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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

Don Carmelo

Aprile 2007

 

Correva l’anno 1975 quando l’esperienza del Centro di Controcultura di Sanremo naufragò definitivamente, e il sottoscritto e la sua ragazza Lisa decisero di prendersi una vacanza dall’esperienza di hippies politicizzati per dedicarsi a quella di hippies tout court.  Andammo a Londra.

Arrivavamo un po’ in ritardo, ovviamente: gli anni belli del movimento erano già passati, i beautiful people degli esordi erano un ricordo leggendario, gli idealisti erano ormai una piccola minoranza in un ambiente sempre più sottoproletario, tossico e sfigato.

Oggi gli squat di Skinner Street, ai margini del quartiere di Islington (la bella Londra dickensiana di mattoni rossi) non esistono più: al loro posto, mi hanno detto, hanno fatto un grande parcheggio. Ma nella nostra memoria, e in quella delle centinaia di hippies che ci vivevano, quei sei o sette giganteschi palazzoni non crolleranno mai. Dichiarati inagibili dopo la fine della guerra, erano stati occupati poco alla volta fino a riempirsi. Non si pagava riscaldamento, luce, acqua, niente. Il postino non ci passava più dopo che gli avevano sparato.

Ai piani bassi vivevano gli immigrati africani illegali, che utilizzavano le vasche da bagno come toilettes e buttavano la spazzatura nella tromba delle scale. Facevano tutti i papponi, e si può dire che non passava giorno senza che volasse qualche coltellata, con pittoresco contorno di strida e irruzione degli sbirricoi manganelli che a volte sfociava in intere nottate di guerriglia urbana.

Dal terzo piano in su fluttuava in permanenza, giorno e notte, una nuvola di fumo. Nel fumo c’eravamo noi, nei nostri appartamenti con tappeti, cuscini, lo stereo, i dischi dei Pink Floyd, poltrone recuperate nelle discariche e tutte le droghe possibili nascoste dietro la piastrella o nei buchi del muro.

I piccoli movimenti di fumo e trip non erano in verità la nostra unica risorsa. C’era qualcuno che lavorava davvero, di solito come lavapiatti o cameriere, e questi erano i più rispettati, sempre circondati da una piccola corte di ragazze. C’erano quelli che avevano lavorato il tempo necessario per aver diritto alla Social Security (non lo sapevano, ma la signora Thatcher stava già dietro l’angolo) e c’erano i ladri, tra i bucomani soprattutto. Poi, la sera del lunedì dopo le sette, l’intera comunità fluiva nella vicina Exmouth Market a rovistare tra gli scarti buttati via dopo il mercato: se ne cavava abbastanza verdura da farci una buona minestra per l’intero squat.

Che musica mi è rimasta di quei giorni? Beh, molta la facevamo noi, altra la andavamo a sentire nei pub, o nei vari concerti nei parchi. Ma come sempre succede, quelle che restano nella memoria sono le canzoni. Tutte le radio dello squat erano perennemente sintonizzate su Radio Caroline, la radio libera che trasmetteva da una nave (non so se esiste ancora). Ricordo soprattutto una canzone di un nuovo gruppo di ragazzi giovanissimi che non ci piaceva, anzi la odiavamo tutti – primo perché ci sembrava che prendesse in giro gli italiani, secondo perché quel suo nuovo sound lezioso suonava un po’ come la campana a morto del movimento hippie, che giorno dopo giorno vedevamo dissolversi intorno a noi nell’eroina. Era Bohemian rapsody dei Queen.

E che gente mi è rimasta? Troppa per parlarne qui – Maria, una bella ragazza greca che tutti i giorni faceva il giro dei negozi di Carnaby Street e ne tornava stracarica di bellissimi vestiti che regalava a tutti.  Non la beccavano mai.  Mi diceva spesso: Daniele, you think too much.  E Eno di Borgosesia, giocavamo a scacchi in trip, mi batteva sempre. E Enrico, un disegnatore di fumetti bravo come Andrea Pazienza: viaggiava a una media di sette-otto trip al giorno, li buttava giù come se fossero mentine e trascorreva giorni interi a fare splendidi disegni su qualunque cosa. Enrico mi insegnò cos’è un artista puro: una persona talmente presa della sua arte che davvero per lei fuori dall’arte non c’è NIENTE.

A qualche centinaio di metri da Skinner Street c’era Saint Peter, la chiesa degli italiani di Londra. Gli emigranti italiani non avevano niente in comune con noi né noi con loro. Ci detestavano a morte, soltanto i più caritatevoli assumevano qualcuno di noi come lavapiatti per qualche settimana, di solito in nero che non serviva nemmeno per la Social Security.

