Esperienze di vita Indice
Fin dentro l'anima
(racconto autobiografico)
Di Graziella Rizzi - Settembre 2013
PRESENTAZIONE DELL’AUTRICE
Nel mio breve romanzo autobiografico, rivedo le immagini della mia vita, riferendomi ad alcuni cardini fondamentali.
Ho lasciato affiorare i ricordi, distinguendoli nei momenti diversi che rappresentano le sei parti in cui è diviso il testo ( Legami, Itinerario, Segni, Il mio mare, Un amore difficile, Ambra ) e che costituiscono delle unità autonome.
C’è un inizio che, con rapidi flash, anticipa i tratti salienti della mia vita, preparando la riappropriazione di me stessa e poche righe conclusive sul mio cammino fino ad oggi.
Si tratta di una narrazione in cui le parti si intrecciano, ma potrebbero anche essere racconti dotati di vita propria.
Alle sei parti, infatti, ho dato un titolo e non un numero di capitolo.
In ogni racconto vengono rappresentati a volte gli stessi luoghi, le stesse persone o altre che sono state presenti o importanti per me, ma in situazioni che hanno sfumature diverse.
E’ come se la mia storia venisse ripercorsa per sei volte, in un continuo dipanarsi dei fili della memoria.
Insieme ai miei ricordi, scorrono sessant’anni di vita italiana, soprattutto nei cambiamenti della sua quotidianità.
Al mio lavoro di professoressa nella scuola statale ho dedicato numerose pagine in Itinerario, ma il segno di questa esperienza è rintracciabile in ogni parte.
Ho sentito la necessità di scrivere un’autobiografia, perché penso che ogni vita, anche se vissuta in modo normale, come la mai, sia degna di essere raccontata, in quanto straordinaria nella sua unicità.
Nella narrazione mi è piaciuto tornare alle mie radici profonde, al nucleo originario in cui già era presente quello che poi sarei diventata.
Ho cercato di far capire quanto sia stato importante per me seguire un percorso di ricerca del senso di umanità che dovrebbe caratterizzare ogni aspetto dell’esistenza.
Fin dentro l'anima (racconto autobiografico)
Graziella Rizzi
Da tempo sentivo l’esigenza di scrivere qualcosa sulla mia vita, da quando ancora facevo la professoressa di Lettere alla scuola media.
Sono stata fortunata, perché ho avuto la possibilità di andare in pensione a poco più di sessant’anni, qualche mese prima che cadesse sulla testa di altri quasi coetanei una riforma pesante proprio per chi si sentiva quasi vicino alla meta.
La scuola, la tanto discussa scuola pubblica italiana, è stata per me una grande passione, da quando a ventiquattro anni con una laurea in Filosofia e tanti sogni in testa ne sono entrata a far parte.
Era il lavoro che avevo scelto e che volevo fare a tutti i costi, anche se mi aspettavano quasi dieci anni di precariato e di alzatacce all’alba per raggiungere destinazioni lontanissime, disseminate nella vasta provincia di Milano, con pullman scalcinati o con una Fiat 126 bianca che mio padre mi aveva regalato per la laurea, ma che stentavo all’inizio ad usare per una mia innata cattiva disposizione alla guida.
Se penso a quella utilitaria bianca, mi viene da sorridere, mi rivedo giovanissima e titubante al volante, oppure mi ripenso qualche anno dopo quando avevo finalmente conquistato una sede di ruolo a Seggiano, frazione di Pioltello. La minuscola vettura era stracolma di colleghi che mi chiedevano un passaggio, soprattutto dopo le riunioni che si protraevano fino a sera ed io mi sentivo più disinvolta e veloce nel percorrere le distanze, perché ero diventata mamma e avevo fretta di tornare a casa ad occuparmi della mia piccola Ambra.
Anche i miei non sono stati tempi facili, il precariato c’era già nella scuola, per non parlare della flessibilità sul lavoro che faceva passare da supplenze, anche molto brevi, al liceo classico ad altre in scuole medie dell’hinterland milanese o ad altre ancora in istituti tecnici o professionali: linguaggi , modalità di comunicazione assolutamente diversi e necessità di adattarsi, di ricominciare ogni volta daccapo.
