Isaac Newton e Galileo Galilei e come continuavano a sostenere i più autorevoli fisici e accademici del suo tempo. Le molecole di un gas, sottoposte a riscaldamento, andavano incontro a un tipo di moto imprevedibile secondo una sequenza matematica classica.
Si disponevano irregolarmente, in una modalità che era descrivibile solo tenendo conto di traiettorie probabilistiche casuali, che potevano essere rappresentate attraverso calcoli basati su questa considerazione. La materia diventava così spiegabile e comprensibile in alcuni suoi comportamenti unicamente facendo intervenire dei fattori probabilistici. La seconda legge della Termodinamica, studiata dal fisico austriaco, minava alla base la natura rassicurante dell’Universo newtoniano. Introduceva il concetto pericoloso, per la fisica classica, che la materia potesse essere caratterizzata da una sua capacità di disporsi e di strutturarsi in modo irregolare se riscaldata. La conseguenza di questa valutazione era inquietante. Se esistevano dei piani o dei progetti di un’intelligenza superiore dietro al mondo, quale gli scienziati lo avevano da sempre indagato, questi progetti andavano cercati con altri strumenti e soprattutto con altri occhi. (2)
Nella comprensione del Dolore e nel modo con cui confrontarsi con esso, occorre ricordare come le diagnosi e le terapie cui i malati appartenenti a culture diverse da quella Occidentale vanno incontro siano da questi ultimi interpretate utilizzando dei punti di riferimento originati dalle loro specifiche tradizioni culturali. Persone appartenenti per educazione e formazione a una particolare cultura utilizzano in modo consolidato la loro esperienza sociale ed educativa per interpretare la natura, la malattia e il dolore. Gli esseri umani reagiscono in modo differente a una ferita o ad un disturbo patologico di natura non traumatica. La loro soglia di sensibilità al dolore non è mai simile in ognuno di loro.
L’atteggiamento che essi avranno nei confronti del dolore potrà essere definito solo in termini di probabilità e mai di certezza, prima del confronto con la realtà dei fatti. Persone differenti possono rivelare sensibilità e capacità di resistenza diverse a seconda del tipo di male che li ha colpiti e della loro condizione esistenziale. L’esperienza umana di un celebre pittore come Edvard Munch (1863-1944) lo ricorda in modo chiaro.
pagina 1/2 - pagina successiva
Libri pubblicati da Riflessioni.it
RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA 365 MOTIVI PER VIVERE |
|