Padre CarmeloIl viceparroco di Saint Peter era Don Carmelo Di Giovanni [Ndr chiamato anche Padre Carmelo]. Un giovanotto calabrese grassottello sui trent’anni. Portava i capelli lunghi, intendo dire al massimo della lunghezza che un prete si può permettere. Ogni tanto, non invitato, veniva nello squat e si sedeva con noi sui cuscini. Gli passavamo il chilum, ma lui non fumava e lo passava al vicino.

Era difficile che si fermasse più di un quarto d’ora. Certe volte stava in silenzio, altre volte si informava con tizio o tizia se aveva mandato gli auguri di Natale alla madre o cose del genere. Non faceva discorsi da prete, non parlava mai di religione o fede; anzi, se qualcuno appassionato di chiacchiere spirituali (sapete a chi penso) cercava qualche volta di  portare il discorso da quella parte, manifestava segni chiarissimi di insofferenza.

Il primo ad accorgersi  che Carmelo aveva qualcosa di strano fu il mio amico Mario (anche lui un reduce del mitico Controcultura Sanremo) la notte che uno sbirro in borghese declinò cortesemente la sua offerta di qualche oncia di ottima erba nigeriana, lo prese per la collottola lo caricò su una macchina e lo portò al suo comando per sbatterlo sottochiave in una celletta di tre metri per due, non prima di avergli illustrato in modo esaustivo – col supporto di un collega - i molti possibili usi di quel versatile attrezzo che è il manganello.

Mario fu condannato a due mesi, e Carmelo una volta o due alla settimana veniva a trovarlo. La prima volta, quando vide che lo avevano menato, fece un gran casino: lui così piccoletto minacciava con l’indice quei due poliziotti grandi e grossi, e Mario fu sorpreso di vederli rossi in volto e vergognosi, con gli occhi bassi. Poi vabbè, tornava, gli portava frutta e noci e le solite cose, gli faceva da tramite coi genitori che stavano in Italia – fin qui tutto normale.

La cosa non normale è che Mario, quando uscì dopo due mesi, non tornò in Skinner Street e andò difilato a bussare alla sua porta. Carmelo gli trovò un appartamento a Peckham e un lavoro. Mario lavorava nove ore al giorno come magazziniere, smontava alla sera e andava da lui per aiutarlo.

Il sabato e la domenica li passava ancora con noi. Era lo stesso Mario di sempre, con ottimo fumo e buon gusto per le ragazze, per niente avviato sulla via della conversione.

Ci raccontava di Carmelo e ci diceva “Non è un uomo: è un alieno. Non dorme mai. Si dimentica di mangiare. E non va in chiesa: non ha tempo. Tutta la notte la passa a fare i pacchi per i carcerati. Prende il treno alle quattro di mattina e si fa ogni giorno due o tre carceri diverse. Torna alla sera e va a comprare quintali di roba da mangiare e vestiti da mettere nei pacchi. Poi va in ufficio, si attacca al telefono e comincia a martellare i parrocchiani chiedendo offerte; poi ricomincia a fare i pacchi, e avanti così.”

“Lui…” Mario esitava, stentava a trovare le parole “…lui non vive mangiando: lui  SI  NUTRE  di quel che fa.”

Questi discorsi destarono la mia curiosità e mi spinsero ad andare a far visita a Carmelo alla Saint Peter’s. Un paio di incontri, un paio di brevi chiacchierate che non ebbero seguito, salvo per il fatto che mi trovò un posto come lavapiatti in Baker Street dove durai un paio di settimane.

L’unica cosa che mi ricordo di quel posto è che andavo a lavorare col 159, che passa da Abbey Road: mi mettevo sul piano alto e tutte le mattine la candida palazzina della Apple sfilava sulla mia sinistra, incredibile come era piccola, molti posti dove è passata la storia sono più piccoli di come uno se li immagina. Ah, e poi vabbé, c’era anche un cuoco spagnolo che si chiamava Pablo e sembrava proprio quello della canzone di De Gregori.

Il fatto è che Carmelo, con quei due incontri insignificanti entrò nella mia mente proprio come aveva fatto con Mario. Non so spiegarlo bene. Immagino la cosa proprio come se, mentre parlavamo, un suo doppio invisibile si fosse staccato da lui, si fosse presentato alla porta del mio cervello con un mazzo di chiavi e una dopo l’altra le avesse provate fino a trovare quella giusta. Ha aperto la porta ed è entrato.