Sono diventata di ruolo alla Scuola media e ho dovuto rinunciare ad insegnare Filosofia, benché avessi superato un concorso pesantissimo. Purtroppo il concorso era a zero cattedre e dava solo l’abilitazione. Avrei potuto avere una cattedra di filosofia anni dopo, ma ormai avevo deciso di continuare a fare la professoressa di Lettere alla Scuola media. Lo dicevo sempre, però, ai miei alunni “Insegno Lettere, ma sono laureata in Filosofia”.
Non te la togli di dosso una laurea in filosofia, ti rimane un modo di ragionare, di usare la testa, un metodo che poi trasmetti anche agli altri. Non credo di essere mai stata una professoressa pedante, mi veniva quasi d’istinto sollecitare a capire, a dialogare. Quando interrogavo i miei allievi, cercavo di aiutarli a tirar fuori le idee. Tutti le hanno, anche quelli che studiano poco.
Oggi si parla molto di meritocrazia, ed è giusto, chi studia e si impegna di più, deve avere un riconoscimento. Ma per quei ragazzi che hanno poca propensione allo studio, scoprire di essere in grado di capire e avere più fiducia in se stessi, può servire ad andare a scuola meno malvolentieri.
Gli ultimi sei anni di scuola sono stati per me molto pesanti.
Non avevo perso l’entusiasmo, mi piaceva sempre entrare in classe e ritrovare i miei allievi, ma ero logorata da un difficile situazione personale che dovevo conciliare con gli impegni di lavoro.
Dopo la morte di mio padre, evento per me catastrofico, avendo sempre avuto con lui un legame fortissimo, mi prendevo cura di mia madre che era stata colpita da Alzheimer ed emorragia cerebrale. Abitava lontano da casa mia, a Corsico, insieme ad una badante.
Sono figlia unica e le ho dedicato ogni spazio del mio tempo libero.
Adesso che anche lei se ne è andata, penso comunque di aver avuto il privilegio di starle vicino fino all’ultimo e di cogliere quell’affetto che riusciva a trasmettermi, anche se la sua testa sembrava ormai così lontana.
Ha aspettato a morire che io fossi libera dai miei impegni di lavoro. Seguirla nella sua lunga agonia in ospedale mi sarebbe stato quasi impossibile, se avessi ancora avuto un’attività lavorativa.
Il mio primo anno senza scuola se ne è andato così con il dolore per la scomparsa della mamma, i preparativi per il matrimonio di mia figlia Ambra che fino all’ultimo sono stati caratterizzati dalla suspense del “ci sposiamo, non ci sposiamo più” della giovane coppia che già viveva insieme da tre anni a Torino, ma era colpita dalla sindrome del passo fatale, soprattutto lui.
Alla fine si sono sposati, ma il matrimonio, la cui data era già fissata da tempo, è avvenuto il giorno dopo la morte di mia madre.
Sulle fotografie della cerimonia ci sono i segni della tensione e della stanchezza che mi sentivo sulle spalle in quei giorni.
Ho un marito che a modo suo mi è stato vicino. Mi sono rassegnata ormai a fare a meno del suo aiuto pratico, è sempre stato intellettuale e distratto. Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, per la precisione del Liceo classico Manzoni di Milano e abbiamo frequentato anche la stessa facoltà universitaria.
Due filosofi, insomma, con la differenza che io ho dovuto da sempre affrontare la vita concreta, lui non ne ha mai voluto sapere ed è sempre rimasto tra le sue nuvole e i suoi libri.
Sono emersa da poco, anzi non ho ancora finito, da tutte quelle pratiche burocratiche che ti assalgono quando devi sistemare una successione, alla morte di un genitore.
Io lo faccio per la seconda volta ed è sempre peggio. Un fiume di carte e di soldi per tasse, notai, errori dei notai, inghippi della banca, liquidazione della badante, agenzia immobiliare per la vendita dell’appartamento dei genitori, sgombro dello stesso e sistemazione degli oggetti più cari e dei ricordi, ma il mondo di banche, notai e affini non mi appartiene.
Mi sembra di aver corso per anni, senza potermi fermare, sempre in prima linea.
Ho bisogno di tempo per me stessa, per guardarmi dentro, per ritrovarmi.
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