Dopodichè non ha fatto niente; voglio dire, non è che si sia messo a rompere i coglioni con discorsi del tipo sei un empio pentiti, non ha mai minimamente interferito in quel che facevo dicevo e pensavo. Semplicemente si è seduto lì e mi sta a vedere. Sono passati più di trent’anni, sta ancora seduto lì ed è un gigante. Non penso a lui molto spesso, anche se ricordo tutto di lui. Mi viene in mente a tradimento diciamo un due o tre volte all’anno, senza apparente connessione con quello che sto facendo, e per un attimo mi sento invaso da un’emozione incredibile e lotto per non piangere; poi passa subito.

A proposito di questa cosa del venir da piangere: credo che sia un segno distintivo della santità far venire da piangere alla gente senza motivo. Io per esempio non ho molta simpatia per i Carabinieri, eppure quando vedo la foto di Salvo D’Acquisto mi viene da piangere.

Ci sono tanti martiri della Resistenza eroici quanto  lui, più di sinistra di lui, più vicini a me di lui in tutti i sensi; li rispetto enormemente, eppure questo effetto non me lo fanno. E qualche volta lotto per non piangere perfino quando sento raccontare di Madre Teresa che convertiva la gente per forza.

Questa cosa, credo, non succede soltanto a me: succede anche e soprattutto alle persone più indifese di me, che non hanno anticorpi intellettuali per difendersi dalla fede. Rabbrividisco al pensiero dell’effetto che un Carmelo, un Salvo D’Acquisto o una Madre Teresa devono fare sul cervello delle persone semplici: entri in contatto con loro una sola volta e sei fregato, ti hanno preso per tutta la vita. Ti fanno diventare cattolico, facendoti involontariamente un gran dispetto, perché essere cattolico o meno con quello che loro sono non c’entra niente.

Cioè, voglio dire: sono pronto a giurare che, se Carmelo fosse vissuto a Mosca tra le due guerre, l’idea di farsi prete non gli sarebbe neanche passata per la testa. Sarebbe entrato nel Partito Bolscevico e avrebbe fatto un gran casino come rivoluzionario fino ad arrivare abbastanza in alto da poter disporre di finanziamenti; dopodichè avrebbe cominciato a fare la stessa cosa che fa adesso, cioè dilapidare milioni di rubli di proprietà del popolo per alleviare le pene dei detenuti nei campi di lavoro, scampando alle attenzioni del KGB in virtù della sua immagine di insospettabile membro del Partito senza macchia e ateo fra gli atei.

E lo stesso, si badi bene, se fosse nato in America tra i Protestanti, o in Africa tra i Masai, o in qualunque altro posto di questo mondo. Sono gente fatta così, le circostanze esteriori per loro non contano: vanno avanti a testa bassa e fanno quel che si sentono chiamati a fare.

Non molti anni dopo aver conosciuto Carmelo sono diventato un esoterista;  ho letto molti libri che parlano di come funziona la nostra mente, e credo di aver capito meglio cosa sono i santi.

Gurdjieff spiegava dell’incapacità dell’uomo comune di pensare in modo corretto, il che lo rende vulnerabile all’influenza di quei quattro gatti – saranno uno su un milione – a cui la natura, per disegni suoi imperscrutabili, la capacità spontanea di pensare in modo corretto glie l’ha data: la forza emozionale che emana da queste persone è quella di un jet paragonata a quella di una cinquecento, perché hanno il potere di produrre “emozioni positive”, emozioni cioè che non sono una semplice risposta meccanica agli input che ci arrivano dall’esterno, bensì generate da loro stessi mediante un atto di volontà.

Bene, i santi appartengono esattamente a questo uno su un milione di persone consapevoli “nate così”; che si distinguono abbastanza nettamente da quell’altro uno su un milione di consapevoli “di formazione esoterica” che lo sono diventati poco alla volta, come me e qualcuno di voi. Si distinguono soprattutto perché, a differenza di quei parvenus che noi siamo,  i consapevoli “nati così” non danno la minima importanza alle teorie esoteriche sulla consapevolezza.

Voi direte: grazie tante, Carmelo è un prete, ma non è quello il punto: per un prete abbastanza anticonformista da far girare il chilum con gli squattati, leggersi un libro scomunicato di Gurdjieff e Ouspensky non sarebbe poi un problema. Il punto è: cosa se ne fa Carmelo di un libro così? Lui la consapevolezza non ha bisogno di conquistarsela, ce l’ha già.  E’ un po’ lo stesso caso del figlio di papà che non dà importanza al denaro, anzi non ha mai realizzato nemmeno quanto sia importante nella vita non essere povero, e trova ridicoli quegli sciocchi che trascorrono le giornate arrabattandosi di qua e di là per fare i soldi.

Di conseguenza, un santo il più delle volte non ha la minima cognizione della propria eccezionalità. La gente dice “guarda come è umile”, ma non c’entra niente: è che proprio non lo sa, anzi (come chiunque) tende a pensare che tutti gli altri siano come lui.  Poiché non è così e gli capita di sperimentarlo ogni momento, lo sforzo per decifrare il significato delle azioni altrui diventa per lui un’abitudine costante, quasi un’ossessione; ha un peso determinante nel cronicizzate la sua caratteristica più singolare, quella di mantenere l’attenzione costantemente focalizzata sugli altri.

A questo punto il nostro giovane santo è diventato un fissato del sociale, e ha due opzioni: la prima è nutrirsi dell’energia vitale degli altri,  ma non tarda a rendersi conto che non può,  perché così li ammazza; anzi non ci riesce nemmeno, perché gli altri scappano prima, e il santo (che non conosce la teoria della consapevolezza) non sarebbe mai capace, come lo sarebbe un consapevole di formazione esoterica, di ammazzarli e nutrirsene a distanza.

E poi comunque questa idea non gli piace, perché essendo la sua attenzione cronicamente focalizzata sugli altri il santo crede di amarli, e gli fa più piacere mantenerseli intorno vispi e arzilli.

La seconda opzione è trasmettere agli altri emozioni positive, che essendo poco comuni agiscono sulla persona che le riceve come un forte choc. Questo choc non fa male alla salute, anzi al contrario: per tramite del sistema nervoso dà una sferzata al metabolismo del ricevente, consentendogli per qualche attimo di riprodurre a sua volta energie analoghe. Che però egli, non essendo dotato di consapevolezza, non è in grado di trattenere; e quindi ritrasmette al santo le energie che gli aveva mandato più quelle nuove, cioè praticamente raddoppiate.

Si crea in questo modo un circolo virtuoso forzato, che deve essere alimentato tutti i giorni con buone azioni.

Cose del genere non succedono a noi consapevoli di formazione esoterica. E’ difficile per noi ascendere un po’ alla volta fino a raggiungere il grado di consapevolezza di un Carmelo; ma se ci riusciamo, questo significa che siamo molto furbi, e oltre ad esserlo conosciamo meglio di lui anche la teoria,  per cui non cadiamo in trappole del tipo credere in Dio e farci preti.  Guardiamo ai santi solitamente con simpatia, ma la loro dieta monotematica suscita in noi una leggero brivido di repulsione.  Pensiamo: se quei ragazzi fossero andati a scuola come ho fatto io, avrebbero imparato che il menù energetico si può anche cambiare.

 

Tanto la prima che la seconda classe di consapevoli si dividono in sottoclassi. C’è per esempio un'altra sottoclasse di consapevoli “nati così”, alla quale appartengono Gesù, Maometto e gli altri Profeti. A un’occhiata superficiale questi signori sembrano molto simili ai santi, ma appartengono in realtà a una specie completamente diversa.

Intanto, vengono fuori tardi: per molti anni nessuno sente parlare di loro, poi saltano fuori  dal niente e si mettono a fare cose fenomenali. Fanno così perché, a differenza dei santi, sono molto ideologizzati: credono nel senso della storia e pensano di avere una missione da compiere, quindi prima di venire allo scoperto hanno bisogno di prepararsi bene.

Sull’altra riva, tra i consapevoli di formazione esoterica, troviamo la variante laica dello stesso tipo sopra citato (Hitler, Stalin,  eccetera), molto vorace di anime e molto odiata dagli uomini comuni, poco propensi a cogliere certe sfumature un po’ grossolane del loro umorismo. La stessa categoria annovera anche una sottoclasse “mammona”, composta cioè da consapevoli che nell’ambito delle proprie attività decidono di non trabordare dal microcosmo protetto dell’esoterismo, per cui di solito fanno meno danni dei loro cugini; a questa apparteneva il già citato Gurdjieff e (nel mio piccolo) anch’io.  Siamo un tipo di gente che si concentra sulla trasmutazione, cioè sul lavoro interiore, e ama rivolgere le proprie capacità di realizzazione a obbiettivi molto specialistici, ristretti e limitati.

Ce ne sono anche altre varietà non meno importanti, per esempio i consapevoli sconosciuti, o i consapevoli di indirizzo motorio (Maradona) o i consapevoli nichilisti che si focalizzano sull’irrealtà del mondo e così via; ma appunto, questo articolo non è un catalogo delle varie forme di consapevolezza, quindi lasciamo perdere e torniamo al mio amico Carmelo.

 

Qualche anno fa su di lui hanno scritto un libro, probabilmente il primo di una serie destinata a diventare assai lunga. Si intitola “Un prete ribelle. La storia di padre Carmelo Di Giovanni”. E’ stato scritto da una giornalista cattolica ed è uscito per i tipi di una casa editrice cattolica. Ora, parrà impossibile a qualsiasi essere ragionevole che un libro scritto da una giornalista cattolica per lodare un prete cattolico possa essere bello, eppure questo lo è quasi. Si sente molto Carmelo, basta aprirlo e leggere due righe che la forza della sua mente ti salta addosso, ti inonda.

Ora, naturalmente, il titolo del libro è sbagliato. D’accordo, Carmelo da ragazzo andava allo stadio con gli ultrà, diceva le parolacce, quand’era più grande ha litigato con qualche vescovo, ecc., ma col cavolo che è un prete ribelle. Mai conosciuto un prete meno ribelle di lui: non è mica scemo. Per fare il bene servono i soldi, e ai ribelli chi glie li dà?

Ed è sbagliata ovviamente anche un’ altra cosa, ma in questo caso si tratta di un errore rituale che fa parte dei doveri di ogni brava giornalista cattolica: gli sforzi per presentare il santo come una persona normale – un figlio normale, un fratello normale, uno studente normale in cui nulla, proprio nulla  lasciava presagire la futura santità: perfino il fatto che ebbe una fidanzata danese viene enfatizzato allo spasimo, come per dire: vedete, trombava anche lui.

Ci sono poi tante cose che il libro dice e io non sapevo: per esempio, che Carmelo è ormai diventato una celebrità. La sua tecnica di abbordare la gente, scambiarci poche parole, aprirsi un varco nel suo inconscio e da quel momento in poi ossessionarla per sempre ha funzionato anche con molti VIP, che sono diventati testimonial delle sue raccolte di fondi. Tra questi anche Maurizio Costanzo, che l’ha ospitato varie volte nei suoi programmi.

Immagino con piacere la bella figura che deve aver fatto, lui santo vero, davanti al pubblico televisivo abituato ai santi finti che vanno in televisione come truppe di complemento del centrodestra (qualcuno anche del centrosinistra).

Infatti il successo lo ha baciato. Ai miei tempi Carmelo faceva tutto da solo, adesso la sua organizzazione per l’assistenza agli sfigati di Londra si sta allargando a macchia d’olio, vanta diversi testimonial famosi, può contare su un budget crescente. Sta diventando un’istituzione.

E anche la fama di santità di Carmelo sta crescendo. A sempre più persone viene da piangere improvvisamente pensando a lui.  Il libro, che pure narra di parecchie cose assolutamente straordinarie che lui ha fatto, evita con palese attenzione di utilizzare la parola “miracolo”: per chi si intende di cose cattoliche, indizio più netto non si potrebbe trovare che la giornalista è consapevole di trovarsi alle prese con un futuro santo, e omette espressamente di inviare quei “segnali forti” che potrebbero interferire con il futuro processo di beatificazione.

Carmelo, insomma sta diventando il più probabile candidato alla successione di Padre Pio nella hit parade della devozione popolare degli italiani. Ma d’altra parte, sta benissimo di salute, e non sembra che abbia nessuna intenzione di assurgere prematuramente alla gloria degli altari.

Un giorno o l’altro lo farò: dopo più di trent’anni tornerò a Londra, scenderò a Heatrow e in taxi mi farò portare a Victoria, dove scendevamo distrutti dopo ventisei ore di viaggio in treno ogni volta che tornavamo dall’aver portato i trip in Italia. Da Victoria salirò sul 38, che attraversa il centro passando per Piccadilly. Alla quarta fermata di Farringdon road scenderò davanti al Wimpy, chissà se c’è ancora, pazzesco come erano buoni quei gelati al cioccolato e banana. Percorrerò Exmouth Market e andrò a passeggiare sul parcheggio che c’è al posto di Skinner Street, magari penserò a quelli che sono morti di eroina, non so.

Di lì alla Saint Peter Church. Salirò le scalette, girerò a sinistra e Carmelo sarà lì nel suo ufficio davanti alla scrivania. Lo guarderò e gli dirò “Ehi Carmelo, lo sai cosa dicono? Che sei l’erede di Padre Pio” e lui mi risponderà con una parola che non posso scrivere.

 

Daniele Mansuino

 

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